tente famiglia dei da Pisa, il cui splendore era certo un po' appannato nella comunità, al momento della clamorosa conversione? Probabilmente, anche in questo caso entrò in gioco un risentito e geloso attaccamento alla propria identità, non dissimile da quello che attraversava gli strati più bassi della società cristiana, ma reso forse più aspro dalla posizione di debolezza nella debolezza che caratterizzava ogni ebreo povero, anzi - meglio - ogni ebreo non ricco. Così, anche ai primi gradini della scala sociale nelle due comunità, si possono intuitivamente intrecciare delle corrispondenze, seppure in negativo, proprio per la diffusa diffidenza nei confronti dello spregiudicato «laicismo» dimostrato dai vertici delle due gerarchie. Nella direzione indicata non è però possibile D avid Meghnagi apre il suo scritto Riso ebraico con l'osservazione: «Qualunque cosa egli [l'ebreo) dica o faccia in propria difesa gli si ritorce contro» (1986, p. 64). Un interrogativo prende forma: è questa da leggere come un'affermazione a sua volta difensiva, anzi una sorta di metadifesa? Potrebbe cioè essere riformulata, esplicitando una supposta ellissi: «A difesa dell'ebreo va detto che qualunque cosa egli dica e faccia in propria difesa ... »? L'impressione ricavata tende verso questa direzione. Se così fosse l'affermazione risulterebbe di tipo paradossale. A smentirla si conferma, confermandola si smentisce. L'accusarla di non veridicità espone alla replica: «È così vera che non è neppure possibile sostenere che 'qualunque cosa egli [l'ebreo] dica o faccia in sua difesa gli si ritorce contro' senza che anche questo gli si ritorca contro!» ·Se, al contrario, la si riconosce come vera allora almeno in un caso - quello appunto dell'accoglimento dell'affermazione stessa - questa è falsa. In realtà, il problema logico dell'uscita dal paradosso è piuttosto elementare. È sufficiente (Russell docet) non considerare la proposizione come autoreferenziale (il criterio è lo stesso del cartello, appeso sul muro, su cui sta scritto «vietato affiggere cartelli», che vale per tutti i cartelli meno quello); oppure, più semplicemente ancora, basta non prenderla alla lettera ma intendere, per esempio, il «qualunque cosa» come un'iperbole rafforzativa del concetto e che sta per «molte» o anche «moltissime cose». Dando allora per scontato che quello logico è in effetti uno pseudo-problema, perché estremizzare fino al paradosso l'affermazione? Il punto è che il possibile paradosso sembra colludere con l'impianto dell'analisi che Meghnagi fa del riso ebraico (o, più probabilmente, rischia di colludere aon il modo in cui tale analisi può essere intesa). Cerchiamo di chiarire in che senso. A questo fine, scorriamo la tradizione di studi dedicati all'umorismo ebraico, nella quale lo scritto di Meghnagi è situabile. Freud, come è noto, ha riportato un gran numero di storielle sugli ebrei nel Motto di spirito (1905). Una per tutte: «Un Ebreo della Galizia stava viaggiando su un treno. Si era sistemato comodamente, si era sbottonato il cappotto e aveva poggiato i piedi sopra il sedile. Proprio allora un signore vestito modernamente entrò nello scompartimento. L'Ebreo prontamente si tirò su e prese procedere molto, perché ogni testimonianza diretta dell'atteggiamento popolare in questo ambito (come in ogni altro) si spegne con lo spegnersi delle voci dei protagonisti: la definizione forse più solida di ogni cultura popolare del passato sta infatti nel riconoscere che la scrittura le fu estranea, o preclusa. Su questo oggetto, purtroppo irrimediabilmente misterioso, non possjamo che aprire finestre episodiche e parziali, soprattutto quando ci si imbatte in uno dei rari incontri con la cultura 1llta, quella ufficiale e, appunto, scritta. È probabilmente questo il caso di un curioso contratto fra un medico ebreo e un contadino, stipulato grazie alla divertita regia di un gruppo di ricchi mercanti «che misero forse in contatto il contadino una posizione più corretta. L'estraneo prese a sfogliare Je pagine di un'agenda, fece qualche calcolo, rifletté per un momento e poi improvvisamente chiese all'Ebreo: 'Mi scusi, quando è Yom Kippur (il Giorno della Riparazione)?' 