E perché non leggere Breton? Francesco Leonetti l. I puntigli. Io ritengo che i puntigli, le impuntature e i silenzi, non siano secondari nel dibattito intellettuale. Vale dunque la pena di capire o di cercare in essi, buttando via ogni aspetto personale e anche di mera irritazione. Leggo dunque Sergio Givone che scrive: «Fra un Van Gogh, magari neppure visto ma solo sentito raccontare da Heidegger, e un bel termosifone» passa pur sempre «una differenza». Su questo inciso, ho da dire che è meglio sentire Heidegger raccontare Van Gogh, magari in un bosco, leggendo; tuttavia è impossibile non averlo visto in qualche museo, oppure nelle molte riproduzioni di scarpe da contadini che sono nella stessa edizione italiana di Derrida, La verità in pittura. Ogni battuta in proposito è dunque virtuosistica. E tuttavia Derrida stesso si ripiglia da Meyer Schapiro, sulle stesse scarpe, per interpretare «l'ingenuità del riferimento monoreferenziale di Heidegger». Secondo Schapiro, infatti, «Heidegger sa benissimo che Van Gogh ha dipinto più di una volta scarpe come queste, ma non identifica il quadro che ha in mente, come se le differenti versioni fossero fra loro interscambiabili, in quanto presentano tutte la medesima verità». Il lungo saggio in forma di dialogo approfondisce con acume st~aordinario questa disattenzione specifica di Heidegger. (Né io me ne dico soddisfatto, in quanto dalla data del saggio, 1968, ad oggi emerge a mio giudizio un ulteriore interesse per il tema di Heidegger, il rapporto tra !'«uso» e !'«arte» - scarpe dell'uso e scarpe deU'opera d'arte - che è diverso da quello posto da Duchamp stesso, e potrebbe essere indagato.) Ma il nostro tema è dunque la disattenzione del filosofo verso le arti visive? Mi pare che sia piuttosto questo ... Non lo rimprovereremo come già ha fatto Schapiro: a Hegel, a Croce, a Lukacs, a Heidegger... Quando in uno scritto precedente per «Alfabeta» Stefano Zecchi ha visto certe opere recenti, ha invece precisato con lucidità di definizioni la situazione de1l'arte oggi, da1la fine del concettuale, difeso da Beuys o da Paolini, al neoespressionismo di Kiefer e Baselitz e a quello di Paladino. Oggi è addirittura cresciuta - ne11a prossimità della dominanza dei nuovi media - la necessità dell'occhio attento all'invenzione visiva con tutte le sue tensioni e i suoi limiti. 2. Il grande tema. Né indubbiamente c'è più un forte rilievo nella differenza tra l'arte maggiore (pittura e scultura) e le altre arti: il carte11one di Toulouse Lautrec, l'affisso della mostra con le date di essa, il cinema e il fotomontaggio, ecc. Esattamente come non c'era differenza di live11oforte ne11astoricità fra i maestri dei cassettoni nuziali, i miniaturisti dei codici, e le botteghe dei pittori ... E anzi a chi sfoglia l'opera collettiva guidata da Federico Zeri risulta con sorpresa che uno scritto compatto, relativo ad una grande personalità di artista, non c'è. Essa emerge più volte ne11eoperazioni sue e nei diversi contesti: sempre in immagini in bianco-nero, per culto di Baudelaire e Benjamin che pure questi orrori del colore non videro neanche, gli bastarono le fotografie ... Ora, tutto ciò non viene particolarmente dal disegno industriale, dove Givone con molta giustezza vede presente per lo più «la be11a mossa promozionale», con un suo e nostro «filo d'angoscia». Tutti sappiamo bene che il buon design, e il dibattito complessivo sul progetto, provengono dal tentativo della modernità di controbattere la produzione seriale. La perdita di autenticità che la produzione seriale induce, e che la critica materialistica non vulgata (a cominciare da Benjamin) evidenzia come parcellizzazione del lavoro a Iive11ode11e idee stesse, trova il proprio avversario nel tentativo, funzionalistico a tratti, e a tratti R. Cazes, disegnatore; firma illeggibile del litografo archetipico, della progettualità sia neU'urbanistica che nel disegno industriale. Ciò, come sappiamo, non riesce tuttavia a rovesciare la perdita. Anche in buoni prodotti resta un elemento ottimistico e stereotipo, apparentato a11e«controfinalità de1la ragione», che