Alfabeta - anno IX - n. 97 - giugno 1987

larne ma riesce perfino a riderne. Questa identificazione può far ottenere simpatia, apprezzamento e anche affetto per la persona che è capace di affrontare e ridere delle debolezze che ci sono anche in noi» (p. 63); la terza è la funzione legata al controllo della paura che le sue debolezze generano in lui; la quarta riguarda una possibile sottolineatura di un senso di superiorità: «Una persona che è sicura della sua posizione sociale, specialmente in termini di struttura gerarchica, può usare l'umorismo autodenigratorio per mostrare agli altri che è capace di prendere con leggerezza le proprie debolezze. Ciò può dare l'impressione (talvolta del tutto sbagliata) che questa sia la sua sola vera debolezza» (p. 64). Con queste va considerata anche la funzione - identificata da Martineau (1972) all'interno del suo modello sulle funzioni sociali dello humour - tendente a «solidificare il gruppo interno». È una funzione non direttamente difensiva né in chiave negativa (a protezione cioè da qualcosa di ostile). Risponde al bisogno di coesione e di unità, di adattamento reciproco, mediante il riconoscimento e l'accettazione collettiva di colpe, . difetti, caratteristiche indesiderabili. La possibilità di una funzione legata a conflitti interni, cioè tra gruppi, o sottogruppi, di ebrei, è invece delineata da Mindness (1972). Mindness precisa come non vi sia un solo umorismo ebraico ma almeno due: l'umorismo della Diaspora e queilo di Israele; . il primo più rappresentato dalla . preferenza per il topos dello schlemiel, figura goffa e facilmente in difficoltà, il secondo più legato all'immagine dello chutzpadik, personaggio impertinente e di temperamento. Secondo l'osservazione di Mindness l'umorismo di Israele t--.. è più aggressivo, e quando ride de- <°'! ~ gli ebrei, si tratta di ebrei che ap- .5 partengono al gruppo «sbagliato», ~ . ~ ad un altro partito, a un'altra cot--.. munità. ~ ..... Il «riso ebraico» è entrato come ~ oggetto di studio in diverse ricer- -~ che anche sperimentali, riguarb-0 danti soprattutto le relazioni razt--.. °' ziali e l'umorismo etnico. Tra i più i:: citati vi è il lavoro di Wolff, Smith ~ e Murray (1934), i quali avevano l rilevato che, in corrispondenza "i: con l'ipotesi da loro posta, basata sulla teoria della «superiorità» di derivazione hobbesiana, le barzellette antiebraiche proposte ai gruppi sperimentali erano risultate più divertenti per i «gentili» che per gli ebrei. Non solo, ma anche delle barzellette antiscozzesi, aggiunte come «controlli», erano risultate meno divertenti per gli ebrei. La loro spiegazione era che siccome le barzellette antiscozzesi riguardavano la questione dell'avarizia, uno stereotipo in comune con gli ebrei, gli ebrei si erano identificati e avevano apprezzato poco quelle barzellette. Questi dati sembrano non confermare le osservazioni sulla facilità degli ebrei a divertirsi con storielle che li mettono in ridicolo. In realtà va detto che il contesto della ricerca faceva sì che gli attacchi potessero essere sentiti come «esterni» (etero anziché autodenigratori), con il che veniva meno una condizione essenziale perché le barzellette potessero risultare divertenti per gli ebrei; condizione richiamata già da Freud e che Meghnagi sottolinea indicando come fondamentale «che il contesto sia, per così dire, heimlich (familiare)». Zillmann (1983), ad ogni modo, nel quadro della «teoria disposizionale dello humour», offre la possibilità di una rilettura complessiva del fenomeno dell'umorismo denigratorio e autodenigratorio. Il principio è il seguente: «La predizione del divertimento di fronte alla denigrazione è basata sulle disposizioni affettive verso le parti coinvolte, cioè verso le entità denigranti e denigrate. Queste disposizioni possono essere positive (per esempio, affetto, ammirazione, amore) o negative (risentimento; condanna, odio), e possono variare di intensità» (p. 90). Su tale base Zillmann formalizza un modello che contempla le seguenti proposizioni: «l. Più è intensa la disposizione negativa verso l'agente o l'entità denigrata, maggiore è il divertimento. 