Alfabeta - anno IX - n. 97 - giugno 1987

Mensile di informazione culturale Giugno 1987 Numero 97 / Anno 9 Lire 5.000 Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in ltaly A ., • , ,: p1uvoc1: ._ <<PrometeHoermes>> ConvegnsouEliade (ScagnoT,oiu) I • .' • • •: • f t • Arendt: LacolpadiHeidegger · Culturaebraic (GrebloP, onzioL, agorioF,oraboscNo,ecchi) . Barilli/Fusini/FioranilBleellro/Ferraris

• PIERO MANNI Edoardo Cacciatore Graduali con introduzione di Filiberto Bettini L. 14.000 Premio Arcangeli 1987 Finalista Premio Camajore 1987 «L'immaginazione» mensile di letteratura Abbonamento L. 25.000 una copia L. 3.000 Sul numero 40, 67 schede delle nuove riviste di letteratura. Le commissioni dirette con pagamento anticipato saranno evase senza alcun addebito di spese. Piero Manni v.le Leopardi 66 Lecce CCP 11383734 ii . ,, ce libro iritin rcadi • un GabrieleFrasca Il fermo volere Una nuova avventura dell'ingegnoso Spirit le immagindiiquestonumero Lf edizione 1987 di Milanopoesia (25-31 maggio) ha notevolmente ampliato la partecipazione di artisti visivi e di performer più strettamente collegati con la pittura e la scultura. Man mano che il festival si svolgeva alcuni artisti lo hanno seguito operando (Baj, Nanda Vigo con Davide Mosconi in un omaggio a Emilio Villa, Aldo Mondino, Paolo Barate/la, Claudio Parmiggiani, William Xerra, Giovanni Rubino, Marco Mazzucconi, Alfredo Pirri, Luigi Carboni) fino ali'esplosione dell'ultima serata (intesa come prima festa per la poesia) quando sono intervenuti tutti gli artisti invitati. Occorre rilevare subito che il successo della festa è stato tale da giustificare e incoraggiare appieno quel progetto ormai molto evidente di re-ingresso nella socialità da parte degli artisti, insieme ai poeti: è stata questa la caratteristica fondamentale di Milanopoesia. Si è a volte osservato che artisti e poeti sono andati di pari passo fino agli inizi degli anni sessanta; poi è successo qualcosa, qualcosa è venuto a interporsi e li ha separati. Questo «qualcosa» ha nome mercato. Ora l'aria è cambiata e gli artisti si mostrano animati da un'energia poslt1va, libera da molti condizionamenti. Sommario A più voci: Prometeo e Hermes Giampiero Comolli Alessandro Dal Lago Maurizio Ferraris Francesco Leonetti Pier Aldo Rovatti pagine 3-4 Renato Barilli Leavitt, Minot, Easton Ellis (La lingua perduta delle gru, di D. Leavitt; Scimmie, di S. Minot; Meno di zero, di B. Easton Ellis) pagina 5 Nadia Fusini Anche per me (Anche per me, di R. Rossanda) pagina 6 Antonio Fabozzi, Gianni Mammoliti Scheda pagina 7 Salvatore Sodano Il 50" di Lovecraft pagine 7-8 Giorgio Ficara In un territorio mitico (Equinozio d'autunno, di G. Conte) pagina 8 Prova d'artista grafica Alberto Magnaghi pagina 9 Prova d'artista Marica Larocchi pagina 10 Bianca Valota Mircea Eliade. Tradizione e mito pagina 11 Comunicazione ai collaboratori di «Alfabeta~ Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) ogni articolo non dovrà superare le 4-5 cartelle di 2000 battute; ogni eccezione dovrà essere concordata con la direzione del giornale; in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) tutti gli articoli devono essere corredati da pr~isi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, Prima festa per la poesia «Energia positiva» si contrappone, ma solo in parte, a quel concetto di «energia negativa» che è stato tipico, senza per altro essere mai tramontato, della cultura del moderno, che appunto nel «negativo» ha predisposto il senso critico. Possiamo forse affermare che il punto di vista critico è ora un dato presupposto, un apriori, che non impedisce di proporre nuove utopie che aprono e indicano un orizzonte diverso; diverso anche in senso antropologico, contro le invasioni feroci dei mass-media che tentano di riaffermare il dominio delle immagini mute. Dobbiamo dunque pensare che ci siamo davvero lasciati alle spalle il post-modem, o almeno i suoi equivoci, e che si apre davanti a noi una fine di secolo nuovamente propositiva in senso moderno (new modem, forse, o anche ripresa della tradizione del nuovo... ). L'arte torna a mettere in campo pensiero e progetto; emette segnali e messaggi, sia pure diversissimi tra loro, ma con il comune denominatore della consapevolezza di un modo di operare che coinvolge il futuro. «Energia positiva» significa, è pure vero, aumentare di molto il margine di rischio del fare poesie e arte, perché costringe a rimettere Roberto Scagno Convegno su Eliade (I) pagine 11-13 Constantin Toiu Convegno su Eliade (II) pagine 13-14 Cfr. pagine 15-17 Alessandro Dal Lago Arendt e Heidegger pagina 19 Testo: Hannah Arendt La colpa di Heidegger e la svolta pagine 19-21 Edoardo Greblo Concetti fondamentali (Concetti fondamentali dell'ebraismo, di G. Scholem; Esodo e rivoluzione, di M. Walzer) pagina 23 Augusto Ponzio Scrittura sacra, scrittura profana (Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, di N. Frye; L'aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, di E. Lévinas; L'incoscient et son scribe, di M. Safouan) pagine 24-25 Paolo Lagorio La casa (La casa dell'Ebreo, di M. Luzzati) pagine 25-26 Giovannantonio Forabosco Il riso pagine 26-27 Piercarlo Necchi La mistica necessaria (Diario, 1941-1943, di E. Hillesum) pagina 28 Eleonora Fiorani La diversità di Vailati (Convegno: Giovanni Vailati, «ragione e scienza») pagina 29 titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. La maggiore ampiezza degli articoli o il loro carattere non recensivo sono proposti dalla direzione per scelte di lavoro e non per motivi preferenziali o personali. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma larivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criin gioco emozioni forti; ma altra strada non c'è: il ritorno al moderno non ha nulla a che fare con il neo-geometrismo (freddo), ha molto a che fare con un progetto di comunicazione poetica (calda) che osa perfino entrare nel campo dell'utopia, come si è detto. Su questi temi avremo comunque modo di ritornare per approfondire e .dibattere, nei prossimi numeri di «Alfabeta». Hanno operato allafesta, curata da Nanda Vigo: Maria Grazia Abate, Flavio Albanese, Wolker A/bus, Alchimia, Piero Almeoni, Getulio Alviani, Antonia Astori, Kenjiro Azuma, La/lo Azza/i, Luciano Bartolini, Guglielmo Berchicci, Ambrogio Beretta, Mino Bertoldo, Remo Bianco, Andrea Branzi, Remo Brindisi, Augusto Brunetti, Rosario Bruno, Sergio Calatroni, Eugenio Carmi, Cristina Carry, Stefano Casciani, Alik Cavaliere, Hsiao Chin, Armando Chitolina, Antonio Citterio, Gianni Colombo, Ettore Consolazione, Maurizio Costa, Alfonso Crotti, Riccardo Datisi, Aldo Damioli, Beppe D'Amore, Lucio Del Pezzo, Silvio De Ponte, Antonio Dias, Anna Fa/letti, Giordana Ferri, Francesco Garbelli, Mimmo Germanà, Beppe Giacobbe, Piero Gilardi, Anna Gilli, Stefano ·Giovannoni, Sergio Sacchi Zola e Flaubert manoscritti (Emile Zola. La fabrique de «Germinai», a cura di C. Becker; Corpus flaubertianum I. «Un coeur simple», di G. Bonaccorso; Les comices agricoles de Gustave Flaubert, di J. Goldin) pagine 29-30 Francesco Poli