In un suo racconto (Dall'ignoto) è una macchina a realizzare il desiderio di poter «guardare l'origine della creazione». La sua fantasia realizzerà invece un libro magico, il Necronomicon, che nelle sue formule racchiude tutti i misteri dell'universo. Ma il potere della parola si rivelerà gioco, finzione. Le formule misteriose sono solo «un alfabeto fittizio» (L'orrore di Dunwich) e dietro il linguaggio appare solo l'immagine del mondo. «Yog-Sothoth è la chiave [... ] sa dove gli Antichi [... ] hanno calpestato i campi della terra [... ] nessun uomo conosce le loro sembianze, eccetto soltanto nei lineamenti di coloro che essi hanno generato tra l'umanità: e di quelli ne esistono diverse specie [... ] dalla più reale immagine dell'uomo a quella forma invisibile e priva di sostanza che è Loro. Camminano non visti [... ] Il vento borbotta con le loro voci e la Terra mormora con la loro coscienza [... ] quale uomo conosce Kadath? [... ] neri abissi di essenza e entità [... ] si estendono come titanici fantasmi oltre tutte le sfere di forza e materia, di spazio e di tempo» (L'orrore di Dunwich). Non possediamo della realtà l'essenza invisibile, ma solo tracce, segni, immagini. La «cosa senza corpo», invisibile, si può intuire ma non definire. La scrittura ne segue la traccia, arrestandosi ai suoi limiti, ripercorrendone i contorni e descrivendone i lineamenti come per contrasto. Tutto ciò che manca è stato risucchiato dalla «cosa». Sembra che laddove essa avanza regredisce la scrittura, arretra il suo potere. Ciò che è distrutto viene «cancellato», sottratto alla parola. L'orrore è informe e indicibile e quando la scrittura cercherà di definirlo il mostro sarà una caricatura, goffo e grottesco, con tutta la banalit.à degli oggetti di uso quotidiano con i quali è costruito. Lovecraft non riuscirà mai a liberarsi dalla suggestione dei suoi modelli letterari e il ricorso agli esempi pr~cedenti, anche se in toni a volte ironici e caricaturali, sembra esprimere, pur nella consapevolezza del gioco e della ripetizione, della riscrittura, una persistente nostalgia. Q ual è l'obiettivo dell'ultimo romanzo - ma sarebbe più giusto definirlo meramente: prosa - di Giuseppe Conte? Equinozio d'autunno non è, in nessun modo, un romanzo d'intrattenimento, e d'altra parte ostenta un disinteresse radicale per il problema narratologico: non è ciò che è stato il romanzo negli anni sessanta, cioè teoria del romanzo, metaromanzo, antiromanzo, ed è ancor oggi per qualche nostalgico; non è romanzo psicologico, o realistico, o ideologico; non è romanzo di pura narrazione; non è neppure prosa d'arte, come lo erano le Impressioni di Cardarelli o i Trucioli di Sbarbaro o il più recente per l'appunto ipermanieristico Angelo di Avrigue di Francesco Biamonti. Equinozio d'autunno, eludendo a ogni pagina la nozione stessa di romanzo, insegue un suo difficile statuto di prosa monologa.nte e arrischiante, nonché la definizione e la diffusa espressione di una sola idea. Se un romanzo, a partire dalla grande tradizione settecentesca, segue o costeggia mille idee e mille forme della propria epoca, e guarda al mondo con piena soddisfazione, Ma in lui la parola può avere ormai soltanto una funzione evocativa, di una tradizione, dell'antico potere della parola, e non può che rimandare ad altre parole. Il suo universo verbale è quello della metropoli, in cui l'accumulo e l'omogenizzazione dei linguaggi impongono l'equivalenza e l'interscambiabilità dei segni'. Richiami letterari, simboli e frammenti di altri linguaggi, da quello della scienza a quello della psicoanalisi, decontestualizzati e svuotati dei loro significati originari, sono ricomposti in una nuova struttura, in cui gli stessi meccanismi dei generi vengono messi a nudo e rappresentati nella scrittura. Il suo stesso pubblico è presente sullo sfondo. Un pubblico costituito essenzialmente dai destinatari dei bollettini delle sue fantascientifiche esplorazioni o dai lettori dei giornali, incoscienti, increduli o, con splendida intuizione del fondamento del genere poliziesco, distratti e superficiali, incapaci di cogliere i significati oltre l'equivalenza formale dei messaggi che, ricostruiti nella loro intera sequenza, saranno invece decodificati dal detective. Oltre la prevedibilità e la ripetitività delle strutture narrative, si prospettano percorsi di lettura in cui, secondo i modi della detective-story, gli indizi, i segni, le tracce disseminate nel testo