2. Più è intensa la disposizione positiva verso l'agente o l'entità denigrata, minore è il divertimento. 3. Più è intensa la disposizione negativa verso l'agente o l'entità denigrante, minore è il divertimento. 4. Più è intensa la disposizione positiva verso l'agente o l'entità denigrante, maggiore è il divertiEnrico Baj mento» (pp. 91-92). Da queste si ricava che a) se gli ebrei sono contemporaneamente i denigratori e i denigrati e b) se si dà il caso di intensi sentimenti positivi per i denigratori (4) e intensi sentimenti negativi per i denigrati (1), attraverso un gioco di identificazioni e di ambivalenze affettive, si verifica una combinazione favorevole per il divertimento umoristico. Se invece, per esempio, il denigratore non è un ebreo, o è, comunque, investito di sentimenti negativi e il denigrato è oggetto di una disposizione positiva, il divertimento sarà minimo. In aggiunta a questa serie di osservazioni, va anche considerato il caso, particolare ma notevole, in cui il riferimento agli ebrei ha un valore che possiamo chiamare «formale» (o simbolico) e non veicola una specifica disposizione affettiva a favore o contro gli ebrei. Un esempio per rendere forse meglio il concetto. Una delle barzellette più sadiche che mi sia capitato di ascoltare (di quelle che rendono pienamente ragione dell'osservazione di Kris circa il carattere «a doppio taglio» di certo umorismo, che può molto divertire come molto imbarazzare o disturbare) aveva come personaggi un marine americano e un vietnamita: «C'è un vietnamita che è un cieco di guerra ed è seduto sul marciapiede a suonare l'armonica a bocca per elemosinare qualche soldo. A un certo punto l'armonica gli cade di mano e lui la cerca a tastoni. Passa un marine e raccoglie l'armonica da terra. Invece dell'armonica gli dà però un'altra cosa. Che cosa? ... Un rasoio bilama!» La stessa storiella l'ho risentita alcuni anni dopo, quando le polemiche sulla guerra del Vietnam avevano perso di attu.alità e di vigore. Questa volta i personaggi erano però diventati un nazista e un ebreo. Per il contesto in cui veniva raccontata era trasparente che quanto contava non era l'attacco antisemita (e neppure, d'altro canto, antinazista) ma l'utilizzo «formale» di uno schema relazionale carnefice-vittima che si prestasse all'espressione di una (generica, non mirata) pulsione sadica. (Ciò non vuol dire, naturalmente, che una storiella di questo ger1:ere'non possa essere impiegata in chiave antisemita.) T orniamo alla questione iniziale. Dall'escursione sugli studi riguardanti l'umorismo ebraico, emerge dunque come i significati e le funzioni di esso siano molto vari e articolati. Ora, tra tutti questi Meghnagi considera l'aspetto di neutralizzazione della paura generata dagli attacchi del «discorso antisemita»: «Poiché non può sfuggire all'accusa, l'ebreo la fa propria, trasferendola su un terzo registro che la libera appunto dal circolo infernale delle accuse e delle controaccuse. L'effetto è catartico e l'ebreo può alla fine ridere delle sue paure» (p. 64). Questa è senz'altro una funzione dell'umorismo ebraico ampiamente rilevata - e rilevante. È però una delle funzioni a fronte, a sua volta, di un problema/bisogno che si formula nell'assunto dell'attacco (esterno)-difesa. Ecco il rischio della collusione: una visione (esclusivamente) difensiva della