Per la costruzione del nuovo (I) pagina 31 Tommaso Trini Per la costruzione del nuovo (Il) pagine 31-32 Angelo Trimarco Per la costruzione del nuovo (III) pagina 32 Maurizio Ferraris Armonia come Kitsch (Elogio della disarmonia, di G. Dorfles) pagina 33 Paolo Bertetto Cinema e storia. Il caso ungherese (Cinema ungherese degli anni cinquanta e sugli anni cinquanta, rassegna a cura di G. Aristarco) pagine 35-36 Maurizio Bettini Chi ci libererà dai Greci e dai Latini? pagine 36-37 Lettere Sulla legge di riforma penitenziaria pagina 37 Giornale dei giornali Da Volcker a Venezia pagine 38-39 Indice della comunicazione Connessionismo pagina 39 Le immagini di questo numero Prima festa per la poesia di Antonio porta In copertina Geometrie di pane di Mino Bertoldo terio indispensabile del lavoro intellettuale per Alfabeta è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, Alfabeta respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo H. Go/ba, Ezio Grisanti, Maurizio Goldoni, Paul Klerr, Michele Ketoff, Rainer Krause, Ugo La Pietra, Pasquale Leccese, Corrado Levi, Anna Lombardi, Valeria Magli, Ugo Marana, Roberto Marcati, Enzo Mari, Massimo Mariani, Adelio Maronati, Livio Marzot, Franco Mazzucchelli, Alessandro Mendini, Merlino, ]vana Miche/etti, Stefano Mingaia, Rubén Mochi, Massimo Morozzi, Maria !l{ulas, Pietro Mussini, ldetoshi Nagasawa, Giovanni Nicolini, Mauro Olgiati, Luigi Ontani, Annibale Oste, Romolo Pallotta, Claudio Papola, Antonio Paradiso, Ico Parisi, Achille Parizzi, Cesare Pergola, Marcello Pietrantoni, Giuseppe Pipo/i, Luisa Protti, Prospero Rasulo, Roberto Remi, Jona Rossetti, Cinzia Ruggeri, Alejandro Ruiz, Mi/o Sacchi, Nicola Salvatore, Denis Santachiara, Paolo Scordia, Luigi Serafini, Stefano Sevignani, Boris Sipec, Emilio Tadini, Ettore Sottsass, Tarshito, Fabio Titta, Duscian Todorovic, Ida Travi, Antonio Trotta, Maurizio Turchet, Enzo Umbaca, Fosco Valentini, Walter Valentini, Grazia Varisco, Guido Venturini. Antonio Porta Il servizio fotografico è stato realizzato da Fabrizio Garghetti alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese Maria Corti, Gino Di Maggio Umberto Eco, Maurizio Ferraris Carlo Formenti, Francesco Leonetti Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art director: Gianni Sassi Editing: Studio Asterisco - Luisa Cortese Grafico: Bruno Trombetti Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Pubbliche relazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Rotostampa, Brugherio Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 50.000 estero Lire 65.000 (posta ordinaria) Lire 80.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 8.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale ' via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431208 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artisticariservati ('°'I c:::s .5 ~ t:l., I'-.. ~ ....... e ~ ·eo I'-.. °' ~ ~ ~ .e ~ - -----------------------------------------------------------------------------------c:::s

Apiùvoci: PrometeoeHermes Pier Aldo Rovatti. II libro di Formenti ha la capacità di registrare, sensibilizzare, una serie di eventi teorici ch·e si sono succeduti negli ultimi dieci-quindici anni. Questo apprezzamento certamente qualifica il libro, però non è sufficiente; se il libro è infatti una specie di sensorio su quello che è accaduto nella teoria o in una parte della . teoria, esso inoltre si propone di promuovere un punto di vista, un progetto di riflessione: una modificazione, potremmo chiamarla così, del modo di pensare abituale. La proposta mi trova sostanzialmente d'accordo. Il confronto critico può cominciare a nascere sui modi, sulle conseguenze che noi possiamo trarre a partire da questa modificazione. Ho trovato nell'impianto del libro come un doppio movimento, sul quale sarebbe forse opportuno orientare la discussione. Da una parte - e credo sia questo il senso del riferimento, per quanto cauto, al «pensiero debole» - un allentamento e un allontanamento - allontanamento dalla violenza, dalle forme di teorie che comportano elementi di violenza, insomma un «allentamento dell'antagonismo». Quindi anche una presa di distanza da queste forme: il binomio del titolo, Prometeo e Hermes, può anche essere letto in questa chiave. Allentamento/allontanamento dall'elemento violento il quale è rappresentato dall'unità, dall'omnia in unum (nel senso del Serres di Rome). Accanto a questo movimento troviamo però anche un'esigenza di «rimitizzazione»: la positiva indicazione di una riemergenzq del sacro, in un rapporto critico rispetto ai dibattiti attuali sulla secolarizzazione. A me, in sostanza, non sembra facile far convivere questi due movimenti: l'allentamento con le sue immagini adeguate, e la riemergenza del sacro che, evidentemente, comporta che sulla scena appaia qualche cosa che non sappiamo, che ci risulta estraneo, non visibile, e che quindi forse non può essere assunto in un modo diretto all'interno di un'immagine o di un immaginario. Quando, per esempio, nel libro si assume che la teoria possa flutGiampiero Como/li, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Francesco Leonetti, Pier Aldo Rovatti tuare in accordo con le fluttuazioni del mondo fisico, troviamo una sorta di identificazione tra i modi di pensare e i modi di essere della realtà; ma allora non vedo più come possa intervenire, in questa ipotesi di identificazione, l'elemento del «sacro» che, o deve essere rimeditato in un altro modo, o viene a costituire un effettivo elemento di contraddizione. Giampiero Comolli. Uno dei meriti del libro di Formenti è quello di mostrare come oggi ci troviamo di fronte alla permanenza di un universo mitico: la secolarizzazione del mondo post-moderno, o meglio tardo-moderno, non è pura e .lineare; essa porta invece a una emergenza labirintica di miti, immagini, figure, presenza di sacralità. Secolarizzazione dunque come forma di rimitizzazione; nel campo del sociale, dei saperi, delle scienze assistiamo alla nascita di nuove figure mitiche; Prometeo ed Hermes di nuovo tra noi. Mi sembra che il libro di Formenti ci faccia capire come un simile manifestarsi di miti, di immagini, compo'rti anche una modificazione nel loro statuto di realtà. Queste immagini non possono essere prese come pure e semplici immagini. Fin dalle prime pagine del libro, parlando della metafora del «pensiero debole», Formenti ci dice che bisogna prenderla non allegoricamente, bensì «alla lettera». Ora, mi sembra che questa proposta non riguardi soltanto il pensiero debole. È il mito tardomoderno nel suo insieme che ha acquisito una diversa forma di realtà, diventando, diciamo così, più reale. Figure, metafore, immagini non sono, o non sono più soltanto, segni di linguaggio, significanti che stanno per una realtà assente, non fanno più parte dell'universo della comunicazione, ma entrano invece in quello del simbolo. E il simbolo viene qui inteso nel senso del mettere insieme, ricomporre frammenti di realtà separata; non appare più dunque come un termine segnico, bensì come una modalità dell'essere, della realtà. Accettando questa