Alfabeta - anno IX - n. 97 - giugno 1987

LIIcolpadiHeidegger elasvolta . • Arendt e Heidegger Il testo che segue è tratto da H. Arendt, La vita della mente, (a cura di A. Dal Lago, tr. di G. Zanetti), di prossima pubblicazione presso Il Mulino, che ringraziamo per avercene concesso l'anticipazione, e costituisce la più esplicita e dettagliata presa di posizione di Hannah Arendt sulla filosofia del suo antico maestro e amico Martin Heidegger. Benché apparentemente dedicato a una lettura specialistica di alcuni temi dell'opera heideggeriana (la critica della volontà, la cosiddetta «svolta», la Gelassenheit) il testo offre implicitamente ma decisamente una critica del carattere impolitico e separato della riflessione heideggeriana. Ma non si tratta, come aveva fatto Karl Lòwith,' di una critica immediatamente politica dell'irrazionalismo e dell'occasionalismo del pensiero di Heidegger. Hannah Arendt cerca piuttosto di ricostruire, a partire dalla «svolta», il significato dell'appello all'inazione che scaturisce indubbiamente dal tardo pensiero del suo maestro. Questa ricostruzione è tanto più significativa, in quanto la stessa opera filosofica di Hannah Arendt prende le mosse dalle riflessioni di Heidegger negli anni in cui egli elaborava Essere e tempo. In breve, questo testo documenta sia un'esplicita differenziazione di Arendt da Heidegger, sia un'eco del loro rapporto originario. Ma l'importanza di queste pagine va al di là di tali rilievi critici e biografici. Esse costituiscono la parte conclusiva di La vita della mente, opera con cui Hannah Arendt intendeva ripercorrere l'inimicizia di pensiero e azione nella filosofia occidentale, a partire dai Greci. Così, l'analisi dei temi heideggeriani conclude la critica dell'estraneità del filosofo dal mondo, espressa nella metafora della distanza, che Hannah Arendt riHannah Arendt prende da Blumenbèrg: !'«estraneità» filosofica in Aristotele, la fuga nella libertà interiore degli stoici, il soggettivismo cartesiano, l'epochè husserliana e infine la Gelassenheit, l'abbandono, di Heidegger. Nota fino a pochi anni fa come studiosa di problemi storici e politici (il totalitarismo, la violenza, le rivoluzioni), Hannah Arendt ha sviluppato le sue riflessioni più originali in due opere di critica filosofica, Vita activa2 e La vita della mente. Ed è degno di nota che questa singolare figura di studiosa di filosofia (che ha sempre mantenuto una certa diffidenza per i pensatori di professione) sia stata avviata al pensiero speculativo proprio da Heidegger. Nella prima opera arendtiana ( Der Liebesbegriff bei Augustin, dissertazione discussa nel 1929 con Karl Jaspers) sono dominanti i temi heideggeriani della temporalità, della Sorge, dell'essere-nel-mondo. Ma nei rapporti (personali, oltre che filosofici) dei due pensatori, il 1933 segna una svolta decisiva. Martin Heidegger, nel suo discorso di rettorato, si illuderà di tradurre in termini immediatamente storico-politici il tema della decisione presente in Essere e tempo, aderendo per pochi mesi, ma in modo esplicito, al nazismo. Hannah Arendt dovrà prendere la via dell'esilio, prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Martin Heidegger rifiuterà in seguito il tema della decisione, elaborando una critica della volontà di potenza e della metafisica occidentale. Hannah Arendt, al contrario, prenderà spunto dall'«errore» di Heidegger per ripensare, sia nella storia della filosofia, sia nella teoria politica, il grande problema della fondazione dell'agire. Non si deve pensare che Hannah Arendt abbia sopravvalutato la scelta di Heidegger del 1933. In uno scritto del 1969, dedicato all'ottantesimo compleanno del filosofo,3 Hannah Arendt ha ricordato come quel lontano episodio denunciasse soprattutto l'ingenuità pratica di Heidegger, ma fosse ben poca cosa rispetto al ruolo capitale che egli ha svolto nella filosofia del nostro tempo. L'ebrea esiliata non ha mai mostrato alcun risentimento personale nei confronti del vecchio maestro. Ma riportare nei suoi limiti il significato politico dell'adesione di Heidegger al nazismo non significa per Hannah Arendt sottovalutarne la portata filosofica. Con quell'episodio, la filosofia speculativa ha trovato la sua bancarotta, perché il pensiero si è dimostrato semplicemente incapace di pensare l'agire nel mondo. La progressiva distanza di pensiero e