sione «gli equilibri precedenti e si faccia sentire l'esigenza etica di qualcosa di radicalmente nuovo»; che il «punto di vista» sul tempo e sul mondo cambi prospettiva, facendo slittare così anche l'ordine del discorso. Lf epoca del moderno si apre con un soggetto spossessato della sua realtà di soggetto e questa alienazione, che sposta «altrove» il centro ottico, altera non solo il rapporto con la temporalità, ma anche il ritmo del pensiero e della scrittura. A questo punto, un altro libro viene a intrecciarsi e a dialogare sia con le parole di Prete che con quelle di Moses. È La via eccentrica di Ferruccio Masini, che analizza nella letteratura tedesca del Novecento la condizione di un soggetto impotente a dominare con la ragione sia il tempo che il suo stesso pensiero. L'io, non più al centro degli eventi, non più pernio intorno a cui ruotano le cose, non trova punto fermo e non è più in grado «di disporre, organizzare e articolare le sue argomentazioni, i suoi percorsi dimostrativi» (p. 124). Vivendo l'agonia della ragione come principio unico al mondo, la conoscenza ed il linguaggio cominciano a strutturarsi in modo nuovo: il pensiero si gonfia di umori e sensazioni e assume un ritmo incoerente, mentre la scrittura diventa sempre più consapevole del valore significante della parola. Sul piano narrativo, a questa diversione logica e conoscitiva corrisponde - in Kafka, in particolare - una tecnica che devia dalla strada maestra del racconto. In luogo di un Io che non può neppure dire «no», insorge una «voce neutra» che non parla più da uno spazio da cui si abbracciano gli eventi, ma da «un fuori», da un'esteriorità, da una distanza infinita che altro non è se non l'enigma del linguaggio. Non si tratta di una vera «terza persona» - osservava Blanchot - ma della «semplice maschera dell'impersonalità», o - aggiunge Masini nei bei saggi intitolati alla Decifrazione gnostica - di una forma «del divergere e dello sviare», che destituisce il soggetto della sua centralità fino ad annullarlo. Come il paradosso kafkiano, questa voce che - direbbe Zanzotto - «viene da estremamente lontano I ed è comunque una voce» (In un XXX anniversario) si rivela un'ambigua modalità «che riporta la scrittura di Kafka sotto la dominante di un rapporto indiretto attraverso il quale si afferra ciò che non è pertinente, che è insignificante, e perciò sviante» (p .. 129). Così, sul vuoto lasciato dalla cancellazione del soggetto si fonda una perenne eccentricità: «un'ipo- . tesi insostenibile, l'allusione a un centro inesistente, la parodia di una presenza che si dissolve nelle proiezioni di un fantasma ubiquitario, nell'accumulo delle minuzie in cui si sgretola l'argomentare e in cui si consuma l'autoironia di un soggetto defunto» (p. 130). Ma se questo slittamento di prospettiva fa segno a una distruzione, nondimeno apre a una diversa possibilità. La metafora del «mal di mare in terraferma» dice che la stabilità del pensiero che argomenta è stata corrosa, ma va letta assieme al motto «la distruzione edifica», che allude invece a una virtualità creativa. Il negativo s'inverte di segno, «proprio quando l'amore che si dona» e «il rigore del giudizio non sono più separati» (p. 132); proprio quando si attua il connubio tra una sorta di «incantesimo» e l'argomentare. Allora - dirà Kafka - nasce «un quid tertium: un incantesimo vivente o una distruzione del mondo che, invece di distruggere, edifica» (p. 117). La magia è che la distruzione stessa crea, trasfigurando ii negativo nel suo opposto, spezzando un equilibrio che ormai è una prigione: «Questo incantesimo infrange la logica della domanda, il suo autoseppellirsi nella colpa, e rompe la prigione di uno statuto univoco e razionale della comunicazione, l'ordine logico-discorsivo del significato» (p. 117). Di questa trasfigurazione che si produce al limite estremo e investe le forme della scrittura