Alfabeta - anno IX - n. 97 - giugno 1987

Leavitt,MiQtf,EastonEllis David Leavitt La lingua perduta delle gru Tr. di Delfina Vezzoli Milano, Mondadori, 1987 pp. 295, lire 22.000 Susan Minot Scimmie Tr. di Chiara Rocco Spallino Milano, Mondadori, 1987 pp. 147, lire 18.000 Bret Easton Ellis Meno di zero Tr. di Francesco Durante Con un saggio di Fernanda Pivano Milano, Pironti, 1987 pp. 268, lire 20.000 I n questi mesi si parla tanto del «minimalismo» dei giovani narratori statunitensi, ed è anche chiaro che esiste una certa relazione tra loro e i nostri «nuovi romanzieri». Infatti l'etichetta assunta per designare i fatti d'oltre Atlantico ha in sé un'ambiguità che si adatta molto bene a quanto avviene anche presso di noi. Si tratta, in sostanza, di un clima in qualche modo riconducibile allo sperimentalismo: c'è del rigore, della radicalità, in quell'impegno a scrivere con mezzi parchi e ridotti, o comunque a perseguire una coerenza stilistica, ad affidarsi a una maniera. _Ma d'altra parte, come indica il termine, sono un impegno, un rigore «minimi», non particolarmente gravosi e difficili, né per chi li attua né per chi li consuma, per i lettori. O in altre parole siamo in presenza di un'avanguardia moderata, ovvero, come ama dire il sottoscritto recuperando vecchie proposte, «normalizzata», il che vale anche per i nostri «nuovi romanzieri». Insomma, ci viene offerto un «minimo» di avanguardia, che d'altronde è pur meglio di niente, e vale in ogni caso per rilanciare la narrativa, per farla uscire dalla forbice dannata degli opposti estremismi: o una scrittura sperimentale che per rigore tocca l'illeggibilità, o un'eterna ripresa del «romanzo ben fatto», inutile, pleonastico. Del resto, tra i connotati di questo sperimentalismo dei nostri giorni, «minimale» o «debole», come si potrebbe dire, riprendendo un altro termine oggi di moda, e il suo relativo carico di ambiguità, c'è anche quello per cui i protagonisti cui esso viene affibbiato in genere vi si oppongono, negando di fare gruppo, di adottare regole comuni. Ed è allora importante metterli alla prova in tal senso, andando a vedere se esista davvero un qualche comune denominatore, e oltre ciò, quali siano i valori specifici delle singole personalità. Un'occasione eccellente in questo senso ci è fornita dall'uscita in traduzione italiana dei romanzi di David Leavitt, Susan Minot e Bret Easton Ellis, tutti al loro esordio nel «genere lungo». Di esordio si l') può parlare anche per l'acclama- ~ tissimo Leavitt, in quanto fino ad -~ ora egli ci era apparso nei panni ~ ~ èlell'autore di racconti brevi ( Cor- ~ po di ballo, già recensito su queste -. colonne). Era inevitabile che lo ~ stesso ·successo· incontqtto 1~ ob- 1 ~ bligasse ad allungare il' passo e a ·bo misurarsi in un più vasto formato. I',.. °' Passo difficile, dato che l'arma mi- ~ gliore di Leavitt è l'understate- ~ ment, il porgere pochissimi ele- ~ menti nelle sue «storie», lasciando ~ un massimo di responsabilità interpretativa al lettore, che deve riempire i sapienti silenzi, le trame magre di fatti esterni, le circonvoluzioni dei sentimenti appena accennati. In tal senso Leavitt è anche un perfetto «minimalista». Invece il volume proverbialmente «a tutto tondo» del romanzo lo ha snidato, per così dire, obbligandolo a uscire in terreno aperto: con qualche imbarazzo, si può asserire in un giudizio globale. O almeno, si è alquanto ridotta l'accezione stilistica del puntare al «minimo», mentre è andata prevalendo l'accezione contenutistica; ma la modestia dei contenuti psichici, sociologici, di trama ecc. comporta una caduta nel crepuscolarismo, che è il rischio incombente su «questo» Leavitt, divenuto all'improvviso troppo analitico e circostanziato. È come se uno qualunque dei suoi racconti, tanto sapienti nell'arte del taglio e dell'ellissi, si zavorrasse con un eccesso di partico- , lari, rivelando la pochezza intrinseca dei materiali costitutivi. Per una conferma di un tale rischio, basta andare a prendere l'episodio che si pone al centro del romanzo, in una funzione «altra» ed eponima. È una specie di «caso clinico» freudiano, riportabile al «bambino delle gru»: un'esistenza derelitta e abbandonata, immersa nella fame e nel bisogno, che però a un tratto si consola incantandosi a guardare, dalla finestra del misero appartamento dove vive, i meravigliosi movimenti delle gru intente a