azione costituisce il filo conduttore delle indagini filosofiche in La vita della mente. Se il libro inizia con una riflessione sul caso Eichmann (figura ideale del burocrate, del piccolo uomo capace di delitti impensabili proprio perché estraneo a ogni forma di pensiero), il testo qui presentato inizia proprio con un riferimento all'episodio dell'adesione heideggeriana al nazismo. In breve, Hannah Arendt ritiene che la celebre svolta, la Kehre, con cui Heidegger sposta la sua riflessione dal senso dell'esistenza umana al problema dell'oblio dell'essere, sia stata causata proprio da quella colpa originaria. Heidegger avrebbe cioè interpretato la propria scelta del 1933 come un effetto del soggettivismo, del prometeismo, ancora dominante in Essere e tempo. È possibile che la valutazione di Hannah Arendt poggi su informazioni raccolte dalla viva voce di Heidegger (con cui ha mantenuto rapporti anche dopo la seconda guerra mondiale). Ma in ogni caso, Hannah Arendt non sembra avere dubbi sul significato autobiografico che la Kehre e la sua interpretazione assumono nel pensiero di Heidegger. La svolta viene così situata tra il primo e il secondo volume dell'opera dedicata a Nietzsche. Da questo punto in poi, il tema della tecnica, come effetto della volontà di potenza dispiegata nella metafisica occidentale, diviene centrale nel pensiero di Heidegger. La critica della volontà si identifica nella Uberwindung della metafisica (di cui Nietzsche viene considerato l'ultimo e decisivo esponente). Il pensiero non può che riconoscere nella tecnica planetaria il trionfo di una volontà di distruzione connaturata alla cultura occidentale. Opporsi alla tecnica, in quanto atto di volontà, non significherebbe che contribuire al trionfo della volontà. La volontà soggettiv~ di agire non sarebbe che rafforzamento di una volontà di potenza universale e impersonale. Al pensiero non resta quindi che disporsi all'ascolto dell'essere, della verità che può rivelarsi nella Lichtung. L'essere umano si pone in una condizione di lasciar-essere, di· Gelassenheit, in cui è esplicitamente negata ogni possibilità di azione. I motivi di interesse della lettura arendtiana ci sembrano essenzialmente due: da una parte l'ancoraggio esplicitamente storico del problema della Kehre all'episodio del 1933 (su cui, con poche eccezioni, la critica si è sempre mantenuta reticente); dall'altra, l'analisi delle conseguenze pratiche del mutato atteggiamento filosofico di Heidegger. Pur senza sopravvalutare la radicalità della svolta, Arendt sottolinea il passaggio da una terminologia basata, in Essere e tempo, su categorie esistenziali, se non soggettive (la Sorge, lo stesso concetto di Da-Sein) a tarde concezioni che mettono in risalto la condizione estatica, passiva, dell'abitare umano sulla terra. Anche se questo mutamento è prefigurato da temi giovanili di Heidegger (ad esempio la colpa come condizione comune degli uomini), la svolta ha conseguenze irreversibili: la critica della volontà di potenza in Nietzsche porta paradossalmente, mediante le categorie dell'abbandono, a una subordinazione al trionfo della volontà e della tecnica. Così, per Hannah Arendt, la filosofia di Martin Heidegger realizza al tempo stesso l'autentico spirito della speculazione filosofica, ma anche un punto di non ritorno. Con La vita della mente, Hannah Arendt ripercorre la filosofia occidentale per prenderne congedo. Superare la metafisica non significherà più insistere sulla critica dei predecessori, ma riconoscerne il carattere intrinsecamente in-attivo, la distanza dal mondo della filosofia. È in questo senso che per Hannah Arendt un pensiero dell'agire, una filosofia del Mit-Sein e della prassi non può, paradossalmente, muovere delle aporie filosofiche del presente ma da un salto nel mondo comune degli uomini. È infatti nel giudizio, la capacità di decidere praticamente su ciò che è contingente, e non nel pensiero separato dal mondo o nell'agire privo di pensiero, che può ripartire la ricerca della libertà nel mondo. È in questo senso, quindi, che Hannah Arendt non ha voluto definire la sua opera filosofia ma teoria politica. Alessandro Dal Lago Note (1) Si pensi a K. Lowith, Saggi su Heidegger, Torino, Einaudi, 19742 . (2) H. Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani, 1964. (3) H. Arendt, M. Heidegger zum 80. Geburstag, «Merkur», 10, 1969, p. 893 e sgg. primario di quel libro per l'esistenza dell'uomo, per il suo modo di essere. N é la parola «volere» né la parola «pensare» trovano posto ne~'opera di Heidegger anteriore alla cosiddetta «svolta» o Kehre, verificatasi intorno alla metà degli anni trenta. E in Essere e tempo' il nome di Nietzsche non è mai ricordato. Quindi, la posizione di Heidegger nei confronti della facoltà della Volontà, culminante nella sua insistenza appassionata su un volere di «non volere» - qualcosa evidentemente che non ha nulla in comune con l'oscillazione della Volontà tra velie e nolle, volere e nonvolere - scaturisce direttamente dalla sua analisi dell'opera di Nietzsche, alla quale, dopo il 1940, egli torna con insistenza. inoltre, i due volumi di Nietzsche, pubblicati nel 1961, sono per taluni versi i più rivelatori: essi contengono alcuni corsi universitari tenuti negli anni dal 1936 al 1940, gli anni stessi, cioè, in cui la «svolta» ebbe effettivamente luogo, quando perciò non era ancora assoggettata alle più tarde interpretazioni da parte dello stesso Heidegger. Se si leggono questi due volumi ignorando la successiva reinterpretazione heideggeriana (comparsa prima del Nietzsche), si è tentati di datare la «svolta» come concreto evento autobiografico esattamente tra il primo e il secondo volume: in sintesi, se il primo volume spiega Nietzsche procedendo ancora al suo fianco, il secondo è scritto in tono sommessamente ma inequivocabilmente polemico. Quest'importante mutamento di «tono» o di «stato d'animo» è stato rilevato, per quanto mi è noto, soltanto da J. L. Metha, nel suo eccellente volume su Heidegger, 1 nonché, con minor incisività da Walter Schulz. li rilievo e la pertinenza di tale datazione appaiono evidenti: ciò contro cui era originariamente diretto il capovolgimento attuato della Kehre è in primo luogo la volontà di potenza. Nella lettura di Heidegger, la volontà di egemonia e di dominio appare come una sorta di peccato originale, del quale egli stesso si ritenne colpevole quando cercò di fare i conti con il suo breve passato nel movimento nazista. Quando più tardi, per la prima volta nella Lettera sull'umanismo (1949)3 egli annunciò pubblicamente che c'era stata una «svolta», da anni in realtà, in un senso più generale, stava riformulando la propria visione della storia dai Greci sino al presente, concentrando in primo luogo l'attenzione non sulla Volontà, ma sulla relazione tra l'Essere e l'Uomo. ln origine, durante quegli anni, la Kehre era consistita in un volgersi contro l'autoaffermazione dell'uomo, che (così come proclamata nel celebre discorso pronunziato quando Heidegger divenne rettore de~'Università di Friburgo nel 1933') s'incarnava simbolicamente in Prometeo, il «protofilosofo», figura che nella sua opera non viene più richiamata. Ora, invece, la Kehre si volgeva contro il supposto soggettivismo di Essere e tempo e l'interesse Esponendo il problema in modo schematico e forse troppo semplicistico, benché Heidegger si fosse da sempre interessato al «problema del senso dell'Essere», il suo primo e «provvisorio» obiettivo era analizzare l'essere dell'«uomo» come solo ente che può porre il problema poiché ne va del suo stesso essere. Quindi, allorché formula l'interrogazione «Che cos'è l'Essere?», l'uomo è ricacciato in se stesso. Ma, quando, ricacciato in se stesso, egli formula l'interrogazione «Che cos'è l'Uomo», è l'Essere a venire viceversa in primo piano; è l'Essere, si scopre ora, che impone all'uomo di pensare («Heidegger fu costretto ad abbandonare il cammino originario di Essere e tempo: invece di cercare d'accostarsi ali'Essere attraverso l'apertura e la trascendenza cooriginarie all'uomo, egli tenta ora di definire l'uomo in termini di Essere»).5 E la prima richiesta di cui l'Essere investe l'uomo è fino in fondo la «differenza ontologica», cioè la differenza tra la semplice «essentità» [Seiendheit) degli enti e l'Essere di questa stessa «essentità», l'Essere dell'Essere. Secondo la formulazione dello stesso Heidegger, nella Lettera sull'umanismo, «Detto semplicemente, il pensiero è il pensiero dell'Essere, nel duplice senso del genitivo. li pensiero è pensiero dell'Essere in quanto, prodotto e costituito dall'Essere, esso appartiene ali'Essere. Allo stesso tempo è pensiero del/'Essere in

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==