Conc i fO"ii.ilamentali Gershom Scholem Concetti fondamentali dell'ebraismo Casale Monferrato, Marietti, 1986 pp. 153, lire 24.000 Michael Walzer Esodo e rivoluzione Milano, Feltrinelli, 1986 pp. 112, lire 15.000 e he un fenomeno complesso e articolato, ricco di storia e dalle molte sfaccettature come l'ebraismo dia luogo a interpretazioni diverse e in certa misura contrastanti, senza che per questo venga pregiudicata o anche solo messa in discussione la sua integrità filosofica e religiosa, è una constatazione che la letteratura apologetica sorta intorno ad esso tende talvolta a dimenticare. L'affermazione per cui la rivendicazione della sua attualità può seguire percorsi teorici i quali non riescono ad armonizzarsi, ma tutt'al più possono convivere l'uno accanto all'altro, riceve un'ulteriore conferma anche se ci accostiamo a questi problemi da un punto di vista piuttosto limitato e circoscritto come quello, della redenzione o della liberazione, che viene trattato nelle opere di Scholem e Walzer. Gershom Scholem è stato uno degli esponenti dell'ebraismo novecentesco che più energicamente ha sottolineato il ruolo cruciale che il messianismo apocalittico ha ricoperto in questa tradizione, dimostrando come esso abbia esercitato un durevole potere d'attrazione anche nei confronti di concezioni molto più sobrie - ad esempio quella di Maimonide. Il rifiuto dell'apocalittica, condotto in nome di un ebraismo «epurato e razionale», per Scholem non implica soltanto il sacrificio, quindi, della verità storica; ma ha anche e soprattutto la conseguenza di soffocare sul nascere gli impulsi più vitali presenti nel mondo ebraico, entro il quale tendenze costruttive si scontrano con tendenze distruttive. La rivalutazione del «lato oscuro» di questa tradizione, quello mistico-cabbalistico, non significa però che vi sia da parte sua un'immediata adesione agli orientamenti religiosi e filosofici che si esprimono nella Kabbalah. Ciò che soprattutto lo interessa di questo fenomeno, la cui riscoperta si deve in ampia misura proprio alla sua attività di studioso, è piuttosto la sua funzione storica, il fatto che il cabbalismo, anche nei tempi più cupi della storia di Israele, «ha sempre saputo contrapporre al sentimento e all'esperienza di disgregazione e di miseria del popolo ebraico immagini di pienezza e integrità» (p. 121), riuscendo in questo modo ad arginare i pericoli di dissoluzione che periodicamente minacciavano il suo patrimonio dottrinario. ~ Non vi è adesione, da parte di <::$ Scholem, al pensiero che si espri- .5 me nella Kabbalah per il fatto che ~ t:::i., quèsto, accentuando unilateral1;;; mente la propria libertà interpre- °' -. tativa, porta a vedere l'ebraismo ~ principalmente come un corpus ~ symbolicum - un processo questo ·èo che spinge la religione ebraica sulr-.... °' la via di una crescente (e discuti bi- ~ le) spiritualizzazione. Per lui inve- ~ ce i margini di libertà ermeneutica l non sono infiniti; la rivelazione ~ concerne innanzitutto «la concreta manifestazione di un contenuto positivo, oggettivo ed esprimibile» (p. 79), il quale non può (e non deve) essere abbandonato all'arbitrio dei commentatori, poiché altrimenti risulta pressoché impossibile fare a meno di reinterpretare le promesse profetiche della Bibbia senza confinarle nel ristretto ambito dello spirituale e dell'interiorità. Nella prospettiva dell'ebraismo in cui Scholem si riconosce, ci si attiene invece «a un concetto di redenzione come evento pubblico che si compie sulla scena della storia e nel cuore della comunità» (p. 107). La redenzione è un processo che promuove un intero, una nuova totalità che annulla ogni distinzione tra esterno e interno - e che si afferma senza collegarsi allo sviluppo della storia o al cammino del progresso. Essa contrassegna l'irruzione della trascendenza nel teatro del mondo, senza essere a sua volta in alcun modo preparata dall'evoluzione intramondana. La posizione di Scholem a questo proposito è radicale. Il suo «nichilismo apocalittico» non conosce scorciatoie né mediazioni. Per lui, come per i profeti e gli apocalittici, la redenzione è assolutamente estranea al corso della storia e però, benché suscitata dalla «luce del Messia», si compie in essa, trasfigurandola e trascinandola al proprio tramonto. Il