accezione di simbolo, si può oggi arrivare a dire che esiste un'analogia fra conoscenza ed essere: le strutture del pensiero si rivelano omologhe a quelle della realtà. Hermes non è un'invenzione della nostra immaginazione, ma «esiste», ;el senso che la realtà oggi assume, o può assumere fra le altre, anche la forma di Hermes. E quindi, per conoscere e agire nella realtà, dobbiamo saper pensare come Hermes, essere Hermes. Come Hermes, anche il libro di Formenti vuole essere messaggero e «psicopompo»: guida di anime verso la selva delle immagini tardomoderne. Credo però che per potersi orientare in tale selva senza perdersi nel labirinto delle immagini, occorra anche saperle distinguere, riconoscerle nelle loro differenze, ed è a proposito di questa differenziazione che la via tracciata da Formenti mi sembra ancora imprecisa, incerta. Faccio subito un esempio. Formenti parla della necessità di allentare l'antagonismo basato sulla contrapposizione amico/nemico. Questa contrapposizione deriva dall'attuale permanenza della necessità del sacrificio, sul quale il sacro è fondato. La persistenza del sacrificio ci dice che la secolarizzazione attuale non ci ha fatto uscire dalla sacralità. La rimitizzazione, vista da Formenti come un fenomeno positivo, si accompagna a una risacralizzazione (necessità dei <<nemici»e del loro sacrificio) dalla quale Formenti si vuole allontanare. Qui allora c'è un problema, che riguarda proprio lo statuto di realtà delle immagini. L'opposizione amico/nemico si dà nella misura in cui nasce un mito dell'altro. L'altro va sacrificato in quanto non si mostra più come un simile dell'uomo, bensì come una sottospecie umana, un quasi-animale, un «non uomo, ma solo nemico». Ma nel momento in cui considero l'altro, alla lettera, come un animale nocivo, sono legittimato all'uccisione, al sacrificio. Anche nel sacrificio dunque abbiamo un'assunzione di metafore alla lettera. E l'attuale permanenza del sacro, la diffusione di nuove forme di sacrificio, è dovuta al fatto che si sacrificano immagini prendendole alla lettera. Le immagm1, sacrificate proprio in quanto prese alla lettera, si ripresentano come realtà che affascinano il soggetto, lo schiacciano e lo annientano. Nella contrapposizione amico/nemico il soggetto viene travolto da un'immagine che si mostra nel reale e come reale. Occorrerebbe forse qui introdurre la nozione di «fantasma», modalità di presentazione di un'immagine «para-reale», che non coincide né con quella della metafora, né con quella del simbolo. Perché, per concludere velocemente, anche fra metafora e simbolo non ci può essere, credo, un medesimo statuto di realtà: se il simbolo è reale e ci pone in un'omologia fra essere e conoscere, rimane il fatto che l'essere non coincide con il conoscere (tranne che in forme «estreme» di pensiero, come quello zen, che ci porterebbe su un'altra strada, più lontana ancora): non si può quindi semplicemente o impunemente uscire da un universo del segno per «simbolizzarsi» nel reale. Anche in una via simbolica di ricomposizione nel reale, la metaforà rimane pur sempre segno, a sua volta distinta dal fantasma. Per accedere all'universo mitico tardo-moderno, sembra dunque necessario distinguere fra le diverse forme delle immagini e dei miti che ci si fanno incontro. Ma in che modo distinguere? La distinzione infatti è per essenza un'operazione concettuale, ·astratta e antimitica, forma di pensiero dunque che ci costringe a uscire proprio da quel mondo di immagini nel quale vogliamo o dobbiamo accedere. An-. che il modo di distinguere, anche la forma della concettualizzazione dunque devono mutare. Ma come? Assumendo immagini all'interno dei concetti, ci dice Formenti. Così che non si possa più distinguere fra concetti e immagini. In questo modo il pensiero della differenza (su cui si fonda il logos occidentale) si troverebbe preso nella spirale di un rimando interminabile fra immagine e concetto (dove il «fra» non sarebbe più una differenza ma il continuo annullarsi della differenza). È sull'enigma di questa spirale mitica che il libro di Formenti ci porta a riflettere. Francesco Leonetti. Sento che avete approfondito alcuni punti, molto acutamente: il sacro, la metafora, i miti1E vorrei insistere su ciò, ma anzitutto con uno svisceramento più complessivo del problema che il libro ci presenta, a mio avviso. Ritengo che esso utilizzi o voglia utilizzare o voglia proporre proprio l'uso di un tempo antropologico; nell'attuale vuoto di progetto storico. Certo, lo fa mostrando la incidenza protratta dell'immaginario; però direi che risente così fortemente il vuoto di progetto storico che mette in gioco alcune cose abbastanza inaspettate nel discorso teorico. D'altra parte, a me pare che il libro finga, o protragga, quelFpttica che tutti conosciamo I tradizionale nella critica deda sinistra e propriamentf nella posizione di marxismo critico do.vecriticando i teorici di alt sponde: si fa un utilizzo di loro, o quanto è possibile si cerca di connettere e collegare alla propria posizione quello che i teorici di altre sponde a estrazioni hanno avanzato. E·sta"in>questo il costante attraversamento, che è quasi -. direi in terrriini •ottimi r - • \b "' • ~una rassegna recensiva,. en .,recisa e consequenziale, cht_thnziona in tutto il \ibro. Anch<f ~r 'es~mpio, nei riguardi .diGirard, dst cui viene l'influenza più plausibile, quella sul sacro. Ma mi sembta che anche essa non sia esaustiva e non sia una vera influenza. -Formenti ha prodotto un libro molto giocato, al limite di domandarsi fino a che punto c'è la sua consapevolezza in questo gioco, oppure se è un poco un apprendista stregone, niente di male, lo siamo un poco tutti ... Ma anche nel caso di Girard - per non dire negli altri, negli attraversa-

menti di testi teorici ottimi come Luhmann e Bateson e Serres, o di testi forse più remoti, come Kerényi, oppure discutibili, come Capra - c'è sempre una volontà di cirticare e nello stesso tempo di trar partito, approfondimento, dalla singolare posizione di oggi; in quanto oggi il discorso della sinistra teorica di una volta non ha più certezze, non ha più basi. Si continua a farlo come pura ipotesi, come prolungamento di una scelta oggi a noi tutti impossibile: il collegare appunto argomenti teorici di altre estrazioni a una nostra posizione materialistica di fondo che ha mantenuto le stesse costanti; mentre invece essa è in gioco e domanda senza dubbio una ripresa di materialismo teorico sui punti essenziali ... Ecco, Formenti protrae e allunga questa scommessa. Allora cosa succede, secondo me? Che emerge nel libro, come la parte più interessante, il fatto che egli evidenzi e postuli un certo rapporto tra i due momenti dell'ordine e del disordine. L'ordine non è qualche cosa ai cui margini sta il disordine - frequentemente si avvale perciò della nuova scienza o della nuova filosofia della scienza - e non c'è neanche un disordine di base com'è nella nuova scienza, su cui la rappresentazione mentale umana dichiari leggi e ragioni. Ma ci sono per lui due componenti che non sono in un rapporto