sono riconoscibili e decodificabili da un lettore avvertito, selezionato rispetto al lettore medio. Talvolta sono indizi gli articoli di giornale oppure coincidono sintomo e indizio, ·e in questo caso, strutturalmente, si identificano medico e detective. I Ma, più spesso, sono gli stessi segni verbali a rimandare a se stessi e sono allora indizi gli aggettivi (Aria I fredda) oppure è nel liqguaggio e nella scrittura la chiave dell'enigma, come Il caso Charlis Esther Aeschlimann Roth Dexter Ward, in cui il cadavere è occultato all'interno di una biblioteca: «[... ] siete stato un pazzo, Curwen, a sperare che una mera identità esteriore sarebbe stata sufficiente. Perché non avete pensato alla parola, alla voce e alla scrittura?» Sono pratiche in cui l'autore, proponendosi come mediatore tra il lettore e il testo, tenta di recuperare, anche sul piano narratologico, una funzione ormai negata dai modi di produzione dell'industria culturale. La critica inglese ha distinto, in maniera molto sottile, tra il terror, di natura psicologica, che fà leva sulla suspense, e l'horror, che punta invece sulla fisicità e crudezza degli eventi. Sono definizioni di carattere convenzionale, utili comunque ad esemplificare la natura di due diversi procedimenti narrativi. Il primo tende a creare soprattutto un'atmosfera di paura, in cui l'ignoto s'insinua in un mondo reale e familiare, creando l'attesa di un orrore sconosciuto e indefinibile. Tendendo la narrazione in un vuoto di ambiguità e accumulando tutte le forze necessarie alla realizzazione dell'effetto cercato, alle descrizioni si sostituiscono le impressioni. Il contesto viene filtrato attraverso la soggettività del narratore, mediante un'aggettivazione fortemente connotata, spesso ridondante e sovraccarica. È un tipo di linguaggio che si presta efficacemente al recupero della presenza dell'autore, che irrompe con la sua sensibilità deformante. Il secondo, basato anch'esso su procedimenti di carattere diegetico, mediante una descrizione più naturalistica del macabro fa appello alla sensibilità del lettore, alla sua fisicità, adoperando un tipo di aggettivazione capace di richiamare esperienze sensibili. Anche in In unterritoriomitico Equinozio d'autunno fa il vuoto nel mondo e vi sostituisce un assillo, un'idea fissa. Del mondo, Conte, che è innanzitutto poeta, non vede quanto nel mondo vedrebbe un narratore, cioè il tempo che «diviene tempo umano» (Ricoeur), la costruzione di intrighi possibili, l'organizzazione degli argomenti e il campo aperto della descrizione. Il dispiegarsi del mondo come è, e l'attività ordinatrice e nomologica di quel cronista ideale che è il romanziere, sono estranei all'idea del mondo che Conte persegue o dibatte in questa sua anomala narrazione: nel libro di leggende che il protagonista di Equinozio d'autunno va immaginando da un giorno all'altro, ma che non riesce a scrivere, c'è tutto il peso e l'oppressione di una grave disarmonia contemporanea; d'altra parte, nelle leggende effettivamente trascritte nel libro c'è il bagliore di una forma nascente e labile, la definizione - lirica e astratta: di idee che cantano, avrebbe detto Valéry - di un territorio mitico. Questi elementi cdntraddittori (di inerzia e di affermazione), presenti anche nel corso maggiore della narrazioGiorgio Ficara ne e nella costruzione dei personaggi, ci aiutano ad avvicinarci all'idea della prosa e più in generale all'idea di letteratura di Conte: se il mondo, la natura - che Conte ama illustrare e nominare in fantastici elenchi di aghi di pino, agrifogli, foglie scricchiolanti, eriche, felci bruciate, stagni, castagne luccicanti - è al tramonto, se «tutto muore e niente rinasce», dobbiamo credere tuttavia che questa morte, o prescrizione autunn.ille, abbia un suo linguaggio. La mitologia di Conte è obliqua e ansiosa in quanto riflette l'obliquità attuale del mondo naturale, ma, come ogni mitologia del passato, è forte in quanto connette l'interrogazione umana e la voce - forse l'ultimo filo di voce - della natura stessa. In questa precisione e instancabilità nell'interrogare da parte di chi, oggi, fa letteratura, e nell'esserci della natura, Equinozio d'autunno ricorda un altro grande non-romanzo contemporaneo, Palomar di Italo Calvino, ma con una sfumatura meno sillogizzante e meno empirista. Anche per Conte, nonostante le infinite aporie della nostra epoca, il mondo e la natura continuano a esistere o, come asserivano i suoi amati