menti di testi teorici ottimi come Luhmann e Bateson e Serres, o di testi forse più remoti, come Kerényi, oppure discutibili, come Capra - c'è sempre una volontà di cirticare e nello stesso tempo di trar partito, approfondimento, dalla singolare posizione di oggi; in quanto oggi il discorso della sinistra teorica di una volta non ha più certezze, non ha più basi. Si continua a farlo come pura ipotesi, come prolungamento di una scelta oggi a noi tutti impossibile: il collegare appunto argomenti teorici di altre estrazioni a una nostra posizione materialistica di fondo che ha mantenuto le stesse costanti; mentre invece essa è in gioco e domanda senza dubbio una ripresa di materialismo teorico sui punti essenziali ... Ecco, Formenti protrae e allunga questa scommessa. Allora cosa succede, secondo me? Che emerge nel libro, come la parte più interessante, il fatto che egli evidenzi e postuli un certo rapporto tra i due momenti dell'ordine e del disordine. L'ordine non è qualche cosa ai cui margini sta il disordine - frequentemente si avvale perciò della nuova scienza o della nuova filosofia della scienza - e non c'è neanche un disordine di base com'è nella nuova scienza, su cui la rappresentazione mentale umana dichiari leggi e ragioni. Ma ci sono per lui due componenti che non sono in un rapporto dialettico, ma che sono fondamentali. Le presenta come «diurno e notturno», poi le persegue in vario modo, sempre attraverso una certa instabilità, perché in effetti il libro non ha un suo svolgimento o annodamento esplicito. Per un verso è come ansioso; e per un altro verso preme da tutte le parti, con molta capacità di presa. Quindi c'è una specie di dualismo, a mio avviso; e ciò presenta l'esigenza irriducibile di dare delle alternative, mostrando che tutto si fissa ma effettivamente non ha stabilità in ogni fissazione. Questo assunto filosofico-scientifico è diffuso, ma nel discorso di Formenti arriva ancora ad avere _unapresa filosoficapolitica. Qui mi sembra che in questo libro ci sia una sorta di chiave possibile di lettura, che ogni tanto emerge, ogni tanto invece si inviluppa nel dibattito diretto coi testi che esamina. Maurizio Ferraris. Vorrei sottolineare tre punti, relativi alla prima parte del libro, epistemologico-filosofica, che mi è parsa di grande rilievo in ordine a quello che potremmo definire il nesso tra Hermes e ermeneutica. Il primo è di tipo molto generale, e si riallaccia in parte con quanto ha già detto Leonetti. Prometeo e Hermes esamina la transizione da Prometeo a Hermes, come dire anche dalla tragedia alla interpretazione. Ora, ha ragione Leonetti quando dice che il modo in cui questa transizione è trattata nel libro è di tipo prevalentemente antropologico, e in fondo non tematizza a sufficienza la filosofia della storia e la teleologia implicite in Notizia sul libro Il saggio si articola in due parti: la prima affronta in prevalenza tematiche epistemologiche, la seconda teorico-politiche. Nel primo capitolo della prima parte sono definite le linee generali del lavoro, che possono essere ricondotte a un progetto di radicalizzazione della metafora del pensiero debole. Si tratta di «prendere alla lettera» la metafora, nel senso che il soggetto moderno non dovrebbe limitarsi a raccontare il proprio declino, bensì accettare di «farsi da parte», di lasciare la parola alle immagini. L'invito non è tuttavia ad abbandonare la via del logos, della moderna ragione diquesta transizione. Insomma, è in parte eluso l'interrogativo: perché, per quali motivi e perseguendo quali fini si è verificato un decorso storico come il passaggio da un'epoca «prometeica» a un'epoca «ermeneutica»? (con tutte le modulazioni possibili dell'alternativa Prometeo/Hermes, a cominciare dalla alternativa moderno/postmoderno). Il secondo pu_ntoè strettamente connesso al primo. Il fatto che la transizione da Prometeo a Hermes non sia sufficientemente tematizzata come decorso storico comporta una scarsa mediazione tra l'uno e l'altro: come se Hermes fosse la semplice antitesi di Prometeo, e non invece, per così dire, la sua Aufhebung, ciò che insieme supera e conserva, in se stesso, quanto lo ha