nizzazione e di interpretazione della complessità del mondo. La lettura della storia non è solo segnata dal rovesciamento dei giudizi espressi dal cinema del periodo staliniano; è anche un percorso difficile che si scontra con una realtà non trasparente, si misura con il caos dei fenomeni, con la loro ambiguità strutturale. E mentre i film degli anni cinquanta operavano una schematizzazione assoluta della realtà, il cinema storico ungherese compie una scelta opposta, l'opzione per una forma difficile, fondata sul riconoscimento della complessità del mondo come punto di partenza di qualsiasi ipotesi di avvicinamento al reale. La forma difficile è radicata nella storia, si costituisce su una necessità strutturale: il mondo dei fenomeni appare come un enigma, un labirinto che va percorso e insieme organizzato, piegato allo sforzo conoscitivo e strutturato secondo configurazioni anomale. La formalizzazione rigorosa dell'essente è il passaggio necessario per conservare la complessità del reale, l'eterogeneità, non schiacciarle in schemi prefissati, ed è sempre fondata"sulle articolazioni particolari del materiale storico: è una formalizzazione dialettica in cui ogni determinazione strutturale riflette una volontà di conoscenza, è l'espressione di una relazione interpretativa difficile con la ambivalenza e la plurivocità della storia. Lavorare sulla forma è per il cinema storico ungherese il modo per affrontare adeguatamente la storia: la forma non è opposta alla storia, non è il segno della libertà, magari irrelata, dell'artistico, ma al contrario opera come se nella storia fosse racchiuso un enigma che solo una strutturazione difficile può penetrare e riprodurre. E la formalizzazione complessa dell'orizzonte temporale e spaziale realizzata dal cinema ungherese (quasi una cifra di «scuola»), assume in un certo senso un valore simbolico: l'intreccio continuo di presente e passato, disposto su vari piani in ordine non cronologico, che raggiunge in Venti ore e in Padre gli esiti più articolati, o l'organizzazione labirintica dello spazio, scoperto mediante movimenti di macchina particolarmente elaborati, in inquadrature molto lunghe o in veri e propri piani-sequenza (specificamente nei film di Jancso, di Kovacs e di Gaal), sono in fondo strutture linguistiche difficili che diventano il simbolo della proble- •maticità del rapporto con la storia di tutto il nuovo cinema ungherese. A differenza della maggior parte dei film storici e segnatamente di quelli sostenuti da precise opzioni ideologiche, il cinema ungherese non riduce il materiale storico a uno schema, non lo semplifica surrettiziamente per far emergere l'evidenza di una tesi e la sua fissità. Lavora al contrario l'eterogeneità, presenta a volte problemi, materiali e indicazioni diverse e contraddittorie, cerca di non nascondere nulla. Film come Venti ore di Fabri e // recinto di Kovacs - forse le opere più complesse - discutono i problemi della costruzione del socialismo senza rimuovere le negatività e _irisultati sociali positivi e senza proporre soluzioni. Attraversano una dramChicilibererà maticità e la ripropongono come tale, misurandola soltanto con gli strumenti della composizione formale. Sono interrogazioni permanenti sul passato che vengono proiettate sul presente. E sono anche attestazioni precise della possibilità del cinema di essere insieme rappresentazione della storia, (cioè storia rappresentata) e storia in atto. Così in questa frequentazione metodica della storia, in questa apertura a una domanda permanente sul senso e sulla direzione degli accadimenti storici, il cinema diventa lo spazio di una autofigtJrazione simbolica, mediante la quale un'epoca non solo scopre le proprie radici, ma definisce, attraverso la qualità specifica dello sguardo, il proprio stile e la propria identità. daiGrecei daiLatini? A Palermo, i classicisti della Facoltà di Lettere (e soprattutto Gianna Petrone) hanno deciso di prendere, come si dice, il toro per le corna: ed hanno organizzato un convegno dal titolo Chi ci libererà dai Greci e dai Latini? (9-10 febbraio 1987). Brillante e coraggiosa iniziativa, che per due giorni ha fatto dibattere gli intervenuti sul tema de Le riscritture dei classici. Ma ci sarà davvero qualcuno che ci libererà, un giorno, dai Greci e dai Latini? E soprattutto: sarebbe davvero auspicabile che questo avvenisse? Com'è noto, Oscar Wilde ha sostenuto che «se non fosse per le forme classiche, -saremmo nelle mani dei geni». Che è come dire «meno male, che ci sono i Greci e i Latini» ovvero «speriamo che nessuno ci liberi mai di loro ... ». Ciò che preoccupava Wilde era la visione di un mondo in cui ciascuno fosse