qualche impresa edilizia. Il bambino si lascia assorbire da quell'oggetto del desiderio, tentando di simulare con le sue corde vocali i cigolii, gli stridori del mezzo meccanico (da qui appunto il titolo del romanzo, La lingua perduta delle gru), e perfino le sue movenze automatiche a scatti. Ed è anche, quell'inserto, un gioiello nel filone del «dire e non dire», del comporre con cenni magri, capaci di emanare un asciutto alone emotivo. Per un tale aspetto Leavitt raccoglie davvero un'eredità da Salinger. Ma negli altri capitoli del romanzo i protagonisti, che hanno il torto di essere «normali» come noi, avvicinano i termini delle loro sofferenze, così come, d'altra parte, gli oggetti del loro desiderio, uscendo dalla splendida «alterità» di quell'apologo centrale per delineare un pur esatto, onesto dossier delle nostre sofferenze e speranze. Si tratta di una famigliola newyorkese squallidamente mediana, alle prese coi problemi materiali della casa. L'anziana coppia di coniugi, Owen e Rose, è stata sfrattata, dovrà abbandonare, forse, l'amato quartiere del Middle East, dato che i due non guadagnano abbastanza; ed è anche il dramma del «proletariatQ. intellettuale», dei «colletti bianchi», o «rosa», ormai declassati; lui infatti è insegnante, sempre sottoposto al terrore di perdere il consenso degli allievi e delle loro famiglie; «lei» ha passato una vita come dipendente di una casa editrice che la obbliga a meticolosi controlli sui testi. Il giovane Philip, uscito di casa in giovane età, come è nel costume Usa, li segue a ruota in una professione altrettanto modesta. Questi tre tristi cavalieri percorrono le vie di Manhattan in perfetta solitudine, talvolta incrociandosi, più spesso divaricando le loro esistenze gracili, tanto bisognose di affetto, ovvero di ritrovare, ciascuno, una propria «lingua perduta delle gru», che forse, nel caso del padre e del figlio, altro non è se non il cedere alle lusinghe, alle promesse, alle distensioni dell'omosessualità: ossessione etica e sociologica incombente su Leavitt, attorno a cui egli sa tracciare senza dubbio un dossier amGruppo di Bitti Tenores Remundu 'e Locu pio, onesto, puntuale, esemplare per veridicità, per coraggio morale. Ma appunto, nel passo del romanzo, di dossier si tratta, ovvero di descrizione analitica, perfino naturalistica. Si vedano per esempio le precise cronache degli incontri occasionali che il «padre», Owen, si procura in qualche cinema a luci rosse, tentando di superare censure e resistenze in lui ben più consolidate che nel figlio Philip, aiutato per parte sua dalla giovane età, e da un mutamento in atto nei costumi, divenuti più aperti e concessivi. Quanto a Rose, essa si difende con amori eterosessuali ugualmente standardizzati e conformisti. Insomma, se si vuole un referto finale, questo è a compl~ta conferma della formula da cui eravamo partiti: nella seconda prova di Leavitt diminuisce il quoziente stilistico del «minimalismo», mentre aumenta, fino ai limiti del pericolo, quello in accezione crepuscolare. S i potrebbe dire, allora, che l'asticciola del minimalismo come fatto di tecnica, di maniera, passa in retaggio a Susan Minot e al suo Scimmie, non per niente tanto simile a un racconto lungo, anzi, a una collana di racconti, dove le vicende di una famiglia cattolica, numerosa di prole (ben sette figli), abitante nel Massachusetts, e comunque in uno scenario tipicamente New England, sono sorprese di anno in anno, attraverso delle tranches de vie, senza alcuna preoccupazione di spiegare al lettore i fatti intermedi. E beninteso ciascuna di queste fette è affidata a una trama behavioristica di gesti sobri, riportati nella loro buccia esterna, o di battute di dialogo, in cui si dispiega l'esistenza «fatta di nulla» delle «scimmie» del titolo, appellativo affettuoso usato dalla madre di famiglia per designare l'abbondante figliolanza. Siamo nel pieno di una illustre tradizione anglosassone o nordamericana, forte di esempi famosi, da Virginia Woolf a Little Town di Thorton Wilder, senza neppure dimenticare Spoon Rive,. Vale anche la regola aurea di questo filone, per cui tocca di volta in volta a qualche membro della famiglia reggere il «punto di vista», filtrare il colpo d'occhio sugli altri; ma senza esagerare sulla via dell'emersione soggettiva e personale, dato che su tutto vale la consegna del clima corale, della sinfonia d'insieme. Di