messianismo ebraico è quindi, dal suo punto di vista, una teoria della catastrofe, ed è perciò incompatibile con l'immagine cristiana (ed in qualche modo anche cabbalistica) della redenzione, concepita come un avvenimento che si realizza nell'intimo dell'anima individuale senza che sia necessario modificare il corso esteriore degli eventi. Scholem pensa invece alla redenzione nei termini di uno sconvolgimento radicale che riguarda tutti gli uomini, l'ordine della natura e quello della storia: il Messia annuncia la fine dei tempi. L'apocalittica non costituisce pertanto un corpo estraneo inseritosi nell'edificio dell'ebraismo, ma «una necessità vitale», poiché essa riconosce il ruolo insostituibile giocato dal negativo - dai fattori di distruzione - in funzione dell'instaurazìone del positivo. È soltanto a partire dalle macerie lasciate da una catastrofe apocalittica che si possono realizzare le speranze utopiche. Per giungere alla liberazione così come l'ha in mente Scholem, è necessario che l'idea messianica si offra agli uomini come una «forza immediatamente operante» in grado di sospingere «una corrente d'aria anarchica nella casa 'ben ordinata' dell'ebraismo» (pp. 130131). 11 profilo dell'ebraismo che ci viene suggerito dall'opera di Walzer presenta tratti nettamente diversi da quello di Scholem, poiché la linea interpretativa prescelta non mira affatto a rinverdire l'interesse per la religione e la mistica ebraiche, quanto piuttosto ad offrire spunti di riflessione per una filosofia politica di taglio esclusivamente laico (assecondando una tendenza che si può ritrovare in Hannah Arendt: cfr. Ebraismo e modernità, Milano, Unicopli, 1986). Walzer concentra la sua analisi sul Libro dell'Esodo, che vien letto come il paradigma, l'archetipo di ogni racconto, storia Edoardo Greblo o movimento di liberazione. E già il fatto che Walzer ci parli di liberazione e non di redenzione è indicativo di un atteggiamento che potremmo definire «secolarizzante», se questo termine non convogliasse tutta una serie di riferimenti filosofici che gli sono del tutto estranei - ma che in ogni caso si presta abbastanza efficacemente a marcare la differenza tra la sua prospettiva e quella di Scholem. La tradizione ebraica che si raccoglie nel Libro dell'Esodo riveste infatti per lui un significato anzitutto politico, nel senso più ampio e generale del termine. Walzer sostiene infatti che questo testo ha accompagnato per secoli - e ci accompagna ancora: si trasforma ma non cessa di influenzarci - l'immaginario politico di tutti quei movimenti di emancipazione (sociale e politica: Walzer non accetta la distinzione introdotta a questo proposito da Hanme un modello del pensiero messianico, ma ne rappresenta anche un'alternativa. Ne è il modello perché traccia, in forma metaforica e secondo una sequenza di tipo narrativo, il paradigma di una lotta politica rivolta a scopi di emancipazione; ma ne è anche l'alternativa perché non ipotizza una trasformazione distruttiva e assoluta, immunizzata dalla possibilità di regredire nella condizione che ci si era proposti di superare. L'Esodo delinea l'immagine di una condotta pratica «a misura d'uomo». Per questo in esso vengono affrontate di petto le contraddizioni che travagliano iJ difficile processo della liberazione (le mormorazioni nel deserto); vengono introdotti i problemi delle responsabilità individuali che stanno alla base di un agire politico rispondente a regole condivise del comportamento collettivo (l'alleanza, che per Walzer «è l'invenzione politica del Libro Davide Mosconi e Nanda Vigo nah Arendt) mediante i quali gli uomini hanno cercato di trasformare le condizioni della loro esistenza. L'Esodo è stato, da Savonarola ai teologi della liberazione, l'opera che meglio d'ogni altra ha metaforizzato il cammino verso la libertà: Egitto, deserto, Canaan - ovvero problema, lotta, soluzione. Ma, afferma Walzer, il processo di liberazione - e qui il richiamo all'ebraismo serve anche da argomento polemico - non viene mai concepito nei termini dell'odissea omerica. La fine dell'esilio non è il ritorno alla patria perduta, né la ricomposizione ultima e definitiva che sigilla la fine delj'erranza. II fatto di partire da una situazione di vita marcata dall'esilio e dallo spossessamento non costituisce