'Oh', disse l'Ebreo e mise di nuovo i piedi sul sedile prima di rispondere». Sono in genere storielle popolari, che spesso hanno come protagonisti dei «topoi comici», quali lo Schadchen (il mediatore di matrimoni) e lo Schnorrer (il mendicante). Queste storielle non sono però riportate ed esaminate in quanto riguardanti gli ebrei. Sono semplicemente materiale esemplificativo delle considerazioni sul Witz, che Freud usa con dovizia perché, dato il suo legame con la cultura ebraica, gli è più congeniale e anche più a portata di mano. È, del resto, un filo molto robusto che collega i «motti», la cultura ebraica e la storia personale di Freud. Annota Flavio Manieri nell'introduzione all'edizione italiana del 1970: «È incontestabile che Freud si sia avvicinato al problema del motto di spirito prima come oggetto che come soggetto, né più e né meno chè nella sua situazione di ebreo, figlio di un commerciante ebreo, con una reazione fiera, animata nell'infanzia da modelli eroico-classici, come deluso riverbero del saggio adattamento passivo paterno alle provocazioni, magari distaccandolo più tardi dal sentimalato e il medico ebreo, con un'intenzione che poteva stare a mezzo fra la sfida o la scommessa da un lato, e la volontà di aiutare il prossimo dall'altro» (p. 55). Si tratta di un accordo speciale, ma non infrequente a quei tempi, in •cui il medico si impegnava a garantire il risultato delle sue cure e si disponeva a rinunciare ad ogni pagamento se il paziente non fosse guarito entro sei mesi; il poveretto, che soffriva presumibilmente di una forma di ·artrite, dal canto suo prometteva di versare al medico una somma altissima (garantita da uno dei mercanti), ma si cautelava come poteva da cure che definiremmo perlomeno assai spicce: «pretendeva infatti [... ] che il medico non avrebbe usato né 'ferro', né 'fuoco', né 'rottura'» (p. 52). L'aneddoto, proprio per la relatiCultura ebraica Il riso Giovannanton o Forabosc mento del dolore e dal ricordo, tendendo ad isolarlo nella sublimazione del classificatorio ... » (p. 9). Il brano che Freud dedica alle storielle in quanto ebraiche è a proposito dei motti «tendenziosi», quando ne chiarisce la funzione aggressiva e critica. «Un'occasione particolarmente favorevole al motto tendenzioso si verifica quando l'intenzionale critica ribelle è diretta contro la propria persona o, per dirla più cautamente, contro una persona della quale fa parte anche la propria persona, una persona collettiva, per esempio il proprio popolo. Questa determinante esigenza di autocritica può spiegare perché siano sorti proprio dal terreno della vita popolare ebraica numerosissimi motti calzanti, dei quali abbiamo già dato tanti documenti. Si tratta di storielle create da ebrei e rivolte contro peculiarità ebraiche. I motti coniati dagli stranieri sugli ebrei sono quasi sempre facezie brutali, nelle quali l'arguzia è resa superflua dal fatto che, per gli stranieri, ;'ebreo è una figura ~omica. Anche i motti ebraici inventati da ebrei ammettono questo fatto, ma essi conoscono sia i propri veri difetti che il nesso di questi con le proprie qualità, e ciò che essi hanno in comune con la persona da biasimare determina la condizione soggettiva, di solito così difficile da produrre, per il lavoro arguto [... ] Non so del resto se accada spesso che un popolo rida tanto Aldo Mondino va frequenza di simili «scommesse», non sembra da interpretarsi come un contratto-capestro a cui il medico, perché ebreo, dovette sottostare, ma anzi ci restituisce, per una volta anche ai livelli sociali meno elevati, l'immagine di un «rapporto estremamente civile fra persone che, quale che sia la loro estrazione, si riconoscono fondamentalmente 'uguali': e ciò vale in particolare per l'Ebreo, qui nella veste di 'tecnico', lontanissimo dalle preclusioni ufficiali della Chiesa [che vietava agli Ebrei di curare i Cristiani] e dai pregiudizi, spesso altrove dominanti, della magia e dell'intoccabilità» (p. 56). La piccola e divertente scena evocata dal Luzzati sembra quindi proporre una felice eccezione all'ipotesi di rapporti più difficili fra le due comunità ai piani bassi dell'edella propria indole». Da un lato vi è dunque un compiaciuto apprezzamento della capacità degli ebrei di ridere di se stessi, dall'altro viene osservato come il «vantaggio» dell'autoderisione rispetto alla derisione· altrui è che questa avviene in una condizione di identificazione