ogni volta libero di inventare, e dalle fondamenta, niente meno che la letteratura: un mondo dominato dai «geni» creatori. Quante persone sarebbero capaci di immaginare una scena del genere senza esser colte da un brivido di sgomento? Ma ammettiamo, per assurdo, che nella repubblica delle lettere un inatteso colpo di stato instaurasse l'anarchia dei «geni». Questo nuovo corso andrebbe incontro a insormontabili difficoltà, e sarebbe anzi condannato a un'esistenza effimera, insieme, e disperata. Bisognerebbe infatti immaginare un mondo percorso da flussi continui di poeti, o di scrittori, che scrivono e basta, senza mai leggersi fra loro. Che scrivono e basta perché, se si leggessero, rischierebbero subito di contagiarsi, di rassomigliarsi: e queste rassomiglianze costituirebbero inevitabilmente un primo abbozzo di «istituto» letterario ... Da qui alle «forme» vere e proprie il passo non solo è breve, è addirittura implicito. Oltretutto, sarebbe anche un mondo sinistro e terribile. Un'immane voliera in cui ciascuno cicaleccia per i fatti suoi e si zittisce così come aveva cominciato: da solo. Non varrebbe proprio la pena di mettere su una letteratura come questa. Tutto ciò non impedisce, comunque, che qualche «genio» inventore abbia avuto talora il coraggio di farsi avanti. Viene in mente Walt Whitman, che sostenne di essere una specie di primo uomo, colui che ricominciava (anzi, cominciava) tutto da capo: e per la verità, con l'ausilio di un' America sconfinata e nascente, almeno in parte ci riuscì. Ma le leggi della letteratura sono inflessibili, e non tollerano che le eccezioni durino più di tanto. Anche la barchetta di Whitman è scivolata ben presto nel porticciolo delle «forme classiche», e si è ormeggiata ordinatamente accanto alle altre. Non solo, infatti, c'è stato e c'è chi lo studia, ma c'è stato e c'è chi lo imita. Solo che se imitano lui, i poeti, vuol dire che hanno rinunciato ad inventare loro stessi la letteratura ... In pratica, ancheWhitman si è trasformato in uno di quelli che hanno creato la letteratura solo perché agli altri non fosse possibile fare altrettanto. È diventato un classico. Beati" i primi! si potrebbe dunque commentare. Quelli che hanno avuto la fortuna di inventare ciò che gli altri possono solamente usare. I classici rassomigliano davvero (come sostenne Montale) a quei fortunati spettatori che sono arrivati a teatro prima degli altri, e si sono accaparrati i posti migliori. Un'astuzia che ha permesso loro non solo di godersi meglio lo spettacolo, ma anche di ricevere il necessario omaggio di chi sedeva più indietro: non sono le prime file da sempre riservate alle persone importanti? Il resto viene di conseguenza. Imitati, citati, rielaborati, allusi, gli scoliasti hanno subito provveduto ad abbigliarsi di vesti sontuose e di broccati ingombranti: o a dipingere sui loro volti lampi di grandezza anche quando, per la verità, dormicchiavano. Si dice anzi che, voltandosi verso la platea, i classici si siano frequentemente divertiti nel vedere critici intenti ad arricchire senza posa i loro testi, dotandoli di sfumature insospettate o di perfezioni involontarie. In queste circostanze, l'unico che non si diverte è Virgilio: almeno, così dicono. Lo schivo Virgilio, il parthenias. Se ne resta lì in silenzio, senza voltarsi, e quando dietro di lui il cicaleccio monta più forte si rifugia addirittura in un portone. Virgilio non am~ la ·critica. Pare anzi che, prima di morire, volesse bruciare l' Eneide non perché la ritenesse imMaurizio Bettini perfetta, ma perché aveva paura di interpreti e scoliasti. Solo che ebbero la meglio loro. Se il tempo avesse due sensi, e potesse andare avanti e indietro, come un organetto, sarebbe anzi interessante vedere Virgilio, poniamo, o Dante, alle prese con la bipliografia che lungo i secoli si è atcumulata sulle loro opere. Lo scriverebbe, Virgilio, un altro libro dell'Eneide? O Dante, lo farebbe un trentaquattresimo dell'Inferno? Intendo dire, se fossero obbligati anche loro - come i critici e i professori universitari - a tenere conto della bibliografia sull'argomento. Non ci proverebbero neppure. E se lo facessero, risulterebbero talmente al di sotto delle Davide Moschino aspettative da essere ritenuti apocrifi. Sembra che Virgilio, quando deoise di distruggere l'Eneide, avesse presente soprattutto questa sciagurata eventualità. Comunque sia, annotati e letti con tanta ostinazione, i classici sono notevolmente migliorati nel corso dei secoli: un assessore alla cultura (ammesso che mai si interessasse di questi problemi) direbbe che sono «cresciuti». Anche per questo i classici hanno provveduto per tempo a serrare le fila, esercitando la cooptazione con incredibile parsimonia. Non che non ci fossero nuovi eletti, di epoca in epoca, a cui suggestionabili platee riservavano in vita addirittura il palco reale. 