Alfabeta - anno IX - n. 96 - maggio 1987

mo, allo sforzo di sopravvivere alla condanna. Messo davanti alla morte, il nostro esserefisico reagisce raccogliendo le forze in direzione della vita. È questa anche l'immagine forte cui rimanda la lettura del racconto di Peuw; seppure, in certe pagine, l'invocazione della morte come culla, asilo, come modalità di porre fine alle sofferenze, sembra prevalere. È da questa idea di vita, di lotta per l'esistenza che si può partire per attraversare questo libro, con alcune tra le tante riflessioni possibili. Le vicende sono presto raccontate. Nell'aprile del 1975, i Khmer rossi sferrano l'attacco decisivo contro il regime militare di Lon Noi, che dopo cinque anni di potere, si ritrova a comandare ·un esercito debole, corrotto e incompetente, ed entrano a Phnom Penh, capitale della Cambogia, acclamati da molta parte della popolazione come liberatori. Il 17 aprile, a distanza di ventiquattro ore dal loro ingresso nella città, i loro capi danno l'ordine di evacuare la gente affinché la città sia ripulita. Secondo il nuovo regime, di ispirazione filo-cinese e guidato dal premier Poi Pot, le città, gonfiate dalla guerra, sono nidi di corruzione e di reazione che non devono trovare posto nella nuova Kampuchea. La nazione dovrà ritrovare se ~tessa cancellando il passato. Così viene imposto un severo «socialismo agrario». Alla gente che è invitata ad abbandonare le proprie abitazioni, viene detto che dopo una sommaria pulizia delle frange reazionarie e corrotte del vecchio regime, tutti potranno ritornare nelle loro case. In realtà, da quel momento più nessuno potrà fare ritorno. Inizia l'esodo della popolazione, raccolta in gruppi, verso accampamenti affidati alla responsabilità di alcuni militari (gli Yotear) e di alcuni sorveglianti di lavoro (i Mékong). La gente viene privata di tutti gli effetti personali, quasi si volesse cancellare la storia del passato regime anche sul corpo del popolo: tutto è perduto, e non solo la casa, i vestiti, i giocattoli, gli oggetti di _affezione, che anche in una società ~ non consumistica sono parte integrante della soggettività di ciascuno. Vengono abolite le antiche pratiche religiose, distrutti i luoghi del culto e si impedisce alla gente di pregare, di ricorrere alle poche risorse personali rimaste per reagire. Traditore è anche chi piange, chi ha potuto studiare o chi, grazie al suo lavoro, conduceva una vita da borghese benestante. È necessario negare ogni precedente identità; assumere, violentandosi, l'identità che il nuovo regime democratico vuole dare a tutta la popolazione. Tutti coloro che sono sospettati di essere reazionari vengono uccisi, massacrati senza processo e senza alcun accertamento credibile che attesti la verità delle imputazioni. Per piccoli gruppi, le famiglie vengono costrette a lunghe marce estenuanti con le quali raggiungere i luoghi di lavoro prestabiliti; per dormire devono costruirsi capanne rudimentali; per mangiare, ogni membro della famiglia, anche se ammalato, dovrà lavorare. Tutti devono diventare contadini. Ma presto il cibo scarseggia; anche chi lavora duramente, giorno e notte, spesse volte non riesce a recuperare energie attraverso l'esigua quantità di nutrimento di cui dispone nell'arco della giornata. Allora, si uccide per un pugno di riso. Nel nuovo sistema agricolo di produzione del grano e del riso, si instaurano tecniche di produzione medievale. È vietato anche accoppiarsi, innamorarsi senza il permesso dell'Organizzazione. Chi lo fa, seguendo le sue basse passioni, verrà ucciso, messo in un sacco di plastica e gettato nel fiume. Peuw, protagonista involontaria di questo racconto, con la sua famiglia inizierà l'esodo, immergendosi nel fiume della popolazione che abbandona la capitale; un continuo vagare che ben presto diviene l'unica condizione di vita certa. Non sarà più possibile