partecipativa e permette di vedere (benevolmente) con i difetti anche le qualità. Un esteso studio dell'umorismo ebraico è stato compiuto da T. Reik (1929, 1954, 1962), che ne ha esaminato con attenzione la valenza autodenigratoria. Secondo Reik questa rappresenta in primo luogo un genuino apprezzamento umoristico delle debolezze e dei difetti degli ebrei, in cui, stando all'interpretazione data alla luce dello scritto di Freud Humour (1928), il superio invita l'Io, in maniera critica ma non «cattiva», a contemplare i limiti legati agli atteggiamenti e al modo di vivere degli ebrei. Il significato più apparente dell'umorismo autodenigratorio ebraico sarebbe quindi quello di una indulgente (accettante) e divertita autocritica. Ma al di sotto di questa Reik individua una intensa aggressività contro se stessi, che a sua volta occulta un'aggressività contro il mondo gentile, ritenuto responsabile dei tipici difetti che l'umorismo ebraico sembra riconoscere e deplorare. Nell'autocritica vi è in realtà una critica dei nemici e oppressori. Il meccanismo in atto è molto simile a quello dificio sociale, e fa anche riflettere sulla fretta di tanti studiosi di desumere dalle loro indagini un panorama univoco: dalle analisi contenute nella Casa dell'Ebreo emerge invece una sorta di alta rettitudine del metodo, la disponibilità a scovare e scrutare le fonti ponendole innanzitutto in piena luce; questa voglia di capire, prima che di spiegare, allaccia un legame diretto con verità grancli e piccole, mettendo al sicuro l'autore e il suo lettore dalle pavide zone d'ombra tante volte calate sull'argomento, sia dalle più comprensibili cautele filoebraiche di alcuni storici sia, con un massiccio incremento di stupidità, da un pregiudiziale atteggiamento antisemitico. dell'autocritica del melanconico in cui l'aggressività non è diretta tanto contro di sé quanto contro l'oggetto d'odio introiettato. Il suo funzionamento è, secondo il suggerimento di Reik, indicato dalla battuta del giocatore di carte ebreo che se la prende con il suo compagno: «Che razza di individuo sei che stai a giocare a carte con un individuo che sta a giocare a carte con uno come te!» (Una variante moderna con la medesima struttura è di Woody Alleo: «Non mi iscriverei mai a un circolo disposto ad avermi come socio»). L'autoaggressività rimbalza sull'altro giocatore che è imputato di essere responsabile delle deficienze proprie. In aggiunta, le storielle autodenigratorie implicano un messaggio diretto al nemico (il persecutore). Questo ha uno specifico significato difensivo, traducibile in una verbalizzazione del tipo: «Non occorre che tu mi aggredisca, mi aggredisco da solo!» È un modo per far fronte alla paura di essere attaccato mettendo in atto (prima del nemico e invece di esso), ovviamente in modo attenuato, non distruttivo, l'attacco temuto. In questo gioco umoristico l'autodenigratore realizza dunque sia un'operazione preventiva rispetto all'aggressione del nemico sia, riuscendo a colpire il nemico (introiettato come colpevole dei propri problemi), una «esperienza di trionfo sull'oppressore». L, umorismo autodenigratorio ebraico è stato recentemente rianalizzato da Avner Ziv (1984), che ha, comunque, sottolineato come questo tipo di umorismo «certamente non è proprietà esclusiva degli ebrei» e come operi non solo a livello di popoli ma anche di individui (citando ad esempio la battuta di Lincoln, il quale ad un oppositore .che lo accusava di avere una doppia faccia rispose: «Vi pare che se avessi due facce userei questa?»). Ziv ne riassume le funzioni in quattro principali: la prima è quella di agire come deterrente contro l'aggressione («se una persona riesce a ridere delle proprie debolez- 'O <"I ze, previene gli altri dal ridere di 1::1 esse»); la seconda riguarda il ricer- .5 ~ care una forma di apprezzamento, t:l.. basata sul fatto che «l'interessato r--.. ~ sa che il tratto personale che viene ....._ messo in ridicolo è, in qualche mi- ~ sura, presente anche negli altri e la ~ sua autodenigrazione consente lo- ·ò'o I'-.. ro di identificarsi con lui [... ]. L'u- °' morista autodenigratore permette ~ all'ascoltatore di vedere che anche ~ un'altra persona possiede quella ~ caratteristica, e non solo osa par- ~
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