ArmoniacomeKitsch Gillo Dorfles Elogio della disarmonia Milano, Garzanti, 1986 pp. 189, lire 20.000 11 fatto che una collana di libri sentimentali popolari con lessico e sintassi semplificati, a uso di lettori che si rendono giustizia da soli, abbia potuto intitolarsi Harmony, la dice lunga sulle degradazioni dell'ideale classico dell'armonia in un'epoca che (almeno dal Romanticismo in avanti) non può certo più dirsi armonica. A meno di cadere nel Kitsch, e proprio la critica del cattivo gusto armonico-classico costituisce l'occasione e l'impulso che sta alla base del recente Elogio della disarmonia pubblicato da Gilio Dorfles. È a Hegel che dobbiamo l'ultimo encomio dell'armonia. La forma d'arte classica costituisce un canone insuperabile di bellezza come perfetta corrispondenza di interno e esterno, contenuto e forma, spirito e natura; la religione dell'arte dei Greci corrisponde a un'epoca in cui la massima espressione della verità prende le forme armoniche della statuaria classica, superando, nella libertà controllata che vi si esprime, il simbolismo grottesco o smisurato degli indiani e degli egiziani. Ma, come sappiamo, l'elogio dell'arte classica in Hegel costituisce un momento soltanto entro un decorso storico e geografico che va da Oriente a Occidente, in cui, dopo le Piramidi e le sfingi, dopo l'Oriente sublime e disarmonico dei simboli, anche la forma d'arte greca è destinata a morire, oltrepassata dal corso del sole che, spingendosi ancora più a Occidente, giunge nell'Europa cristiana, e la perfetta coincidenza tra interno e esterno si sfalda, l'armonia viene oltrepassata da una nuova disarmonicità, quella del Romanticismo, e della morte dell'arte che vi si annuncia e che- per Hegel - vi si compie. Vale a dire che l'armonia è destinata a altro da sé, è perenne solo nella misura in cui la sua sorte è perire: «La bellezza libera e perfetta non può accontentarsi della concordanza con una determinata esistenza finita [... ] quanto più nelle forme divine appare la serietà e libertà spirituale, tanto più si fa sentire il contrasto fra questa altezza e la determinatezza e corporeità. Gli dei beati si affliggono, per così dire, per la loro beatitudine e corporeità; nel loro aspetto si legge il destino che li sovrasta». Queste considerazioni restano vere anche quando non si voglia seguire Hegel nel pronostico o nel verdetto della morte dell'arte (che, del resto, non era propriamente un pronostico, né tantomeno un verdetto semplice o sommario). Se anche si ammette che l'arte del Romanticismo, cioè tutta l'arte moderna e contemporanea, non è semplicemente morta, e che la sovrabbondanza del contenuto e della riflessione sulla forma non comporta un annichilimento dell'estetico - resta comunque che questa forma non potrà mai essere immediatamente e programmaticamente classica e armonica. «L'immaginario - scrive Dorfles - allora, dovrà essere sempre più legato strettamente a delle situazioni che non possono essere quelle statiche, armoniche, simmetriche che costituivano il piedistallo per le creazioni e le fruizioni .di epoche auree (o considerate come tali) come la Grecia del IV secolo a.C. o il Rinascimento senese-fiorentino [... ] ma dovrà invece abbracciare nuove costanti (anzi, incostanti) espressive che potremo - sia pure con approssimazione_ e provvisoriamente - definire attraverso i concetti di: disinunetrj.a, disarmonia, disritmia, ecc.» (p. 10). Questo progetto si sostanzia, nell'Elogio della disarmonia, attraverso un'ampia fenomenologia e critica dei presupposti sbagliati - impliciti nel culto dell'armonia (a partire dalla inveterata autorità assiologica attribuita all'armonico come sinonimo di razionale - cui si contrappone, ovviamente, il disarmonico demonizzato come irrazionale). E, attraverso un esame dettagliato e competente che percorre l'architettura, la pittura, la musica, nonché la filosofia, la psicologia, le teorie del linguaggio, ecc., Dorfles isola tre presupposti di poetica e di analisi che paiono irrinunciabili per la comprensione dell'arte contemporanea: Il 1) che l'arte dei nostri '' giorni, alla soglia del 2000, è sempre più lontana da quelle condizioni di armonia, euritmia, consonanza, simmetria, che ne segnarono il cammino fino alla fine del secolo scorso (almeno per quanto riguarda l'OcciMaurizio Ferraris dente) partendo da un piedistallo glorioso come quello rinascimentale, incrinato parzialmente nell'età barocca, ma che, solo con l'avvento dell'Art Nouveau, doveva decisamente mutare registro e segno; 2) che quest'arte - nel caso sia delle arti figurative çhe della musica