secentisti (cfr. G. C. La metafora barocca, Milano, 1972), a significare più o meno ingegnosamente: cinghiali a branchi migrano dal cuore dell'Europa alle montagne liguri, e Conte può immaginare il loro risveglio «tra i colchici e i rosmarini»; sciami di moscerini e altri insetti notturni si posano sul vetro di una finestra, e Conte li guarda e li studia appassionatamente; radici di pino emergono dal suolo in strani grovigli induriti, e Conte sa che si tratta di «un mondo a sé, un mondo di mezzo» fra il minerale e l'arboreo. Ma a differenza di Palomar, la cui furia inquisitoria si rivolgeva al cielo stellato e a un negozio di formaggi, alle onde del mare e a un crocicchio metropolitano, il protagonista di Equinozio d'autunno sembra affascinato da un unico oggetto, la natura vivente, e prigioniero di un unico pensiero: «pensiero mitico» direbbe Cassirer. Con un gesto sprezzante e sbrigativo, Conte lascia la civiltà ai narratori e si tiene per sé la natura, il peso e l'oscurità della sua destinazione. Egli non ha l'ottimiquesto caso l'autore si assume una funzione di mediazione che va oltre quella del semplice testimone. ' Sono due procedimenti distinti ma complementari. Con l'integrazione del lettore, l'orrore dallo spazio impalpabile e immaginario del testo si proietta in quello reale, sollecitando la produttività del lettore, investendo il suo corpo, stimolato al di s~- pra o al di sotto di un punto medio di equilibrio dei sensi. La corrispondenza tra i luoghi interiori e quelli del fantastico invera la finzione, realizzando lo scambio tra spazio reale e spazio immaginario. 5 Trasferendo il lettore nel luogo della rappresentazione, la finzione deve riprodurre tutti gli effetti che creano l'illusione dello spazio. Ma per dispiegare interamente i suoi effetti la rappresentazione stessa deve essere trasferita nel luogo del lettore, il sovrannaturale deve essere collocato in un contesto realistico. In Lovecraft la narrazione, ridondante per quanto riguarda il sovrannaturale, diviene quasi scarna rispetto al contesto. Scompare lo spazio circostante e la narrazione diventa priva di contrasti, prende il sopravvento un'atmosfera quasi favolistica. Manca quell'inesauribile possibilità di effetti data dal permanere sul limite delle due sfere, manca lo sconfinamento reciproco tra reale e irreale, perché non c'è confine e, a ben guardare, forse nemmeno due sfere. Note (1) Cfr. G. Briganti, I pittori dell'immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, Milano, Electa, 1977. (2) Cfr. M. Skey, Il romanzo gotico. Guida alla lettura e bibliografia ragionata, Roma-Napoli, Theoria, 1984; D. Punter, Storia della letteratura del terrore. Il «gotico» dal Settecento ad oggi, Roma, Editori Riuniti, 1985. Si tratta di due saggi che affrontano il tema della poetica del «sublime» e le sue interazioni con il genere gotico. (3) Cfr. G. Fink, / testimoni dell'immaginario. Tecniche narrative dell'Ottocento americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1978. (4) A.L. Rossi, L'immaginario urbano tra realtà e utopia, in La città e l'immaginario, a cura di D. Mazzoleni, Roma, Officina, 1985. (5) Cfr. A. Abruzzese, La paura, la letteratura e la scienza del territorio, in «Quinterni», n. 4, Bari, Coneditor, dicembre 1982. smo metodico (una specie di sguardo condiscendente) dei grandi narratori, né l'ottimismo insensato dei narratori odierni; diffida dell'intreccio e della mimesi classici quanto dell'automatismo narrativo contemporaneo; non vede il mondo come è ma come potrebbe essere domani o fra mille anni. Questo mondo non narrabile può esprimersi in un libro eccentrico e impaziente, che raccoglie macerie, erbe, rumori, rombi di tuono, piogge, maree, aurore, nebbie, e può attendere un altro libro non scritto, ma possibile, che ne chiuda e suggelli i frammenti: «Io volevo scrivere un libro di leggende di mare, di boschi, di divinità, di miracoli, dichiara il protagonista di • Equinozio d'autunno. Ne ho qui appunti, schede, frammenti. Pagine. Che un dio-ragazzo compassionevole e capace di portenti azzurri le visiti; mentre tutto muore e niente rinasce, completerà lui quel libro che io ho soltanto iniziato».· Giuseppe Conte Equinozio d'autunno Milano, Rizzali, 1987 pp. 156, lire 18.000 oO <:::S .:; ~ t::), I'- ~ ..... e ; .bo l'- 0\ i:: ~ <u ..C) ~ ,..____________________________________________________________________________ ___.,:::s
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