suo, la Minot ci mette, appunto, un giro di vite «minimalista», nel senso che, rispetto ai precedenti illustri del filone, essa oggettivizza ancor più le situazioni, riduce i commenti, aumenta gli oneri interpretativi del lettore, mettendolo anche a dura prova col presentargli un muro di fatterelli irrilevanti, di battute di dialogo dalla apparente insignificanza e fatuità. D'altra parte, proprio la conoscenza del filone nobile in cui essa si iscrive ci mette in guardia, sappiamo bene che tanta pochezza è abilmente predisposta per creare il climax finale. Infatti, in una delle ultime tranches de vie, ci tocca dedurre, sempre a partire da parchi cenni ellittici, posti in campo quasi con la natura dell'inciso, della parentesi, che la materfami/ias, perno di tutto quel sistema di affetti incrociati, elemento forte, accanto a un padre debole e propenso all'alcolismo, è stata uccisa in un banale incidente d'auto, e ora l'ombra, il vuoto, l'assenza gravano sui superstiti duramente colpiti. Ma 'beninteso, il cordoglio, piuttosto che essere «detto», sfocia, an-·' ch'esso in un comportamento esterno, ben visibile e palpabile. La famigliola degli otto sopravvissuti inventa così un suggestivo rituale: prelevate le ceneri della madre, le disperde nelle acque del paese delle vacanze, salendo per l'ultima volta sulla barca delle gite felici (la woolfiana Gita al faro è ricordo immanente e struggente). Le ceneri in realtà, ci viene detto con lucido spirito «cosale» degno di Robbe-Grillet, sono come dei 0dischetti porosi, che ciascuno dei figli afferra con mano tremante e scaglia in acqua, con gesto ora lento e insicuro, ora ostentatamente baldanzoso e forte. E il computo oggettuale, «minimale», delle varie traiettorie tiene il posto di un commento patetico, o di un pianto dirotto. Si intuisce anche che ciascun componente della famiglia sta trovando in quel gesto una propria «lingua perduta delle gru». 11 minimalismo sembra riprendere baldanza e aggressività nell' «opera prima» di Bret Easton Ellis, che oltretutto conferma questo piglio dinamico con un titolo anch'esso disposto a enunciazioni di principio, Meno di zero (in coda al romanzo c'è anche un saggio della nostra migliore conoscitrice del fenomeno, Fernanda Pivano). I dati sociali del protagonista, Clay, favoriscono una tale assunzione di «grinta», in quanto si tratta di un gio\'.ane di famiglia abbiente (il padre lavora nel cinema) che lascia gli studi in un college blasonato per una vacanza nella natia Los Angeles, in cui ritrova amici ed amiche, e soprattutto i trastulli di una jeunesse dorée in bilico tra lo hippy e lo yuppy, dove cioé la droga, le bevute, gli amori facili, etero e omosessuali, perdono i connotati sulfurei, da generazione perduta o bruciata, per divenire, anche in questo caso, «normali», banalizzati al massimo. E infatti la prosa di questa «educazione sentimentale» in panni contemporanei scorre via «fatta di niente», ovvero di parties, schermaglie amorose, impegni frivoli, a un livello di «chiacchiera» straripante, rigorosamente rovesciata in fuori. Sennonché il giovane autore vuole strafare, ovvero punteggiare le sue trame minimali con qualche • fatto grosso, ma in ciò rivela limiti grossi, cadendo nell'effettismo, e soprattutto smarrendo la virtù che agli autentici «minimalisti» bisogna riconoscere: l'onestà, la probità dei referti. Anche Ellis civetta con l'omosessualità, componente oggi ineliminabile nel quadro dei sentimenti, ma la offre in un affresco di orrenda maniera esteriore: ·l'amico di adolescenza Julian si prostituisce, tanto per ottenere un po' di droga, e la scena, che ha nel protagonista un improbabile testimone oculare, è resa in modi stereotipati, con pesante commento moralistico. Siamo ben lontani dalla sofferta, leale, autentica partecipazione che emerge nei resoconti di Leavitt. Così come esteriore e di maniera è anche il resoconto che questo romanzo pretende di fornirci circa qualche episodio opposto, di violenza carnale condotta su fanciulle minorenni, o di sadomasochismo, affidato a qualche filmino più che pornografico. In fondo, è vero quanto osservava già il nostro .Manzoni: difficile è mèttersi àll'ostesso livello, alla pari con fatti e persone, mentre riesce più agevole porsi al di sopra, o al di sotto, come, con ostentazione scoperta, dichiara Meno di zero.

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