mettere le radici, affezionarsi alla terra, intessere relazioni di solidarietà e di amicizia tra famiglie. Alle sofferenze dello spirito e alle continue deprivazioni, si aggiungono, presto, le epidemie: il colera, la malaria, aggravate da gravi forme di avitaminosi. I campi di lavoro sembrano trasformati in lager: la gente muore di fame, di stenti, di malattia, quando non è uccisa per vendetta o giustiziata per sospetto tradimento. In pochi anni, sotto il questa una necessità non solo culturale, che avvierebbe l'uomo moderno, posto a contatto con le culture di altri paesi, alla tolleranza; ma è una necessità politica urgente, che lo stesso insorgere del nucleare (civile e militare) impone. La minaccia della morte atomica apre l'esperienza umana ad una tendenza, che è, paradossalmente «quella di eguagliare in vita, di realizzare, di fronte a sé, la cospiratio oppositorum, la convergenza degli opposti» (cfr. M. Spinella, La morte atomica, Feltrinelli, 1985). Per cui sempre più dobbiamo avvicinarci all'idea che l'uomo moderno non ha più barriere o colori nazionali da difendere. Ma c'è un'altra ragione che sostiene il senso di colpa di cui Natalia Ginzburg si fa carico: la situal.'UNIYEns 11.1.USTRE i}À il , I I. ·/ • n,,....rni t-Jl 11ruf-,ra.,. ,i .. 111ml> " d< n-.,111i. • tl'::.pri- UIW" h~I, 4r .. ph, .. llo- rq ..-..:11tò•. La risposta rappresenta certo uno sforzo per c~pire, per ricondurre a ragione la sofferenza inutile e superflua che il racconto di Peuw ci somministra. E se essa ci ammonisce, ancora una volta, che ogni generalizzazione è inutile, ricordandoci che l'ideologia delle verità assolute lascia solo posto al vuoto, sollecita altresì una più cupa riflessione: che mille lager siano ancora possibili nella nostra civiltà? Dall'interno della sua storia personale, che è anche storia collettiva; dall'interno della sua sofferenza e della sua memoria, che dovrebbero essere sofferenza e memoria èollettive, Levi propone alcune analisi: sa che la risposta non troverà luogo di emergere di fronte ad una così atroce interroI;' -- --•• ----- ----~ LJ: CENTENAIR& DE &OSSIU - SOUVEIIU, POUUJTS ET AOTOGjtAPB&S. - Voi.rPii' 99. nuovo regime di Poi Pot, muoiono più di tre milioni e mezzo di persone. E tutto accade in una terra isolata, incredibilmente, dal resto del mondo, che ignora ciò che sta veramente accadendo in Cambogia. N atalia Ginzburg, quando legge il racconto di Peuw, resta incredula, chiede conferme, sente cadere sopra di sé un forte senso di colpa: «Nel corso della mia vita, non avevo mai pensato alla Cambogia né avevo letto mai niente che si riferisse a questa terra. In verità le terre a cui non ho mai pensato sono innumerevoli, ma riguardo alla Cambogia ho provato, nell'accorgermi di non saperne assolutamente nulla, un senso di colpa e un senso di dispiacere». Ha ragione la scrittrice: oggi, per evitare che simili vicende accadano indisturbate, occorre essere sempre più cittadini del mondo. È M. E. Lemaire, xilografo (1892) zione della Cambogia è assai intricata; «ci si chiede, scrive la scrittrice, perché, da motivazioni giuste, legittime, sacrosante - i Khmer rossi che nel 1975 entrarono vittoriosi a. Phnom Penh, erano per la massima parte contadini poveri, con secoli di sfruttamento, di persecuzioni e di miseria alle spalle - sia nata una così calcolata, agghiacciante determinazione ad assassinare la propria terra, a farne un cimitero ed un inferno». Di fronte allo sgomento per questa riflessione, la risposta: «Ma in verità è forse ingenuo credere che da motivazioni sacrosante debba nascere sempre un mondo migliore. A volte succede il contrario. Le motivazioni sacrosante possono a volte trasformarsi rapidamente in una determinazione a distruggere, calcolata e delirante, ispirata al razzismo e a tutto ciò che di più funesto esiste nell'uomo». gazione. Ma a coloro che si sentono