il presupposto mondano di un processo di rigenerazione che trasforma irreversibilmente la natura dell'uomo, né allude al sogno millenaristico di «un nuovo cielo e di una nuova terra». L'Esodo si pone certamente codell'Esodo», p. 53); e sono definite le caratteristiche della terra promessa (Canaan), che non è l'approdo definitivo conquistato in seguito alla lotta per l'affrancamento ma, più semplicemente, un luogo «migliore» di quello da cui si era partiti (l'Egitto). Il libro di Walzer è costruito infatti, quasi didascalicamente, come il ripercorrimento della «storia» narrata dall'Esodo per estrarne, di volta in volta, gli spunti di attualizzazione - in vista di una filosofia politica più asciutta di quella, intensamente apocalittica e incline al catastrofale, che deriva da una prospettiva come quella a cui si richiama Scholem. Il Libro dell'Esodo non offre suggerimenti tali da costituire «scandalo e follia», non costituisce un Novum radicale che porta i segni, a dirla con Bloch, della «patria che a tutti brilla nell'infanzia e in cui nessuno fu». Si tratta di adottare una chiave di lettura meno enfatica e più realistica, che non scorga in esso l'allegoria della redenzione finale del genere umano. Canaan, la terra promessa, non è la fine della storia, come si potrebbe pensare se si condividesse il significato dell'operazione condotta sull'ebraismo da parte di Scholem; la «Fine dei giorni» è un'idea che non appartiene all'Esodo (e neppure, stando a Walzer, all'ebraismo). Questo libro ci può trasmettere un insegnamento meno venato di misticismo: le promesse non potranno mai realizzarsi completamente e una volta per tutte, poiché i conflitti, le ricadute e gli antagonismi non saranno mai definitivamente estirpati. L'Esodo si offre piuttosto come una metafora, o una famiglia di metafore che elaborano il problema della liberazione in termini terreni - nel senso cioè che si pongono in alternativa a ogni forma di apocalittica e di messianismo distruttivo. Ogni successo non può che essere parziale: nella terra promessa continuano inevitabilmente a sopravvivere tutte quelle durezze e asperità che fanno (e faranno) sempre parte del nostro vivere. E ciò anche se Canaan è pur sempre un luogo migliore dell'Egitto poiché, comunque sia, significa la fine dell'oppressione e dell'illibertà, della servitù e dell'ingiustizia. L'infelicità è il dolore sono tratti della nostra esistenza che nessuna escatologia può illuderci di debellare: anche a Canaan c'è un po' di Egitto. La lezione di realismo che il Libro dell'Esodo ci impartisce non annulla però il fatto che la nostra percezione delle vicende politiche sia permeata dalla famiglia di metafore che ne forma il tessuto connettivo - e può anzi aiutarci a fissare almeno tre considerazioni fondamentali per una filosofia che voglia pensare il problema della liberazione in termini di disincanto mondano: «primo, che, ovunque si viva, probabilmente si vive in Egitto; secondo, che esiste un posto migliore, un mondo più attraente, una terra promessa; e terzo, che 'la strada che porta .alla terra promessa attraversa il deserto'. L'unico modo di raggiungerla è unirsi e marciare insieme» (p. 99). In questa l,ezione di sobrietà si troverebbe, allora, l'insegnamento fondamentale che il Libro del1 'Esodo può ancora comunicarci. E tuttavia sarebbe riduttivo interpretare l'ebraismo quasi eslusivamente in termini di richiamo al principio di realtà, come sembrerebbe consigliarci Walzer. L'ebraismo probabilmente non è mai stato, com'egli tende a pensare calcando la mano sul taglio «secolarizzante» impresso alla sua interpretazione, così unilateralmente orientato alla liquidazione dell'apocalittica dal proprio orizzonte. È più attendibile invece supporre che le due tendenze dell'ebraismo che possiamo scorgere alle spalle delle posizioni di Walzer e di Scholem, quella della laicizzazione e quella risolutamente messianica, quella «costruttiva» e quella distruttiva, pur restando di opposta natura contribuiscano entrambe a fornircene un'immagine meno distaccata e convenzionale. È lecito pensare che l'ebraismo non abbia mai saputo trovare uno stabile punto d'equilibrio fra questi due orientamenti - ma questo è più un segnale di vitalità che di debolezza.
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