dialettico, ma che sono fondamentali. Le presenta come «diurno e notturno», poi le persegue in vario modo, sempre attraverso una certa instabilità, perché in effetti il libro non ha un suo svolgimento o annodamento esplicito. Per un verso è come ansioso; e per un altro verso preme da tutte le parti, con molta capacità di presa. Quindi c'è una specie di dualismo, a mio avviso; e ciò presenta l'esigenza irriducibile di dare delle alternative, mostrando che tutto si fissa ma effettivamente non ha stabilità in ogni fissazione. Questo assunto filosofico-scientifico è diffuso, ma nel discorso di Formenti arriva ancora ad avere _unapresa filosoficapolitica. Qui mi sembra che in questo libro ci sia una sorta di chiave possibile di lettura, che ogni tanto emerge, ogni tanto invece si inviluppa nel dibattito diretto coi testi che esamina. Maurizio Ferraris. Vorrei sottolineare tre punti, relativi alla prima parte del libro, epistemologico-filosofica, che mi è parsa di grande rilievo in ordine a quello che potremmo definire il nesso tra Hermes e ermeneutica. Il primo è di tipo molto generale, e si riallaccia in parte con quanto ha già detto Leonetti. Prometeo e Hermes esamina la transizione da Prometeo a Hermes, come dire anche dalla tragedia alla interpretazione. Ora, ha ragione Leonetti quando dice che il modo in cui questa transizione è trattata nel libro è di tipo prevalentemente antropologico, e in fondo non tematizza a sufficienza la filosofia della storia e la teleologia implicite in Notizia sul libro Il saggio si articola in due parti: la prima affronta in prevalenza tematiche epistemologiche, la seconda teorico-politiche. Nel primo capitolo della prima parte sono definite le linee generali del lavoro, che possono essere ricondotte a un progetto di radicalizzazione della metafora del pensiero debole. Si tratta di «prendere alla lettera» la metafora, nel senso che il soggetto moderno non dovrebbe limitarsi a raccontare il proprio declino, bensì accettare di «farsi da parte», di lasciare la parola alle immagini. L'invito non è tuttavia ad abbandonare la via del logos, della moderna ragione diquesta transizione. Insomma, è in parte eluso l'interrogativo: perché, per quali motivi e perseguendo quali fini si è verificato un decorso storico come il passaggio da un'epoca «prometeica» a un'epoca «ermeneutica»? (con tutte le modulazioni possibili dell'alternativa Prometeo/Hermes, a cominciare dalla alternativa moderno/postmoderno). Il secondo pu_ntoè strettamente connesso al primo. Il fatto che la transizione da Prometeo a Hermes non sia sufficientemente tematizzata come decorso storico comporta una scarsa mediazione tra l'uno e l'altro: come se Hermes fosse la semplice antitesi di Prometeo, e non invece, per così dire, la sua Aufhebung, ciò che insieme supera e conserva, in se stesso, quanto lo ha preceduto, Prometeo, appunto. Così che il passaggio verso la interpretazione non esclude, puramente e semplicemente la trage_dia,ma piuttosto la presuppone e insieme la rielabora come il proprio fondamento avverso. Insomma, per dirla in breve, mi pare che la polarità Prometeo/Hermes, che viene riconosciuta con grande lucidità e persuasività, viene però giocata in termini eccessivamente dualistici. Accanto a questo dualismo, e questo è il terzo e ultimo punto, mi pare che vada ancora sottolineato un certo alone positivistico .. Nel discorso di Formenti le trasformazioni epistemologiche costituiscono il punto di partenza e l'istanza ultima che governa una analisi che passa attraverso l'esame antropologico dell'immaginario collettivo. Ora, perché proprio la scienza deve avere questo ruolo di istanza d'ultimo appello? Da dove trae tanta autorevolezza rispetto, poniamo, alla filosofia, all'arte e alla storia? Queste considerazioni, ovviamente, non vogliono segnalare una singola e personale manchevolezza delle analisi di Formenti, ma piuttosto un sistema complessivo entro cui si inscrivono (penso soprattutto a Serres e a Thom), nel quale si ravvisa generalmente un simile privilegio, a mio vedere positivistico, del momento epistemologico. Aless_androDal Lago. Mi limito soltanto ad alcune considerazioni sul rapporto sacro/secolarizzazione che, a mio avviso, è uno degli aspetti centrali del libro. Desidero dire in primo luogo che sono d'accordo sullo schema tracciato da Formenti: dalla fondazione tragica, che Formenti ricostruisce in Girard, sino al fatto che il sacro, inflazionando~i, circola, diventa moneta corrente e quindi si dissolve - e questo è il problema che tornerà nelle conclusioni del libro. Questo è il tema della secolarizzazione, a cui va accostato quello della produzione di immagini come caratteristica del nuovo sapere (un sapere non immaginario ma creatore di immagini, che sembra sostituirsi alla razionalità classica) e perciò di una supposta re-mitizzazione. scorsiva e strumentale, per imboccare la via dell'ineffabile, del misticismo e della contemplazione, ma piuttosto a cogliere l'ambiguità del processo di secolarizzazione, a scoprire come esso venga preparando il ritorno di antiche figure mitiche: Prometeo e Hermes. La categoria marxiana di seconda natura, rivisitata da un punto di vista·antropologico più che sto- • rico, come ambiente artificiale che si sottrae alla comprensione e al progetto umani; il paradosso di un soggetto produttivo che, mentre dispone. della potenza tecnica moderna, è costretto a pagare in misura maggiore di quanto sia avvenuto in ogni altra epoca il debiOra, senza entrare ne!Ie considerazioni di filosofia della storia di Maurizio Ferraris, ritengo che il tema della secolarizzazione ponga importanti problemi di interpretazione. Siamo soliti pensare alla secolarizzazione come a una sorta di inaridimento delle fonti del sacro - mentre essa si presenta piuttosto come una dispersione, una dissoluzione del fattore religioso nella vita moderna. Penso, non soltanto in termini filosofici ma anche di esperienza quotidiana, che la nozione di secolarizzazione sia più complessa e che escluda un dualismo radicale del tipo sacralità/razionalizzazione. La secolarizzazione si configura come una situazione di ambiguità. Essa è in primo luogo la decadenza dell'autorità religiosa, la fine della presa delle chiese sulle formazioni dell'immaginario e dell'esperienza. In secondo luogo, questo allentamento comporta una rinascita di esperienze religiose. Se prendiamo in considerazione alcune recenti ricerche empiriche su questo tema (ad esempio gli studi di Garelli), scopriamo che la secolarizzazione (la perdita di influenza delle chiese) produce fenomeni come lo sviluppo di gruppi fondamentalisti oppure la riattualizzazione di pratiche religiose arcaiche, orientali o magiche. Le due cose vanno insieme. È difficile dire se la rinascita del fondamentalismo sia una ripresa del religioso oppure un'eco della dispersione della cultura religiosa. Questo problema - che potremmo chiamare la post-modernità delle credenze - è parallelo all'altra distinzione posta dal libro di Formenti, e cioè la dissoluzione del rapporto amico/nemico. Nella misura in cui l'antagonismo amico/nemico