e lo stesso discorso narrativo, Masini coglie anche la valenza mistico-teologica, illuminando la prossimità di Kafka alla tradizione esoterica della Kabbala. Torniamo con un salto a Il demone del/'analogia. L'analisi di Prete, condotta sulle pagine teoriche di tre poeti, spesso incrocia insieme (e sono le pagine più belle) i testi di riflessione con quelli di poesia. Non a caso: perché l'intento è proprio di mostrare (non diversamente da Masini) come la forza del pensiero e la tensione poetica siano sempre strettamente unite fra loro. L'analogia, come tutte le figure allusive del linguaggio, dice il disperato tentativo di approssimarsi a un senso che sfugge. Non allude al gioco, ma anzi, «all'angoscia di una separazione. Separazione della lettera dal sen- . so, dell'immagine dal significato, del nome dalla cosa» (p. 152). Si capisce, a questo punto, perché la pulsione analogica, la via eccentrica, la percezione di un tempo e di una storia non improntati al continuum e alla necessità, s'incontrino nel cervello del lettore. Tl\lti e tre gli autori ci raccontano di una coupure con il modello razionale dominante. Sia pure in forme diverse: Prete, attraverso figure di pensiero che guardano a una logica non più soltanto del concetto; Masini, con lo sguardo rivolto a un cammino che devia rispetto al centro; Moses, riscoprendo un'ottica in cui il tempo storico non va verso un fine, ma si evolve in direzioni imprevedibili. E poiché al vertice della strada da loro disertata c'è Hegel con la sua idea che la storia obbedisca alla logica della ragione e che questa, a sua volta, segua un tragitto rettilineo lineare progressivo, non è arduo scoprire tra i testi rispondenze o affinità di pensieri. Intanto li accomuna il pathos con cui sono stati scritti o semplicemente detti: un pathos etico che si traduce in una forma critica inquieta e intelligente. Inoltre, se in apparenza la diversa geografia allontana il testo di Prete da quello di Masini, nella sostanza una stessa idea di base li avvicina: per entrambi il linguaggio è un'infinita . analogia o un infinito processo asintotico del senso. E mentre l'uno attesta questa perenne approssimazione con esempi dalla letteratura italiana e francese, l'altro la esplica con temi e figure tratte dalla letteratura tedesca. V eniamo alla scrittura. La via eccentrica ha un impianto decisamente saggistico, purché pensiamo al saggio nel senso dato da Montaigne: come assaggio, prova. Ciò che colpisce non è soltanto il rigore nell'analisi dei testi, ma anche la scrittura saggistica estrosa e articolata insieme, frutto di una curiosità intellettuale che spazia dalla filosofia àlla musica (si veda La danza e il vortice o Eros e ironia), dalla poesia al teatro (valga, ad ese~pio, Il mito moderno di Lulu). Il demone del- /' analogia invece ha una struttura più particolare e si divide in due parti. La prima, che attraversa la modernità seguendo la rotta dell'analogia, è in una forma narrativa e distesa: nondimeno, nasconde un'inquietudine e una stanchezza per come si è strutturata la critica testuale. Prete la pensa non come tecnica o scienza, ma come lettura, ascolto dell'opera poetica, approssimazione al testo ed esegesi che non si può mai concludere. Di qui una sorta di sfida ai metodi e agli statuti disciplinari: una sfida che non cela il desiderio di parlare in prima persona. Difatti, nella seconda parte del libro, abbandonata l'esegesi, l'autore riflette direttamente «in compagnia dei poeti» sul linguaggio poetico e approda a una scrittura creativa, elaborata per frammenti. Ora, come Il pensiero poetante a suo tempo ha messo in gioco, attraverso il dialogo di filosofia e poesia, i modi della critica leopardiana, così Il demone del/'analogia tenta di scombinare i confini della critica fino a scavalcarli. E se nel complesso si può dire che la scelta di una scrittura poetica non impedisce la serietà