'Ma i classici sono pazienti, oltre che astuti, e hanno aspettare. Ai primi soffi dell'indifferenza, l'intruso veniva rapidamente invitato a lasciare il posto non suo: fortunato se alla sua disgrazia si assisteva almeno senza ridere. L e forme classiche sembrano dunque qualcosa. di inevitabile, come il linguaggio. Meglio sarebbe dire inevitabili come le regole del linguaggio. Senza di esse, sappiamo, come si potrebbe parlare? Se ogni «oggetto», per essere designato, dovesse disporre di un suo grugnito particolare, diverso da tutti gli altri, occorrerebbero degli sforzi mostruosi per non dire quasi nulla. Fortunatamente esistono delle regole che permettono di utilizzare pochi «grugniti» (e grosso modo sempre gli· stessi) combinandoli fra loro per una molteplicità di usi. I linguisti conoscono le meraviglie di ciò che chiamano il principio di «produttività» del mezzo linguistico: ossia la possibilità di produrre un numero infinito di enunciati utilizzando un numero non solo finito, ma addirittura ristretto di elementi. Procedimento di straordinaria economicità, in cui meglio che altrove traspare l'inconscia grandezza della mente umana. Enunciati infiniti, dunque, incredibilmente infiniti rispetto all'economia dei mezzi impiegati - ma inevitabilmente conformi (o bisognerebbe dire sottomessi?) alle regole che li producono. In altre parole, la produzione linguistica ha acquistato la sua infinitezza al prezzo - salato - di una incredibile parzialità. Anche la letteratura ha i suoi enunciati infiniti (lo sa bene chiunque abbia cercato di immaginare l'ormai famigerata biblioteca di Babele), ma anche le sue regole in numero finito: oh, quanto finito! Queste regole le hanno dettate appunto i classici, anzi, sono essi stessi le «regole» della letteratura. A loro sono conformi (o bisognerebbe dire, ancora una volta sottomessi?) gli infiniti enunciati che la letteratura produce ed ha prodotto. Almeno una volta, nella vita, ciascuno di noi ha sentito che si sarebbe potuto parlare per ore - ma che non ne va~evala pena perché quei discorsi· sarebbero stati comunque deformati, o pre-diretti, dal linguaggio che parlava dentro di noi, usurpando il nostro nome. Pre-occupati dal linguaggio, nei due sensi che l'etimologia per una volta ci concede, abbiamo deciso che era meglio tacere. Pre-occupati dai classici, e dalle «regole» che essi rappr~sentavano, molti devono aver deciso, e di fatto lo hanno deciso, che era meglio non scrivere. Quanti Shakespeare contadini giacciono dunque in un cimitero di campagna, muti, solo perché fu questa l'unica forma di ribellione che si videro concessa? Schiacciati da un «già detto» che si era irrevocabilmente trasformato in una regola relativa al «come dire». Afflitti dalla peggiore fra le impotenze, l'impossibilità logica che le cose potessero andare altrimenti. Mi accorgo di essermi alquanto impantanato. Per cui ho veramente paura che alla domanda iniziale «Chi ci libererà dai Greci e dai Latini?» finirò davvero per rispondere: «nessuno», come già sospettavo all'inizio. Cosa davvero imbarazzante perché Joseph de Berchoux, colui al quale viene comunemente attribuito il merito di aver formulato il relativo, fatidico alessandrino: «Qui me délivrera des Grecs et de Romains?» non può minimamente essere considerato un «classico». Eppure ci ha messo tutti in iscacco. Ecco dunque qualcun altro che, come i classici, si è accaparrato un posto in prima fila da cui nessuno può più allontanarlo. Il bello è che quel posto, a Berchoux, non gli appartiene neppure. Spetterebbe se mai a Jean Marie Bernard Clément, che compose quel verso ben venticinque anni prima che Berchoux, verso il 1829, se ne appropriasse: e lo compose anzi nella forma a noi più consueta, con un «nous» al posto del «me» che Berchoux (l'egocentrico) vi intruse. Vero è che Berchoux faceva seguire il suo plagio da un indimenticabile: «Race d' Agamemnon qui ne finit jamais !» Ma questo non dovrebbe costi- ~ tuire un motivo sufficiente perché ~ lui continui a starsene lì, usurpan- ·i do il posto di un altro. (Non sarei ~ mai riuscito a venire a capo di que- ~ sto intricato pasticcio letterario -. senza l'affettuoso soccorso di Em- e ma Stojkovic Mazzariol.) Ecco ~ dunque il caso di una 'persona che ~ con un verso solo, e neppure scrit- °' to da lui, si è sistemato per sem- i:: pre. Virgilio aveva assolutamente ~ ragione quando chiedeva che l' E- l neide venisse bruciata. ~
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