si generalizza, come Formenti mostra, a tutto il mondo sociale, a tutte le sfere dell'esperienza, esso si inflaziona e viene a cadere. Agli antagonismi si sostituisce il frammentario, il pluralismo non conflittuale. Vorrei porre perciò una domanda all'autore del libro, per concludere questo primo intervento. Se questa è l'evoluzione che Formenti ricostruisce (e aggiungo, correttamente) come mai le categorie che usa vengono tratte soprattutto dal discorso scientifico? Come legittima il privilegio attribuito al discorso scientifico, anche se nella versione critica della nuova razionalità, una versione che rinuncia - come diceva già Ferraris - al positivismo? Perché privilegiare il discorso scientifico su altre forme di discorso, ad esempio quello letterario, oppure certi momenti del pensiero filosofico contemporaneo, che assumono in modo altrettanto radicale questa situazione di ambiguità? In fondo, anche l'autore, alla fine del libro, trova una via d'uscita in un tipo di pensiero non scientifico, quello orientale. Francesco Leonetti. A me sembra che si sia discusso su molti temi, in maniera di primo approfondimento, sufficientemente e bene. Certo simrJolico della colpa originaria, del gesto umano che si appropria della Natura, sono i temi del secondo capitolo, che delinea i caratteri del nuovo Prometeo. L'utopia prometeica di una riconciliazione con una Natura • completamente riassorbita nella socialità umana, appare disarmata di fronte ali'evoluzione tardomoderna della scienza e della tecnica. Siamo nell'era di Hermes, che l'autore descrive, nel terzo capitolo, a partire da alcuni concetti chiave elaborati da scienziati e filosofi come Prigogine, Thom, Serres e Bateson. Hermes è il fanciullo divino che insegna ad afferrare le. occasioni di un mondo in cui crescono disordine e casualità, tamente Formenti ha solo cominciato a svolgere gli argomenti del suo discorso, che avrà sede nell'attività successiva. Vorrei solo fare un'osservazione rivolta sia a Ferraris, che ha parlato di positivismo, sia a Dal Lago, che ha chiesto esplicitamente come mai c'è una prevalenza del discorso teorico-scientifico su quello filosofico. In realtà Ferraris dovrebbe precisare il suo pensiero: perché tutti sappiamo che positivismo vuol dire riferimento al dato; ma dopo il positivismo, in sede teorico-scientifica, c'è il neopositivismo, che verte sul linguistico invece che sul dato, con uno spostamento molto forte, e poi c'è il postpositivismo, il quale si caratterizza per affermare che non c'è verifica sperimentale certa. In questo senso mi sembra allora che sia interessante, non dico riuscita o conclusa, ma sia interessante quella certa circolazione di rapporto tra i due ambiti (scientifico e filosofico) che è presente nel libro di Formenti, sempre se si fa riferimento o ai neopositivisti o addirittura ai postpositivisti. Alessandro Dal Lago. E in riferimento alla domanda che io ponevo? Francesco Leonetti. Rimane aperta. Con la precisazione che tu poni una contraddizione, e invece a me pare, proprio perché non si può più parlare di positivismo, ma semmai di postpositivismo, che la circolazione fra i due campi sia utile, sia interessante (e che presso Formenti sia posta). Pier Aldo Rovatti. Lii mia impressione è che Carlo Formenti si muova in direzione di una fisicopolitica. L'affermazione di una fisico-politica comporta però un'adesione del pensiero: il pensiero sarà quello in grado di rispecchiare questa fisico-politica. A mio parere, questa è una direzione che contrasta con l'esistenza di un pensiero il quale riconosce invece la crisi dell'idea di verità e pone problemi di presa di distanza, di allontanamento, di metafora, di immagine, ecc. Alessandro Dal Lago. Volevo sottolineare che, come viene accennato nel libro di Formenti, uno degli aspetti più interessanti della nuova filosofia della scienza, è il fatto che il discorso scientifico non è più protetto da una cinta epistemologico-retorica, come avviene nel positivismo classico e p.el neopositivismo. Si sa bene che il positivismo non è tanto un sapere basato sulla conoscenza empirica (si pensi alle scienze umane e sociali della fine dell'Ottocento) ma una retorica della conoscenza empirica. Formenti sottolinea giustamente lo sfondo antropologico del discorso scientifico, riportando le origini del sapere a quello che chiamo lo «schema tragico», e quindi a un atto fondativo sacrificale. Questa analisi mi sembra è il sapere del locale, del contingente, dell'aleatorio, è la potenza del «micro». La seconda parte, articolata a sua volta in due capitoli, ripercorre la via che conduce da Prometeo a Hermes come trasformazione dei modi della razionalità politica: dal rigore «tragico» dell'opposizione amico/nemico ali'ambiguità della concezione sistemica del politico, la quale sembra capace di superare la forma antagonistica dei conflitti. Nel primo capitolo è svolto un confronto critico con le teorie antropologiche di René Girard: la permanenza del sacro, associata alla degenerazione dei suoi dispositivi strutturali (secolarizzazione), sono gli elecompletamente accettabile. Ma nasce un problema. Quando la cinta positivistica viene rotta, la riflessione sulla scienza si de-positivizza (come fanno gli autori citati da Formenti, Prigogine e altri, che si richiamano a Valéry, Bergson, ecc.) non si dovrebbe allargare l'ambito ermeneutico del discorso sulla razionalità, convocando il letterario, il poetico, il narrativo, come già avviene in altri settori della filosofia contemporanea (penso a Ricoeur)? Maurizio Ferraris. Faccio anch'io una breve precisazione su quello che ha detto Leonetti, il quale segnalava giustamente le oscurità e imprecisioni del mio discorso. Sono d'accordo, non esiste un positivismo, ma molte modulazioni differenti di un medesimo ideale; e certo il positivismo di Serres è diverso da quello di Càrnap o da quello di Comte. Più precisamente, il positivismo di Serres non consiste nell'imporre ovunque e indiscriminatamente un culto dei dati e della verificabilità, ma piuttosto nel tentare una alleanza tra scienze della natura e scienze dello spirito orientata principalmente dalle prime. Pier Aldo Rovatti. Resta comunque il fatto che tra l'idea di scienza che aveva Heidegger e la idea di scienza che possiamo avere noi, c'è una variazione importante e sintomatica. Il problema è: che tipi di interrogazione rivolgiamo ai nuovi saperi? Semmai è la filosofia che potrebbe allora apparire arretrata su questo punto, e presentarsi con schemi di pensiero vecchi, chiedendo alla scienza delle verità, quando invece probabilmente alla scienza dobbiamo piuttosto chiedere immagini e abbozzi di immaginario, che possono non confermare l'identificazione tra tecnica e metafisica del soggetto. Alessandro Dal Lago. È verissimo che la filosofia, da un certo punto di vista, non è in grado di affrontare le nuove tematiche scientifiche. In fondo la critica della metafisica positivistica era già operante ai tempi di Whitehead e di Bergson, che insistono sul carattere processuale, dinamico del sapere scientifico. Ma quando invece Heidegger, ad