e della poesia - è oggi coscientemente o istintivamente alla ricerca d'una rottura d'equilibrio che la conduca a prediligere l'asimmetria, la dissonanza, la disarmonia [... ]; 3) che, finalmente, questa volontà disarmonica e disimmetrica rientra in pieno in quella che è la grande casistica della preferenzialità; ossia di quella che ebbi a definire un'estetica proairetica [... ]. Vale a dire che, in un'epoca come l'attuale, dove la scelta preferenziale è basilare per ogni atto estetico (a differenza di epoche dove non esisteva o era minima tale possibilità di 'scelta') è logico ipotizzare (anzi constatare) come la stessa preferenzialità si associ, inderogabilmente, all'asimmetria tra gli oggetti cui la preferenza è rivolta» (pp. 103-104). Ovviamente, nella alternativa tra classico e romantico, tra armonia e disarmonia, conta più il movimento dialettico che ne scandisce il decorso, che non invece la possibilità di determinare delle periodizzazioni definitive (fino al tal anno si viveva in regime classico, poi in regime romantico, ecc.). Gianni Benecchi Tanto più che il canone armonico del classico, proprio nella misura in cui - come videro bene dei romantici come per esempio Friedrich Schlegel - non costituisce un contenuto metastorico, ma è invece anzitutto in un rapporto vivente con noi (per cui «classico è ciò che è classico per noi»), risulta indefinitamente estensibile, molto di là dalla classicità greca o rinascimentale. Lo mostra persuasivamente Hans-Georg Gadamer: ogni volta che un'opera, per la sua persuasività, per la quantità di commenti e interpretazioni che ha suscitato, ecc., ha talmente strlizzato il nostro modo di sentire e non solo estetico - si ha, nei fatti, un classico. Vale a dire che l'armonia greca non era un classico in sé (nella prospettiva dello spirito assoluto e sovratemporale), ma (in una prospettiva ermeneutica) un classico per noi, cioè qualcosa che nel tempo e attraverso infinite riprese e valorizzazioni (non ultima quella di Winckelmann, che operava direttamente sulla coscienza estetica di Hegel) ha finito per canonizzarsi come classico. E che, d'altra parte, un destino del genere, di classicizzazione e di armonizzazione, è riservato a opere e stili prodottisi ben di là dai limiti cronologici della classicità greca: Dante, Shakespeare, e certo anche Joyce (nella cui ricezione opera il noto processo della normalizzazione delle avanguardie). La prima conseguenza di questa dinamicità del classico e dell'armonico, sui cui si sofferma puntualmente Dorfles, è precisamente l'assunzione di moduli apparentemente disarmonici, ma ormai interiorizzati nel senso comune come classico-armonici, nelle arti popolari e industriali. «Un'altra osservazione che mi sembra necessaria a questo punto - scrive Dorfles - è quella di considerare tutto il vasto e il confuso settore delle 'arti di massa' (musica di consumo, fotoromanzo, Triviallitteratur, discomusic), come decisamente legate a degli standard estetici cristalizzati e vicini alla più vieta tradizione, molto più di quanto non sembri» (p. 104). Si ha qui il fenomeno di un'arte che propone avanguardisticamente scarti che però, proprio attraverso la normalizzazione dello scarto nel gusto, non sono più tali; così che la disarmonia troppo ripetuta diviene armonia. Una seconda conseguenza, o meglio una postilla supplementare della prima, potrebbe essere questa: se la cultura programmaticamente popolare e di consumo accoglie da gran tempo la normalizzazione dell'avanguardia e spaccia disarmonie apparenti che sono armonie di fatto - una cultura che si vuole più elevata ha tentato, per tutto il Novecento ma soprattutto di recente, un contro-movimento, pensandosi e presentandosi come armonica a tutti i costi e sottraendosi (come se fosse possibile) al deco;so storico per fare aggio su un eventuale plusvalore del classico, di una armonia prestabilita e di un presente immacolato. Si dà così, come armonico pendant dell'avanguardia normalizzata, il classico istantaneo. E se, nel caso di Thomas Mann o di Strawinski, l'intelligenza, la cultura e il talento individuale attenuavano - attraverso l'ironia, principio comunque disarmonico - il sentimento di Kitsch che comunque aleggiava intorno alle loro opere (e che, significativamente, gli ha impedito di divenire veri classici) - i classici istantanei perseguiti attraverso il ricorso aulico al narrativo e al figurativo e le premeditate riesumazioni del Grande Stile, di cui il mondo è pieno, sembrano refrattari a ogni beneficio secondario dell'ironia.
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