realtà ebraica, rispetto a un «discorso antisemita», collima con una visione essenzialmente difensiva (e da attacchi esterni) della funzione del riso ebraico, come sviluppo conseguente dell'assunto attacco-difesa (e si intravedono agevolmente i complessi vincoli ideologici di un assunto di tale natura). Lo scritto di Meghnagi non induce, in realtà, a pensare che questa sia la posizione espressa. Appare più adeguato leggerla come una delimitazione del campo, in cui viene approfondito un aspetto - per di più di notevole portata - della questione, senza pregiudizio di altri. Del resto però non contiene indicazioni che in modo sufficientemente chiaro distolgano dal rischio di un'interpretazione assolutizzante in lettori, per così dire, ideologicamente predisposti, e ciò, si noti, sia in senso prosemita (gli ebrei vittime) che antisemita (gli ebrei vittimisti). Dalla possibilità del paradosso «difensivo» si arriverebbe allora, con coerenza interna, alla possibilità di un'analisi (intesa) in una chiave limitativa: l'assunto è l'attacco-difesa, la funzione del riso è esorcizzare le paure che da esso derivano. Ma come il paradosso è superabile escludendo una denotatività o autoreferenzialità della proposizione, così il rischio della limitatività dell'analisi può essere superato includendo (almeno sullo sfondo, come compossibili) altri assunti (attacco «interno», bisogno di coesione, di adattamento, uso formale, ecc.) da cui altre funzioni dell'umorismo ebraico traggono la loro ragion d'essere. In questi termini, il Riso ebraico di Meghnagi può proporre limpidamente i suoi vari motivi di interesse. Primo tra tutti, la valorizzazione delle storielle quali lucidi frammenti su cui è possibile scorgere, riflessi come in una fuga prospettica, aspetti e momenti intensi del mondo ebraico (e in particolare dei suoi rapporti con la psicoanalisi). È l'uso prezioso del motto come «decifratore» che permette stimolanti incursioni culturali, e che Zwerling (1955), per esempio, suggeriva anche come utile strumento per cogliere dalle storielle preferite dei pazienti elementi significativi della loro storia personale. Opere citate S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, Leipzig und Wien, Deuticke, 1905.Ed. it., Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, in Freud, Opere, voi. 5, Torino, Boringhieri, 1976. S. Freud, Humour, «International Journal of Psychoanalysis», voi. 9, 1928, pp.1-6. , F. Manieri, Introduzione, in S. Freud, I motti di spirito e il lorb rapporto con l'inconscio, Roma, Newton Compton Italiana, 1970.~'. W.H. Martine.au, A..m,odel of the socia! functions of humor, in J.H. Goldstein, P.E .. '.McGhee (Eds), The psychology of Ìtumor, New York and London, Academic Press, 1972, Ed. it., La psicologia de)lo humour, Milano, Franco Angeli, 1976. D. Meghnagi, 'Riso ebraico, in «MicroMega»; n. 4, 1986,)>p: 64-71. H. Mindness1 TM çhosen people?, Los Angeles, Nash Pubi., 1972. T. Reik, Zur Psychoanalyse des Judischen Witzes, in «Imago», n. 15, 1929, pp. 63-88. T. Reik, Freud and jewish wit, in «Psychoanalysis», n. 5, 1954, pp. 1328. .J T. Reik, Jewish wit, New York, Gamut Press, 1962. H.A. Wolff, C.E. Smith, H.A. Murray, The psychology of humor. I. A study of responses to race-disparagement jokes, in «Journal 'Of Abnormal & Socia! Psychology»,·n. 28, 1934, pp. 341-365. D. Zillmann, Disparagement humor, in P.E. McGhee, J.H. Goldstein (Eds), Handbook of humor research, I, New York, Springer Verlag, 1983. A. Ziv, Personality and sense of humor, New York, Springer Pubi. Co., 1984. I. Zwerling, The favorite joke in diagnostic and therapeutic interviewing, in «The Psychoanalytic Quarterly», n. 24, 1955, pp. 104-114.

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