esempio, riflette sulla scienza, appoggiandosi curiosamente a Heisenberg e perciò, ai suoi tempi, alle riflessioni più avanzate della scienza contemporanea, dà un'immagine in qualche modo totalitaria, autoritaria del sapere scientifico - che invece le nuove riflessioni mettono in discussione. Nasce qui un problema: o nella critica di Heidegger si manifesta, nonostante tutto, un pregiudizio metafisico (un'immagine della scienza compatta e non problematica) oppure il nuovo sapere, al centro del libro di Formenti, realizza una nuova forma di autorità che oggi è più difficile da individuare. menti costitutivi di una riflessione sulla moderna violenza politica. Il secondo capitolo (ultimo del libro), attraverso un percorso che chiama in causa le teorie operaiste degli anni settanta, il funzionalismo sistemico cibernetico di Luhmann e la cultura del movimento «verde», si propone di indicare una direzione di allontanamento dagli esiti «sacrificali» del progetto rivoluzionario. Carlo Formenti Prometeo e Hermes Colpa e origine nell'immaginario tardo-moderno Napoli, Liguori editore, 1987 pp. 168, lire 18.000

Leavitt,MiQtf,EastonEllis David Leavitt La lingua perduta delle gru Tr. di Delfina Vezzoli Milano, Mondadori, 1987 pp. 295, lire 22.000 Susan Minot Scimmie Tr. di Chiara Rocco Spallino Milano, Mondadori, 1987 pp. 147, lire 18.000 Bret Easton Ellis Meno di zero Tr. di Francesco Durante Con un saggio di Fernanda Pivano Milano, Pironti, 1987 pp. 268, lire 20.000 I n questi mesi si parla tanto del «minimalismo» dei giovani narratori statunitensi, ed è anche chiaro che esiste una certa relazione tra loro e i nostri «nuovi romanzieri». Infatti l'etichetta assunta per designare i fatti d'oltre Atlantico ha in sé un'ambiguità che si adatta molto bene a quanto avviene anche presso di noi. Si tratta, in sostanza, di un clima in qualche modo riconducibile allo sperimentalismo: c'è del rigore, della radicalità, in quell'impegno a scrivere con mezzi parchi e ridotti, o comunque a perseguire una coerenza stilistica, ad affidarsi a una maniera. _Ma d'altra parte, come indica il termine, sono un impegno, un rigore «minimi», non particolarmente gravosi e difficili, né per chi li attua né per chi li consuma, per i lettori. O in altre parole siamo in presenza di un'avanguardia moderata, ovvero, come ama dire il sottoscritto recuperando vecchie proposte, «normalizzata», il che vale anche per i nostri «nuovi romanzieri». Insomma, ci viene offerto un «minimo» di avanguardia, che d'altronde è pur meglio di niente, e vale in ogni caso per rilanciare la narrativa, per farla uscire dalla forbice dannata degli opposti estremismi: o una scrittura sperimentale che per rigore tocca l'illeggibilità, o un'eterna ripresa del «romanzo ben fatto», inutile, pleonastico. Del resto, tra i connotati di questo sperimentalismo dei nostri giorni, «minimale» o «debole», come si potrebbe dire, riprendendo un altro termine oggi di moda, e il suo relativo carico di ambiguità, c'è anche quello per cui i protagonisti cui esso viene affibbiato in genere vi si oppongono, negando di fare gruppo, di adottare regole comuni. Ed è allora importante metterli alla prova in tal senso, andando a vedere se esista davvero un qualche comune denominatore, e oltre ciò, quali siano i valori specifici delle singole personalità. Un'occasione eccellente in questo senso ci è fornita dall'uscita in traduzione italiana dei romanzi di David Leavitt, Susan Minot e Bret Easton Ellis, tutti al loro esordio nel «genere lungo». Di esordio si l') può parlare anche per l'acclama- ~ tissimo Leavitt, in quanto fino ad -~ ora egli ci era apparso nei panni ~ ~ èlell'autore di racconti brevi ( Cor- ~ po di ballo, già recensito su queste -. colonne). Era inevitabile che lo ~ stesso ·successo· incontqtto 1~ ob- 1 ~ bligasse ad allungare il' passo e a ·bo misurarsi in un più vasto formato. I',.. °' Passo difficile, dato che l'arma mi- ~ gliore di Leavitt è l'understate- ~ ment, il porgere pochissimi ele- ~ menti nelle sue «storie», lasciando ~ un massimo di responsabilità interpretativa al lettore, che deve riempire i sapienti silenzi, le trame magre di fatti esterni, le circonvoluzioni dei sentimenti appena accennati. In tal senso Leavitt è anche un perfetto «minimalista». Invece il volume proverbialmente «a tutto tondo» del romanzo lo ha snidato, per così dire, obbligandolo a uscire in terreno aperto: con qualche imbarazzo, si può asserire in un giudizio globale. O almeno, si è alquanto ridotta l'accezione stilistica del puntare al «minimo», mentre è andata prevalendo l'accezione contenutistica; ma la modestia dei contenuti psichici, sociologici, di trama ecc. comporta una caduta nel crepuscolarismo, che è il rischio incombente su «questo» Leavitt, divenuto all'improvviso troppo analitico e circostanziato. È come se uno qualunque dei suoi racconti, tanto sapienti nell'arte del taglio e dell'ellissi, si zavorrasse con un eccesso di partico- , lari, rivelando la pochezza intrinseca dei materiali costitutivi. Per una conferma di un tale rischio, basta andare a prendere l'episodio che si pone al centro del romanzo, in una funzione «altra» ed eponima. È una specie di «caso clinico» freudiano, riportabile al «bambino delle gru»: un'esistenza derelitta e abbandonata, immersa nella fame e nel bisogno, che però a un tratto si consola incantandosi a guardare, dalla finestra del misero appartamento dove vive, i meravigliosi movimenti delle gru intente a qualche impresa edilizia. Il bambino si lascia assorbire da quell'oggetto del desiderio, tentando di simulare con le sue corde vocali i cigolii, gli stridori del mezzo meccanico (da qui appunto il titolo del romanzo, La lingua perduta delle gru), e perfino le sue movenze automatiche a scatti. Ed è anche, quell'inserto, un gioiello nel filone del «dire e non dire», del comporre con cenni magri, capaci di emanare un asciutto alone emotivo. Per un tale aspetto Leavitt raccoglie davvero un'eredità da Salinger. Ma negli altri capitoli del romanzo i protagonisti, che hanno il torto di essere «normali» come noi, avvicinano i termini delle loro sofferenze, così come, d'altra parte, gli oggetti del loro desiderio, uscendo dalla splendida «alterità» di quell'apologo centrale per delineare un pur esatto, onesto dossier delle nostre sofferenze e speranze. Si tratta di una famigliola newyorkese squallidamente mediana, alle prese coi problemi materiali della casa. L'anziana coppia di coniugi, Owen e Rose, è stata sfrattata, dovrà abbandonare, forse, l'amato quartiere del Middle East, dato che i due non guadagnano abbastanza; ed è anche il dramma del «proletariatQ. intellettuale», dei «colletti bianchi», o «rosa», ormai declassati; lui infatti è insegnante, sempre sottoposto al terrore di perdere il consenso degli allievi e delle loro famiglie; «lei» ha passato una vita come dipendente di una casa editrice che la obbliga a meticolosi controlli sui testi. Il giovane Philip, uscito di casa in giovane età, come è nel costume Usa, li segue a ruota in una professione altrettanto modesta. Questi tre tristi cavalieri percorrono