Alfabeta - anno IX - n. 97 - giugno 1987

e e Cultura ebraica e Lam1st1cnaecessaria Etty Hillesum Diario (1941-1943) tr. di C. Passanti Milano, Adelphi, 198S2 pp. 260, lire 18.000 S olo trascendendo la sua costitutiva particolarità (troppo spesso segnata da un'incolmabile assenza di necessità), solo insomma elevandosi al livello di un'autentica «singolarità», un'opera come un diario è capace di attirare nel suo cerchio magico il nostro sguardo distratto e di far convergere nel suo fuoco la nostra attenzione indebolita. E ciò in primo luogo - mi pare - quando il contenuto di una tale opera è capace di trascendere l'ambito della mera «cronaca,> per accedere alla sfera di ciò che contraddistingue lo spazio di un'autentica «meditazione». L'esperienza del meditare è tale da far sì che, attraverso le interrogazioni, gli erramenti e talvolta le risposte del Soggetto meditante (il quale - come osservava una volta Foucault - diviene egli stesso «diverso» ad ogni svolta della meditazione), lo spettatore di questo fluire interiore stabilisca un contatto e una vicinanza essenziali con il profondo dell'esperienza e del pensiero narrati, ricreandoli e ripercorrendone le tappe entro il confine della propria interiorità. Ogni «diario» che voglia essere autentico deve mostrarsi capace di innalzarsi alla sfera della meditazione, e in un senso certamente eccessivo, si potrebbe affermare che dopo le Confessioni di Agostino e il Diario di Kierkegaard, il più grande diario della tradizione occidentale in tale significato meditante siano le Meditazioni metafisiche di Cartesio. Mi sono soffermato su queste considerazioni proprio perché il Diario di Etty Hillesum, pubblicato per la prima volta nel 1981, mi è apparso come una sola ininterrotta meditazione che registra i mutamenti di un'anima posta di fronte al crescere inarrestabile dell'orrore. Dal momento in cui Etty acquisisce la certezza di stare soggiacendo ad una scatenata «volontà di annientamento», la sua condizione di meditante diviene quella di un condannato a morte (morì infatti ad Auschwitz nel novembre 1943). Non è un caso che, nelle pagine del Diario, ritorni più d'una volta il riferimento a L'idiota di Dostoevskji, al libro febbricitante che in alcuni dei suoi capitoli più tremendi espone, per bocca della lucidità delirante del principe Myskin, quasi una «metafisica» (più che una psicologia) del condannato a morte, di chi ha varcato il limite al di qua del quale la coscienza del morire era resa ancora sopportabile dal non-sapere e dal permanere dell'alea. Da questa anticipazione della morte, da questo fino in fondo vissuto «essere per la morte» accolto su di sé senza residui, la già-morta Etty tesse per noi il ricamo del più paradossale, e perciò sublime, elogio della vita e canto alla pienezza di senso dell'esistere. Tutto ciò - bisogna aggiungere - nello scenario di un lacerante Streit interiore in cui la giovane scrittrice compie infinite volte il giro di ruota che unisce vertiginosamente tra loro inferno e paradiso, paradiso e inferno. Le prime pagine del Diario sono la testimonianza di una faticosa lotta dell'Io con se stesso per liberarsi dall'abisso di una soggettività infinita, troppo ricca e approfonditasi internamente. Nel suo desiderio di «possedere» tutto, come il bambino di Baudelaire il cui «universo è pari alla sua brama illimitata», Etty si scopre incapace di godere persino della bellezza. Le manca il «distacco», il disinteresse, la necessaria distanza propria di una più matura oggettività che sola apre alla contemplazione. Talvolta questo tormento (lo stesso tormento in cui per Bohme consisteva l'«egoità») si placa: «Ora che non voglio più possedere nulla e che sono libera - scrive - ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa». S'intravvede qui una traccia della vita su cui s'incamminerà sempre più profondamente l'itinerario di Etty: quella di una progressiva «riduzione», la via dell'anti-io, o come è stato detto, dell '«altruismo radicale» (ciò che pone la filosofia «narrante» di Etty in diretto rapporto con un altro grande pensiero germinato tra le lacerazioni dell'olocausto: quello di Lévinas). A questo primo motivo, si accompagna l? registrazione di una intensa esperienza di tutta l'inadeguatezza del creaturale, della sofferenza del finito che consegna l'esserci alla «palude» dell'informe, della scissione e dell'incompiutezza: «Io voglio qualcosa e Pier arlo Necchi non so che cosa. Di nuovo mi sento presa da una grandissima irrequietezza e ansia di ricerca», «è ricominciata quella scontentezza, quel cercare irrequieto e sentire il vuoto dietro le cose, sentire che la vita non trova un suo compimento, ma è un rimescolio senza costrutto». L'immagine dell'esistere che traspare da queste pagine concitate è vicina per le sue «radici» e per la sua Stimmung di fondo alle meditazioni del giovane Lukacs sull'esistenza come «anarchia del chiaroscuro», e, di più, alla filosofia radicalmente tragica di un altro giovane ebreo del Novecento, Carlo Michelstaedter, per il quale l'uomo preda della «retorica», an- --' Giovanni Rubino cora privo della «persuasione», era colui che «non sa ciò che vuole», per il quale «il suo fine non è il suo fine». La giovane intellettuale vive giornalmente la frustrante esperienza di trovarsi sempre come «in una fase preparatoria», espulsa da ogni compimento e dall'acquisto di un possesso duraturo. Per questo lato del suo meditare, l'interiorità di Etty non può che apparirci sotto il segno di una radicale coscienza infelice. L a Hillesum è consapevole della sua «fame» rivolta ad una totale permeabilità del reale da parte del pensiero. Avverte come una «malattia» la pretesa di rinchiudere il. molteplice fenomenico della vita nella rete del concetto e delle «formule» dell'intelligenza. «Con quella paura che nella vita ti sfugga qualcosa - scrive - finisci per perdere tutto, per mancare la realtà», parole queste in cui risuona l'eco del celebre motto evangelico che, non a caso, ritroviamo anche alla fine di un capitolo della Persuasione di Michelstaedter. Contro tale dominio della scissione e dell'infelicità, Etty si pone come compito la ricerca dell'equilibrio e di un'armonia di cui non sfugge il sapore dialettico: «L'unica vera unità è quella che contiene tutte le contraddizioni e i momenti irrazionali: altrimenti finisce per essere di nuovo un legame spasmodico che fa violenza alla vita». Ciò che, dal punto di vista della sua singolarità, comporta un'inesausta ricerca della sintesi e dell'equilibrio tra interno ed esterno. C'è nella Hillesum un netto rifiuto di ogni atteggiamento che possa in qualche modo essere avvicinato alla «vaga caligine che si dissolve nell'aria» (Hegel) della romantica anima bella, sognatrice e vacua. Proprio da questo rifiuto dell'astrattezza della «soggettività infinita» si può quindi comprendere l'orien.tarsi della meditazione di Etty verso il territorio di quella che ci appare la sua «mistica necessaria». La sua nuova battaglia comincia a rivolgersi contro le «tante piccole schegge del proprio Io che tagliano la strada». Solo in questa Gelassenheit dell'egoità è possibile avvertire nella sua interezza la corrente unitaria della vita e godere come di una carezza del tocco d'ala dell'eternità che qui sfiora la creatura. Così, Etty può scrivere che «questo Io tanto ristretto, con i suoi desideri che cercano solo la loro limitata soddisfazione, va strappato via, va spento». Da questo punto, i temi e i richiami mistici del Diario si moltiplicano. La Hillesum è consapevole che il misticismo, per essere autentico, deve fondarsi sopra un'onestà cristallina, sulla capacità e la forza di «chiamare le cose con il loro nome», di coglierle nella loro «nuda realtà». Mistica, quindi, come lucidità, trasparenza, e non come oscurità, nebulosità, Schwiirmerei confusiva. E il nome delle cose nella loro nudità non può essere altro, ad Auschwitz, che quello dell'orrore dell'assassinio scatenato. In una situazione in cui solo «le cose ultime non possono esserci sottratte», quello che conta è in definitiva come «si porta, sopporta e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima». Ma, per Etty, salvare anche solo un frammento d'anima è possibile solo attraverso quel movimento paradossale, cui già si accennava, per il quale, più cresce l'orrore, e più alto si eleva il canto alla bellezza della vita, più impazzano la furia e la negazione, più cresce l'amore e il rifiuto della logica dell'odio e della vendetta. Solo caricandosi di questo skàndalon, l'anima può mantenersi viva, non infettata dalla peste e dalla potenza della disgregazione. In questa purezza così tenacemente perseguita fino alla fine, l'itinerario e la meditazione di Etty si concludono con l'evocazione delle figure mistiche del «riposare in se stessi» e dello Hineinhorchen, I'«ascoltar-dentro». Ciò che importa è cogliere rettamente il senso di questa nuova interiorità in cui si conclude l'itinerarium mentis della «ragazza che non si sapeva inginocchiare». Etty è giunta a riposare in se stessa, nella parte più profonda del Sé, in quella «scintilla dell'anima» (Eckhart) che ella chiama «Dio». Ma questo «fondo» è quanto di più lontano dalla vuota chiusura nella trappola dell'egoismo e dell'Io. «In fondo la mia vita - scrive Etty - è un ininterrotto ascoltare - dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto-dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più profonda ed essenziale di me che ascolta la parte più profonda dell'altro. Dio a Dio». L'ultima parola della «testa pensante della baracca» si compie quindi nel segno dell'unione con Dio, di quel movimento in cui all'estremo dello sprofondamento ~ nel Sé corrisponde l'estremo della <:::S apertura e del sentimento dell' Al- -~ <:::S tro, del Tutto. L'interiorità allarC)... gata, resa gravida dal seme divino, ~ si apre infine e sboccia nel segno - ....... umano - del dialogo, in quello - ~ divino - della preghiera, in quello ~ - bello - della semplicità di spirito: :! «Vorrei proprio vivere come i gigli °' del campo. Se sapessimo capire il ~ tempo presente lo impareremmo ~ da lui: a vivere come un giglio del l - campo». c::s

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==