preceduto, Prometeo, appunto. Così che il passaggio verso la interpretazione non esclude, puramente e semplicemente la trage_dia,ma piuttosto la presuppone e insieme la rielabora come il proprio fondamento avverso. Insomma, per dirla in breve, mi pare che la polarità Prometeo/Hermes, che viene riconosciuta con grande lucidità e persuasività, viene però giocata in termini eccessivamente dualistici. Accanto a questo dualismo, e questo è il terzo e ultimo punto, mi pare che vada ancora sottolineato un certo alone positivistico .. Nel discorso di Formenti le trasformazioni epistemologiche costituiscono il punto di partenza e l'istanza ultima che governa una analisi che passa attraverso l'esame antropologico dell'immaginario collettivo. Ora, perché proprio la scienza deve avere questo ruolo di istanza d'ultimo appello? Da dove trae tanta autorevolezza rispetto, poniamo, alla filosofia, all'arte e alla storia? Queste considerazioni, ovviamente, non vogliono segnalare una singola e personale manchevolezza delle analisi di Formenti, ma piuttosto un sistema complessivo entro cui si inscrivono (penso soprattutto a Serres e a Thom), nel quale si ravvisa generalmente un simile privilegio, a mio vedere positivistico, del momento epistemologico. Aless_androDal Lago. Mi limito soltanto ad alcune considerazioni sul rapporto sacro/secolarizzazione che, a mio avviso, è uno degli aspetti centrali del libro. Desidero dire in primo luogo che sono d'accordo sullo schema tracciato da Formenti: dalla fondazione tragica, che Formenti ricostruisce in Girard, sino al fatto che il sacro, inflazionando~i, circola, diventa moneta corrente e quindi si dissolve - e questo è il problema che tornerà nelle conclusioni del libro. Questo è il tema della secolarizzazione, a cui va accostato quello della produzione di immagini come caratteristica del nuovo sapere (un sapere non immaginario ma creatore di immagini, che sembra sostituirsi alla razionalità classica) e perciò di una supposta re-mitizzazione. scorsiva e strumentale, per imboccare la via dell'ineffabile, del misticismo e della contemplazione, ma piuttosto a cogliere l'ambiguità del processo di secolarizzazione, a scoprire come esso venga preparando il ritorno di antiche figure mitiche: Prometeo e Hermes. La categoria marxiana di seconda natura, rivisitata da un punto di vista·antropologico più che sto- • rico, come ambiente artificiale che si sottrae alla comprensione e al progetto umani; il paradosso di un soggetto produttivo che, mentre dispone. della potenza tecnica moderna, è costretto a pagare in misura maggiore di quanto sia avvenuto in ogni altra epoca il debiOra, senza entrare ne!Ie considerazioni di filosofia della storia di Maurizio Ferraris, ritengo che il tema della secolarizzazione ponga importanti problemi di interpretazione. Siamo soliti pensare alla secolarizzazione come a una sorta di inaridimento delle fonti del sacro - mentre essa si presenta piuttosto come una dispersione, una dissoluzione del fattore religioso nella vita moderna. Penso, non soltanto in termini filosofici ma anche di esperienza quotidiana, che la nozione di secolarizzazione sia più complessa e che escluda un dualismo radicale del tipo sacralità/razionalizzazione. La secolarizzazione si configura come una situazione di ambiguità. Essa è in primo luogo la decadenza dell'autorità religiosa, la fine della presa delle chiese sulle formazioni dell'immaginario e dell'esperienza. In secondo luogo, questo allentamento comporta una rinascita di esperienze religiose. Se prendiamo in considerazione alcune recenti ricerche empiriche su questo tema (ad esempio gli studi di Garelli), scopriamo che la secolarizzazione (la perdita di influenza delle chiese) produce fenomeni come lo sviluppo di gruppi fondamentalisti oppure la riattualizzazione di pratiche religiose arcaiche, orientali o magiche. Le due cose vanno insieme. È difficile dire se la rinascita del fondamentalismo sia una ripresa del religioso oppure un'eco della dispersione della cultura religiosa. Questo problema - che potremmo chiamare la post-modernità delle credenze - è parallelo all'altra distinzione posta dal libro di Formenti, e cioè la dissoluzione