le vie di Manhattan in perfetta solitudine, talvolta incrociandosi, più spesso divaricando le loro esistenze gracili, tanto bisognose di affetto, ovvero di ritrovare, ciascuno, una propria «lingua perduta delle gru», che forse, nel caso del padre e del figlio, altro non è se non il cedere alle lusinghe, alle promesse, alle distensioni dell'omosessualità: ossessione etica e sociologica incombente su Leavitt, attorno a cui egli sa tracciare senza dubbio un dossier amGruppo di Bitti Tenores Remundu 'e Locu pio, onesto, puntuale, esemplare per veridicità, per coraggio morale. Ma appunto, nel passo del romanzo, di dossier si tratta, ovvero di descrizione analitica, perfino naturalistica. Si vedano per esempio le precise cronache degli incontri occasionali che il «padre», Owen, si procura in qualche cinema a luci rosse, tentando di superare censure e resistenze in lui ben più consolidate che nel figlio Philip, aiutato per parte sua dalla giovane età, e da un mutamento in atto nei costumi, divenuti più aperti e concessivi. Quanto a Rose, essa si difende con amori eterosessuali ugualmente standardizzati e conformisti. Insomma, se si vuole un referto finale, questo è a compl~ta conferma della formula da cui eravamo partiti: nella seconda prova di Leavitt diminuisce il quoziente stilistico del «minimalismo», mentre aumenta, fino ai limiti del pericolo, quello in accezione crepuscolare. S i potrebbe dire, allora, che l'asticciola del minimalismo come fatto di tecnica, di maniera, passa in retaggio a Susan Minot e al suo Scimmie, non per niente tanto simile a un racconto lungo, anzi, a una collana di racconti, dove le vicende di una famiglia cattolica, numerosa di prole (ben sette figli), abitante nel Massachusetts, e comunque in uno scenario tipicamente New England, sono sorprese di anno in anno, attraverso delle tranches de vie, senza alcuna preoccupazione di spiegare al lettore i fatti intermedi. E beninteso ciascuna di queste fette è affidata a una trama behavioristica di gesti sobri, riportati nella loro buccia esterna, o di battute di dialogo, in cui si dispiega l'esistenza «fatta di nulla» delle «scimmie» del titolo, appellativo affettuoso usato dalla madre di famiglia per designare l'abbondante figliolanza. Siamo nel pieno di una illustre tradizione anglosassone o nordamericana, forte di esempi famosi, da Virginia Woolf a Little Town di Thorton Wilder, senza neppure dimenticare Spoon Rive,. Vale anche la regola aurea di questo filone, per cui tocca di volta in volta a qualche membro della famiglia reggere il «punto di vista», filtrare il colpo d'occhio sugli altri; ma senza esagerare sulla via dell'emersione soggettiva e personale, dato che su tutto vale la consegna del clima corale, della sinfonia d'insieme. Di suo, la Minot ci mette, appunto, un giro di vite «minimalista», nel senso che, rispetto ai precedenti illustri del filone, essa oggettivizza ancor più le situazioni, riduce i commenti, aumenta gli oneri interpretativi del lettore, mettendolo anche a dura prova col presentargli un muro di fatterelli irrilevanti, di battute di dialogo dalla apparente insignificanza e fatuità. D'altra parte, proprio la conoscenza del filone nobile in cui essa si iscrive ci mette in guardia, sappiamo bene che tanta pochezza è abilmente predisposta per creare il climax finale. Infatti, in una delle ultime tranches de vie, ci tocca dedurre, sempre a partire da parchi cenni ellittici, posti in campo quasi con la natura dell'inciso, della parentesi, che la materfami/ias, perno di tutto quel sistema di affetti incrociati, elemento forte, accanto a un padre debole e propenso all'alcolismo, è stata uccisa in un banale incidente d'auto, e ora l'ombra, il vuoto, l'assenza gravano sui superstiti duramente colpiti. Ma 'beninteso, il cordoglio, piuttosto che essere «detto», sfocia, an-·' ch'esso in un comportamento esterno, ben visibile e palpabile. La famigliola degli otto sopravvissuti inventa così un suggestivo rituale: prelevate le ceneri della madre, le disperde nelle acque del paese delle vacanze, salendo per l'ultima volta sulla barca delle gite felici (la woolfiana Gita al faro è ricordo immanente e struggente). Le ceneri in realtà, ci viene detto con lucido spirito «cosale» degno di Robbe-Grillet, sono come dei 0dischetti porosi, che ciascuno dei figli afferra con mano tremante e scaglia in acqua, con gesto ora lento e insicuro, ora ostentatamente baldanzoso e forte. E il computo oggettuale, «minimale», delle varie traiettorie tiene il posto di un commento patetico, o di un pianto dirotto. Si intuisce anche che ciascun componente della famiglia sta trovando in quel gesto una propria «lingua perduta delle gru». 11 minimalismo sembra riprendere baldanza e aggressività nell' «opera prima» di Bret Easton Ellis, che oltretutto conferma questo piglio dinamico con un titolo anch'esso disposto a enunciazioni di principio, Meno di zero (in coda al romanzo c'è anche un saggio della nostra migliore conoscitrice del fenomeno, Fernanda Pivano). I dati sociali del protagonista, Clay, favoriscono una tale assunzione di «grinta», in quanto si tratta di un gio\'.ane di famiglia abbiente (il padre lavora nel cinema) che lascia gli studi in un college blasonato per una vacanza nella natia Los Angeles, in cui ritrova amici ed amiche, e soprattutto i trastulli di una jeunesse dorée in bilico tra lo hippy e lo yuppy, dove cioé la droga, le bevute, gli amori facili, etero e omosessuali, perdono i connotati sulfurei, da generazione perduta o bruciata, per divenire, anche in questo caso, «normali», banalizzati al massimo. E infatti la prosa di questa «educazione sentimentale» in panni contemporanei scorre via «fatta di niente», ovvero di parties, schermaglie amorose, impegni frivoli, a un livello di «chiacchiera» straripante, rigorosamente rovesciata in fuori. Sennonché il giovane autore vuole strafare, ovvero punteggiare le sue trame minimali con qualche • fatto grosso, ma in ciò rivela limiti grossi, cadendo nell'effettismo, e soprattutto smarrendo la virtù che agli autentici «minimalisti» bisogna riconoscere: l'onestà, la probità dei referti. Anche Ellis civetta con l'omosessualità, componente oggi ineliminabile nel quadro dei sentimenti, ma la offre in un affresco di orrenda maniera esteriore: ·l'amico di adolescenza Julian si prostituisce, tanto per ottenere un po' di droga, e la scena, che ha nel protagonista un improbabile testimone oculare, è resa in modi stereotipati, con pesante commento moralistico. Siamo ben lontani dalla sofferta, leale, autentica partecipazione che emerge nei resoconti di Leavitt. Così come esteriore e di maniera è anche il resoconto che questo romanzo pretende di fornirci circa qualche episodio opposto, di violenza carnale condotta su fanciulle minorenni, o di sadomasochismo, affidato a qualche filmino più che pornografico. In fondo, è vero quanto osservava già il nostro .Manzoni: difficile è mèttersi àll'ostesso livello, alla pari con fatti e persone, mentre riesce più agevole porsi al di sopra, o al di sotto, come, con ostentazione scoperta, dichiara Meno di zero.