imbavagliati dall'orrore, che dichiarano la loro impotenza a fronte di tanta violenza, Levi risponde prendendo la parola, scavando a fondo nelle ferite, indicando delle tracce attraverso le quali sia comunque possibile la risalita; una risalita che parta dall'interno dell'umano e del non umano che c'è in ciascuno di noi. Chi parla ha la ferita ancora aperta: «Lo ripeto non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione, o abilità, o fortuna non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto [... ] non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i 'musulmani', i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale». Da questa .posizione, che pervade tutto il libro (una raccolta di saggi che al tempo stesso divengono racconto dell'uomo e storia dell'Occidente) Primo Levi attraversa lucidamente molte questioni: la memoria qell'offesa, della quale si constata la possibile deformazione del ricordo («Questo stesso libro, dice Levi, è intriso di memoria: per di più di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso»); la zona grigia, che taglia la strada ad ogni possibile semplificazione, ad ogni eccesso di rassicurazione («so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale, o u_nvezzo estetico, o un sinistro segnale di complicità»); e dalla quale certo non deriva l'idea manicheista che esista un uomo buono contrapposto ad un uomo cattivo sempre pronto ad aggredire. «Il potere è come la droga: il bisogno dell'uno e dell'altra è ignoto a chi non li ha provati', ma dopo l'iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza.» Il mostro è anche dentro di noi, appartiene al nostro essere nel mondo, pare dire Kafka, nel suo racconto La metamorfosi. Non è necessario cercare all'esterno di noi stessi le responsabilità di quanto è accaduto nella storia dell'Occidente. «L'uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa», afferma ancora Levi parlando del caso Rumkowski, presidente decano di un ghetto, che si era messo al ·servizio delle S.S. «Non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche misura oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo.» Ma il libro di Primo Levi si interroga e ci interroga ancora: è possibile capire perché si sviluppa una macchina mostruosa di tortura che spinge l'uomo contro il simile? È possibile prevenirla? opporsi ad essa e distruggerla in modo tale che non si affacci più sulla terra? Qual è mai la logica del tradimento? Quali i rapporti che si sviluppano tra le vittime e i carnefici, tra gli oppressori e gli oppressi? L'Occidente è, in fondo, una civiltà della colpa? Oltre il lager, oltre l'analisi dettagliata e coraggiosa di questi campi di sterminio , sui quali Levi getta un'ulteriore luce di chiarezza, questo suo libro straordinario è anche un punto di riferimento critico ed etico che si batte contro coloro che oggi sono disposti a facili semplificazioni o falsificazioni o negazioni della realtà. Ma è anche un modo di costruire con il proprio corpo, oltre che con il pensiero e il linguaggio, una nuova memoria etica-critica, per far sì che la violenza, la strage, lo sterminio non siano più possibili. Non è retorica dire, allora, che I sommersi e i salvati sono una delle pietre fondamentali del nostro tempo, capaci di spingere l'uomo in direzione di una conquista della pace, di un'etica del rispetto della libertà dell'altro, della vita e della 00 giustizia, facendolo passare attra- c::s .s verso quello che Freud chiamava ~ il disagio della civiltà, il conflitto c::i... ('-._ interiore, la propria morte. ~ ........ Questo articolo era già in mac- .S? china quando ci è giunta la noti- gf zia della tragica morte di Primo E Levi. «Alfabeta» si unisce al vivo ::§( cordoglio per la scomparsa di t! questo nobile «testimone» e scrit- ~ tore. -Cl g c::s

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