dell'analisi testuale (si guardi, ad esempio, Il pensiero dominante, che Prete non identifica tout-court con l'amore, ma con «il desiderio fatto pensiero», con «l'unità di desiderio e pensiero»), succede qualche volta che la voce critica creativa s'intrometta con troppa invadenza e sopravanzi il testo, finendo, a mio avviso, per togliere forza e chiarezza al discorso. A prescindere però dai rilievi specifici, sia l'opera di Prete che quella di Masini possiedono un'altra dote originale: sono aperte, feconde, e il lettore ci può girare in mezzo col pensiero. Capita, a chi le legge, un po' come al viaggiatore delle Città invisibili di Calvino: che anche i punti che teneva distinti nella mente, alla fine gli si mescolavano, sì da inferirne questo: «se l'esistenza in tutti i suoi momenti è tutta se stessa, la città di Zoe [il testo] è il luogo dell'esistenza indivisibile». Non è un caso che per entrambi la critica è ermeneutica: il critico (o il lettore) interpreta, trae fuori, disvela ed espone il senso dell'opera letteraria. E il rapporto con il testo, in sostanza, non è che l'incontro tra un universo di conoscenze, sentimenti, emozioni con un altro, differente, universo. Un incontro che può essere anche scontro: dunque, un dialogo per antonomasia. L'autore può sperare che il senso del suo dire arrivi al critico nella sua interezza? È proprio qui il rovello dell'interpretazione: un rovello che comporta un rischio, perché se la realtà della scrittura - affermiamo con Jabès - è d'essere una mise, allo stesso modo, la realtà dell'interpretazione è d'essere una scommessa. Prete e Masini corrono questo rischio, non si sottraggono a questa scommessa. Il critico che, nell'atto di lettura, mette in gioco il suo bagaglio conoscitivo e la sua passione, arrischia se stesso e si espone al pari dell'autore: .d'altro canto, il pathos o «il fuoco» - per dirla con Francis Ponge - «opera una classificazione», impone sempre una scelta. Allora, l'oggettività del testo? A districare il nodo chiamo in soccorso ancora Moses. Dopo aver illustrato una visione «eccentrica» della storia, forgiata dalla tradizione ebraica (e poi rivisitata con un'ottica secolarizzata); dopo averla letta come un processo in cui ogni istante «ha un suo peso, un suo colore, una sua qualità», aggiunge: nondimeno, questa storia «si presta all'interpretazione ed è suscettibile di una lettura significativa». Naturalmente, «il senso che sarà tratto da essa non sarà mai un senso oggettivo, come lo intende Hege1, ma si confonderà, si mescolerà, ogni volta, con l'interpretazione stessa». Forse, è questa l'oggettività con cui dobbiamo fare i conti. Un'oggettività di segno diverso (si pensi a Baudelaire o a Kafka), che ha attraversalp alle radici il negativo. E a chi lamenta «la rimozione della materialità» del testo letterario? Si può rispondere che la sua presenza è tanto forte da entrare nella mente, nel corpo, nell'immaginario, nelle vene. Da permeare di sé sia l'occhio di chi legge, che la mano di chi scrive... Laviolenzarivissuta Primo Levi I sommersi e i salvati Torino, Einaudi, 1986 pp. 167, lire 10.000 Il racconto di Peuw bambina cambogiana Torino, Einaudi, 1986 pp. 353, lire 14.000 I I La guerra nelle campagne '' era cominciata da molto tempo»; così, prende inizio il racconto di Peuw. Siamo nell'aprile del 1975, a Phnom Penh, "- capitale della Cambogia. c::s Peuw è una bambina di appena .s ~ dodici anni che già da qualche ~ tempo convive con la guerra. "- ~ «Quando andavamo a scuola, non ......,di rado le bombe passavano sopra e ·èo le nostre teste.» Della guerra la Cl.o c::s bimba percepisce lontanamente E due cose: la continua nomadanza ~ dei contadini dalla campagna alla ~ sua città (questo vagare di gente t! pericolosa senza casa e senza cibo l diventerà in seguito l'esodo di una ~ popolazione intera, quando anche lei con la sua famiglia ne sarà coinvolta e si