Rossana Rossanda Anche per me Milano, Feltrinelli, 1987 pp. 208, lire 20.000 U no stile di pensiero si impone, prima che per ogni altra sua virtù per un tono - il modo, cioè, in cui vibra la tensione secondo cui si inarca, l'arco di emozioni che suscita ... Del tono, tuttavia, non sempre v'è scelta; spesso esso si impone allo scrittore, quasi fosse portato dalle questioni che lo agitano, dai pensieri che lo occupano. Nel caso dell'ultimo libro di Rossana Rossanda, il tono inquieto non è quello, come lei stessa si attribuisce, del «lamento»; colpisce piuttosto l'ostinazione, l'implacabile fermezza con cui Rossanda afferma, o rifiuta, sempre con fulminea certezza. Se questo colpisce è per il suo paradosso; petché mai certezza fu così infondata, e dunque veramente eroica. Perché è evidente; se Rossanda afferma e nega non è perché ciéc'amente si affidi a delle prove, o evidenze. C'è semmai in ogni suo movimento uno scatto di passione; per questo a volte è così severa, a volte arbitraria, a volte capace di straordinari riserbi, altre di impudenti giudizi - come chi appunto si muova per stringere insieme, nello stesso patto, volontà e verità. La verità non è cosa che possa garantire una teoria generale: questo Rossanda lo sa: ci sono tuttavia dei principi da cui non deflette; e questi appartengono, più che a un vocabolario storico, a una idealità della politica che in Rossanda non s'oblia. L'interesse e la simpatia che n~msi può fare a meno di provare per questa straordinaria intellettuale, nascono forse precisamente di qui: dalla forza pura con cui Rossanda ha salvaguardato tutta intera, in modo forse anacronistico, l'idea della possibilità della salvezza. C'è la sventura, questo è indubbio. È un enigma contro il quale si spacca la testa ogni giorno, immagino, chi come Rossanda sia esposto, in veste politica, e professionale, alla «gente». Questo libro è fatto nient'altro che di questo: degli incontri che Rossanda stabilisce, nella concretezza di un contatto, nella passione a distanza del pensiero, con Ancheperme chi si pone di fronte a lei come un soggetto di domanda. Rossanda si sente responsabile; e risponde. Non indietreggia di fronte alle cose più difficili; la malattia, il suicidio, il terrorismo. Tutto ciò rispetto a cui tacere ci sembrerebbe più dignitoso, Rossanda lo assume. Scrivendo, si espone. Perché se c'è molto stile nella sua scrittura, e lo stile sempre ripara, protegge, tuttavia non è certamente estetico il fine che Rossanda si prefigge. Non cerca l'eleganza formale, non elabora strategie compiacenti. Non vuol dire bene, semmai vuol fare bene, pensare giusto. Rossana dichiara subito, e non certo per modestia, che lei non è una scrittrice: ove questo titolo si dia a chi in rapporto alla scrittura si senta impegnato da un vincolo di «bella forma». Lei parla per passione politica: perché affida alla parola una potenza «fattiva»; perché pensare bene e agire bene per lei coincidono. Un pensiero corretto, leale, fedele ai suoi presupposti, fa bene alla comunità: questo Rossanda fermamente crede. È un'idealista, potremmo dire. La si potrebbe attaccare per questo; se non fosse che questa fiducia nel pensiero ristora in tempi di facile scetticismo. O le si potrebbe rinfacciare il privilegio di una mente bene educata, cui mai viene meno la capacità di pensare, e la presunzione che ci sia sempre qualcosa da dire, proprio lì dove ogni dire pare esaurirsi. O le si potrebbe dire che .crede troppo nel giusto: di poterlo possedere; e questo dà ai suoi enunciati un tono spesso apodittico - come apodittici sono gli oracoli. Un tono che ad alcuni potrebbe sembrare irritante, e contraddire ciò che dicevo ali'inizio, la natura problematica, interrogativa, di queste sue riflessioni. Ma non è così: il tono assertivo, io lo intenderei, piuttosto, come una violenza passionale, un gioco retorico della lingua che non sempre; sotto la pressione e l'urgenza del momento, possiamo modulare caricandola di tutti i dubbi che ci assediano. Direi inoltre che c'è del coraggio nel tono assertivo, in chi predica al modo indicativo, e si mette così a disposizione dell'errore. Rossanda del resto non rifiuta i propri scacchi. Anzi volonterosa li Nadia Fusini mostra, convinta giustamente che non sono solo suoi. E dunque ci invita a rivisitare tutti i nostri fallimenti; anche quelli che vorremmo dimenticare. La forza della memoria è in Rossanda stupefacente; una potenza che disarma, e atterrisce; la quale, io credo, si sostiene ad un'intima convinzione, silenziosa, invisibile, perfettamente segreta e perfettamente superba - che lei è chiamata a testimoniare di un'epoca, e lo vuol fare. E fare bene. In questo Rossanda è un irriducibile: come Antigone, come Cassandra. Finché avrà voce, sono sicura, non smetterà di voler dire ciò che vede, e prevede, e non le piace; finché avrà forza, non smetesclusione, oppressione, ingiustizia. Ecco perché un pensiero giusto è necessario. Ed ecco perché Rossanda si dispone, nell'arco di anni che questo libro attraversa, all'ascolto di quello che in questo libro risulta, a me pare, l'interlocutore più vitale per lei, e cioè le donne. Pare a Rossanda di sentire venire di lì, dal luogo escluso delle donne, una domanda di senso che lei si orienta a raccogliere. Sia che si rivolga a Virginia Woolf, o a Simone de Beauvoir, o a Lisa morente, o alla compagna Melania, Rossanda si impegna con loro in un dialogo che è costantemente teso sul filo di una differenza che potrebbe spezzare la possibilità \\lr I~ una ~tralunata ••• •••• ••• ••••••• •••••• ••••••• "città di mare con abitanti" un uomo, armato di revolver, è alla ricerca del suo rivale: la lotta è per la scrivania, l'impiego, lo stipendio ... i Luigi Compagnone I L'ULTIMO terà di voler fare, magari contro ogni costume del tempo, ciò che crede giusto sia fatto. Nel fare ciò, io credo, Rossana obbedisce a una vocazione, di cui ha fatto destino. e iò che la chiama è un'esigenza rigorosa di senso, e di giustizia. Perché lei sa che solo nel senso può darsi giustizia. Per questo lei ogni volta tenta di comprendere esperienze marginali, al limite del senso: siano esse la morte, il dolore, di un essere, di un gruppo, di un'idealità, non importa. Là dove c'è mancanza di inscrizione nell'orizzonte del senso, c'è stessa dell'incontro. C'è qualcosa, infatti, nella questione che le donne pongono al pensiero di Rossanda che quel pensiero pare non poter tenere; Rossanda tocca qui il limite di quel pensiero laico, di sinistra, progressista, cui ella si tiene, per fedeltà, legata. Ed è qui che verrebbe di dirle: non vedi, Rossana, che quel pensiero ti impedisce di andare a fondo di cose che sono venute ad esistere, avendolo superato? Esponiti dunque all'abbandono di ciò a cui sei più attaccata. Vai contro te stessa. Non cercare di costringere le domande delle donne in un giudizio già formulato per te da quel pensiero che vuoi difendere. Non dire che difettano di coerenza. Molto di ciò in cui viviamo ha lo stesso difetto: tanto che potremmo ascrivere quel difetto al pensiero che vuole coerenza, piuttosto che al soggetto che non vi entra. È inevitabile, forse, l'opposizione dei pensieri. Tra l'ebreo e l'israelita sappiamo che non possiamo tracciare dei quieti confini; come tra la donna e l'uomo; tra la femminista e la lesbica; tra il terrorista e il rivoluzionario. E questo non per incoraggiare pigrizie mentali, e diventare tutti dei post-moderni Ponzio Pilato. Ma perché solo nel disordine estremo dei nostri pensieri, e giudizi, e pregiudizi, nel disorientamento che viene quando veramente ci affacciamo sull'esistenza dell'altro - forse solo lì le ragioni dell'altro si affermano. Contro di noi, contro i nostri stessi pensieri; forse addirittura contro il nostro·stesso senso della giustizia. Ma forse dire questo a nulla servirebbe: perché Rossanda già sa che la sua attrazione a certe esperienze del limite scatta per lei proprio dal loro carattere paradossale. La radicalità delle questioni che le donne hanno posto in questo inquietano la sua coscienza vigile, attenta: perché la conducono a saggiare la tenuta di certe verità del progressismo. Per Rossanda, bisogna darne atto, le donne non • sono state mai l'ultima categoria da liberare da parte di quel pensiero laico, democratico, e progressista che così vorrebbe pensarle. Se alle donne Rossanda s'è appassionata è, io credo, per una sregolatezza del suo pensiero, di cui non è facile accorgersi; e che tuttavia in questi scritti si rivela. Irregolare è Rossanda in questo: perché nelle case della politica, dell'ideologia, della critica, in cui abita, vi sta sospettandone un'incapacità, o forse semplicemente un'avarizia: come se per far tornare i conti lì si debba sempre tener fuori qualcosa, la cui assenza lei si ostina invece a rimemorare. Forse semplicemente perché, ancora una volta, non sa dimenticare quell'intuizione radicale e tragica della vita, che in questi scritti si infiltra: quasi un tono pa- • scaliano che invade segreto queste pagine, e che è, alla fine, il tono «vero» dei libro.

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