del rapporto amico/nemico. Nella misura in cui l'antagonismo amico/nemico si generalizza, come Formenti mostra, a tutto il mondo sociale, a tutte le sfere dell'esperienza, esso si inflaziona e viene a cadere. Agli antagonismi si sostituisce il frammentario, il pluralismo non conflittuale. Vorrei porre perciò una domanda all'autore del libro, per concludere questo primo intervento. Se questa è l'evoluzione che Formenti ricostruisce (e aggiungo, correttamente) come mai le categorie che usa vengono tratte soprattutto dal discorso scientifico? Come legittima il privilegio attribuito al discorso scientifico, anche se nella versione critica della nuova razionalità, una versione che rinuncia - come diceva già Ferraris - al positivismo? Perché privilegiare il discorso scientifico su altre forme di discorso, ad esempio quello letterario, oppure certi momenti del pensiero filosofico contemporaneo, che assumono in modo altrettanto radicale questa situazione di ambiguità? In fondo, anche l'autore, alla fine del libro, trova una via d'uscita in un tipo di pensiero non scientifico, quello orientale. Francesco Leonetti. A me sembra che si sia discusso su molti temi, in maniera di primo approfondimento, sufficientemente e bene. Certo simrJolico della colpa originaria, del gesto umano che si appropria della Natura, sono i temi del secondo capitolo, che delinea i caratteri del nuovo Prometeo. L'utopia prometeica di una riconciliazione con una Natura • completamente riassorbita nella socialità umana, appare disarmata di fronte ali'evoluzione tardomoderna della scienza e della tecnica. Siamo nell'era di Hermes, che l'autore descrive, nel terzo capitolo, a partire da alcuni concetti chiave elaborati da scienziati e filosofi come Prigogine, Thom, Serres e Bateson. Hermes è il fanciullo divino che insegna ad afferrare le. occasioni di un mondo in cui crescono disordine e casualità, tamente Formenti ha solo cominciato a svolgere gli argomenti del suo discorso, che avrà sede nell'attività successiva. Vorrei solo fare un'osservazione rivolta sia a Ferraris, che ha parlato di positivismo, sia a Dal Lago, che ha chiesto esplicitamente come mai c'è una prevalenza del discorso teorico-scientifico su quello filosofico. In realtà Ferraris dovrebbe precisare il suo pensiero: perché tutti sappiamo che positivismo vuol dire riferimento al dato; ma dopo il positivismo, in sede teorico-scientifica, c'è il neopositivismo, che verte sul linguistico invece che sul dato, con uno spostamento molto forte, e poi c'è il postpositivismo, il quale si caratterizza per affermare che non c'è verifica sperimentale certa. In questo senso mi sembra allora che sia interessante, non dico riuscita o conclusa, ma sia interessante quella certa circolazione di rapporto tra i due ambiti (scientifico e filosofico) che è presente nel libro di Formenti, sempre se si fa riferimento o ai neopositivisti o addirittura ai postpositivisti. Alessandro Dal Lago. E in riferimento alla domanda che io ponevo? Francesco Leonetti. Rimane aperta. Con la precisazione che tu poni una contraddizione, e invece a me pare, proprio perché non si può più parlare di positivismo, ma semmai di postpositivismo, che la circolazione fra i due campi sia utile, sia interessante (e che presso Formenti sia posta). Pier Aldo Rovatti. Lii mia impressione è che Carlo Formenti si muova in direzione di una fisicopolitica. L'affermazione di una fisico-politica comporta però un'adesione del pensiero: il pensiero sarà quello in grado di rispecchiare questa fisico-politica. A mio parere, questa è una direzione che contrasta con l'esistenza di un pensiero il quale riconosce invece la crisi dell'idea di verità e pone problemi di presa di distanza, di allontanamento, di metafora, di immagine, ecc. Alessandro Dal Lago. Volevo sottolineare che, come viene accennato nel libro di Formenti, uno degli aspetti più interessanti della nuova filosofia della scienza, è il fatto che il discorso scientifico non è più protetto da una cinta epistemologico-retorica, come avviene nel positivismo classico e p.el neopositivismo. Si sa bene che il positivismo non è tanto un sapere basato sulla conoscenza empirica (si pensi alle scienze umane e sociali della fine dell'Ottocento) ma una retorica della conoscenza empirica. Formenti sottolinea giustamente lo sfondo antropologico del discorso scientifico, riportando le origini del sapere a quello che chiamo lo «schema tragico», e quindi a un atto fondativo sacrificale. Questa analisi mi sembra è il sapere del locale, del contingente, dell'aleatorio, è la potenza del «micro». La seconda parte, articolata a sua volta in due capitoli, ripercorre la via che conduce da Prometeo a Hermes come trasformazione dei modi della razionalità politica: dal rigore «tragico» dell'opposizione amico/nemico ali'ambiguità della concezione sistemica del politico, la quale sembra capace di superare la forma antagonistica dei conflitti. Nel primo capitolo è svolto un confronto critico con le teorie antropologiche di René Girard: la permanenza del sacro, associata alla degenerazione dei suoi dispositivi strutturali (secolarizzazione), sono gli elecompletamente accettabile. Ma nasce un problema. Quando la cinta positivistica viene rotta, la riflessione sulla scienza si de-positivizza (come fanno gli autori citati da Formenti, Prigogine e altri, che si richiamano a Valéry, Bergson, ecc.) non si dovrebbe allargare l'ambito ermeneutico del discorso sulla razionalità, convocando il letterario, il poetico, il narrativo, come già avviene in altri settori della filosofia contemporanea (penso a Ricoeur)? Maurizio Ferraris. Faccio anch'io una breve precisazione su quello che ha detto Leonetti, il quale segnalava giustamente le oscurità e imprecisioni del mio discorso. Sono d'accordo, non esiste un positivismo, ma molte modulazioni differenti di un medesimo ideale; e certo il positivismo di Serres è diverso da quello di Càrnap o da quello di Comte. Più precisamente, il positivismo di Serres non consiste nell'imporre ovunque e indiscriminatamente un culto dei dati e della verificabilità, ma piuttosto nel tentare una alleanza tra scienze della natura e scienze dello spirito orientata principalmente dalle prime. Pier Aldo Rovatti. Resta comunque il fatto che tra l'idea di scienza che aveva Heidegger e la idea di scienza che possiamo avere noi, c'è una variazione importante e sintomatica. Il problema è: che tipi di interrogazione rivolgiamo ai nuovi saperi? Semmai è la filosofia che potrebbe allora apparire arretrata su questo punto, e presentarsi con schemi di pensiero vecchi, chiedendo alla scienza delle verità, quando invece probabilmente alla scienza dobbiamo piuttosto chiedere immagini e abbozzi di immaginario, che possono non confermare l'identificazione tra tecnica e metafisica del soggetto. Alessandro Dal Lago. È verissimo che la filosofia, da un certo punto di vista, non è in grado di affrontare le nuove tematiche scientifiche. In fondo la critica della metafisica positivistica era già operante ai tempi di Whitehead e di Bergson, che insistono sul carattere processuale, dinamico del sapere scientifico. Ma quando invece Heidegger, ad esempio, riflette sulla scienza, appoggiandosi curiosamente a Heisenberg e perciò, ai suoi tempi, alle riflessioni più avanzate della scienza contemporanea, dà un'immagine in qualche modo totalitaria, autoritaria del sapere scientifico - che invece le nuove riflessioni mettono in discussione. Nasce qui un problema: o nella critica di Heidegger si manifesta, nonostante tutto, un pregiudizio metafisico (un'immagine della scienza compatta e non problematica) oppure il nuovo sapere, al centro del libro di Formenti, realizza una nuova forma di autorità che oggi è più difficile da individuare. menti costitutivi di una riflessione sulla moderna violenza politica. Il secondo capitolo (ultimo del libro), attraverso un percorso che chiama in causa le teorie operaiste degli anni settanta, il funzionalismo sistemico cibernetico di Luhmann e la cultura del movimento «verde», si propone di indicare una direzione di allontanamento dagli esiti «sacrificali» del progetto rivoluzionario. Carlo Formenti Prometeo e Hermes Colpa e origine nell'immaginario tardo-moderno Napoli, Liguori editore, 1987 pp. 168, lire 18.000
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==