trasformerà via via in agonia, abbandono, morte), che viene vissuta come qualcosa da cui stare alla larga. «I contadini affluivano in città: il quartiere dove noi stavamo, Tuoi Svay Prey, non lontano dallo stadio olimpico, si trovava sul loro passaggio. Perciò, da molto tempo, i miei genitori m'avevano proibito di andare a passeggiare in città da sola.» L'altro aspetto della guerra che Peuw coglie di passaggio è l'orrore della morte violenta: un giorno, in trasgressione agli ordini della famiglia, la bimba accetta di fare un'uscita in moto con sua zia Vathana. «Mi piaceva molto andarmene con lei alla ventura; i viali costeggiati di alberi ci davano l'illusione della campagna.» Ad un tratto «sentii sibilare bombe: un uomo in bicicletta ci oltrepassò, constatai con stupore che non aveva più la testa ma continuava a pedalare [... ]. C'erano persone stese sul marciapiede», probabilmente morte o martoriate dallo scoppio. Frediano Sessi Le due ragazze rientrano a casa sconvolte: «Vathana tornò da sua madre, io senza attirare l'attenzione scivolai nella casa dei miei genitori». All'inizio di questo racconto-diario a ritroso, per Peuw convivere con la guerra vuol dire ritrarsi nell'alveo domestico, nella sicurezza del nido familiare e non vedere; oppure, vedere e capire il meno possibile, come fanno, molto probabilmente i suoi familiari. In fondo chi patisce e soffre per quella guerra sono altri! La famiglia, suo padre è un funzionario del governo mentre lo zio è un lontano parente della casa reale, funziona come zona franca, luogo immune e sicuro; e la guerra, che da tempo percorre le campagne e la povera gente del suo stato, pare essere altro da lei. Così, questa prima pagina del racconto di Peuw lascia perplessi, soprattutto se messa a confronto con le successive. Sappiamo che il libro· è una ricostruzione degli avvenimenti, fatta a posteriori, favorita dagli attuali genitori pangm1 della ragazza, per ridare la parola a chi, in tanto calvario, s'era chiuso nella voragine del buio e del silenzio (in questo senso il libro ci pare assai diverso dal diario di Anna Frank cui viene paragonato, e non solo per la motivazione di partenza che spinge al racconto). Pur tuttavia, c'è da chiedersi quale valore attribuire a queste righe iniziali, quando esse paiono rimandare ad una soluzione troppo semplicistica del dramma posto in atto e memorizzato dal testo; quasi si dicesse: è la guerra dei Khmer rossi a rompere una tranquillità solida di gente laboriosa, senza colpe e senza responsabilità; e la guerra è un mostro che viene sulle ali di uomini spietati e cattivi assetati di sangue e di ingiustizia e pronti al massacro di un popolo. Forse, ha ragione Levi quando dice che «al di là della pietà e del- ! 'indignazione che suscitano», le ricostruzioni della verità sui lager o, come è il caso di Peuw, della tragedia di un intero popolo «vanno lette con occhio critico». Nel caso del racconto in questione, non si tratta di rifiutare una realtà storica, ma di capire. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo» sollecita Levi. Per questa semplice ragione realistica sarebbe importante capire. Allora, è forse sufficiente raccontare, perché tutto questo non accada di nuovo? Il contributo di Primo Levi in direzione di queste interrogazioni complesse, sembra essere cruciale, per elevare il livello della riflessione e coinvolgere ogni essere umano, di ogni età e ogni tempo, senza più alcuna possibilità di ritirarsi. Ma andiamo per gradi. C'è un passo nella Coscienza di Zeno, in cui Svevo descrive l'avvicinarsi graduale della morte cui è condannato inesorabilmente il padre del protagonista, mettendo in I scena un'idea altrettanto forte della vita. «Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte.» Tutto l'organismo malato del padre di Zeno è «dedicato alla respirazione»; aggiungia-
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