sono una scoperta di Adorno: la città del futuro è mostruosa, benché fondata su11arazionalità. E ciò investe oggi le arti e le lettere: nell'informatizzazione, dunque, e fino almeno a quando essa non trova altre coerenze, eresce la perdita che ha colpito la sedia impagliata deU'artigiano classico con la sua globalità impareggiabile. Si deve tenere conto ora che la mescolanza di operazioni di vario live11oartistico di cui si usa far storia, oggi, non proviene da una pura prepotenza di alcuni fattori, ma dal criterio storiografico stesso che. da11e «Annales» in poi riguarda tutti gli aspetti di una civiltà come fra loro connessi. E caratterizza tale civiltà come dotata di una sua propria e complessiva «mentalità»: che a noi sfugge, che ci occorre interpretare, a cui ci è possibile aggiungere, in cui dobbiamo scegliere, ecc. Mai il ritorno ai classici fu così difficile come oggi. 3. Un esempio. Ne11a nota situazione che ho qui indicata per accenni, a me pare che il grande tema dell'Estetica come disciplina (che ha nome strano e vecchio come altre) potrebbe essere, o sarebbe utile che fosse, fra altri: il nesso tra i filosofi, che elaborano concetti, e i teorici di movimento, che più strettamente «vedono» il lavoro letterario e artistico in corso. (E mi pare che taluni rilievi di Cacciari, già, e recentemente di Vattimo su certi film di «utopia post-apocalittica», operino in questo senso.) Sto leggendo a scuola la discordanza feroce tra Freud e Breton, sempre da loro ovattata. Nell'ampia ricostruzione della Bandini' trovo che il termine bretoniano di «automatismo psichico», pur essendo apparentato a11«' automatismo psicologico» di Pierre Janet, non ne deriva semplicemente. La Bandini si rimette a un saggio di Starobinski che segnala un riferimento a Myers. Se riprendo in mano l'ecceUente s~ggio di Gombrich Freud e l'arte2 mi pare che egli sia convincente nel sostenere, sulla scorta di Kris, che le avanguardie di prima della guerra hanno assolutamente voluto ignorare la stretta separazione fra l'inconscio e le altre istanze (e hanno dunque mantenuto nell'espressionismo l'influsso di Nietzsche e quindi forse quello di Jung e di altri). Io ritengo che la circolazione continua fra i campi della cultura, e particolarmente fra il discorso teoriéo e le operazioni dei movimenti d'arte (dove agiscono i Breton come i Motherwell o i Rosenberg) e quelli stessi di letteratura, sia sempre una grossa posta. In una recente prefazione di Segre allo Schapiro3 leggo che gli proviene dalla scuola iconologica il sentimento di una parziale traducibilità fra i linguaggi verbali e visivi: e perciò a11oSchapiro l'opera d'arte appare «implicata in una rete di riferimenti, tesa fra le leggi de1la visibilità (mode11i introiettati ne11apsicologia del vedere) e le proposte del contesto culturale» filtrate dall'individuo storico che è l'artista. M'importa semplicemente ciò. E un giovane artista deve essere capace di stabilire un suo statement (mentre è strano che a uno scrittore non sia richiesto). E mi pare che presso Dorfles il punto di non equilibrio, disarmonia e originale equilibrio, in tema di estetica e arte generalmente inteso, abbia un'incalcolabile virtù continua di approssimazione: permettendo di effettuare il proprio statement a chi mira a raccogliere dai due versanti, la ricerca specifica e la ricerca teorica. Note (1) M. Bandini, La vertigine del moderno. Percorsi surrealisti, Roma, Officina, 1986. (2) E.H. Gombrich, Freud e la psicologia dell'arte, Torino, Einaudi, 1967 (il saggio è del 1966, in «Encounter»). (3) M. Schapiro, L'arte moderna, Torino, Einaudi, 1986, pref. di Cesare Segre, trad. di Renato Pedio. Analogia,'-'iJcontinuità Antonio Prete II demone dell'analogia Da Leopardi a Valéry: studi di poetica Milano, Feltrinelli, 1986 pp. 199, lire 20.000 Ferruccio Masini La via eccentrica Figure e miti deU'anima tedesca da Kleist a Kafka Casale Monferrato, Marietti, 1986 pp. 169, lire 21.000 Stéphane Moses Abitare il tempo «Alfabeta», n. 92, gennaio 1987 Q uando pensiamo al «moderno» e al sentimento della crisi, del trapasso di civiltà che l'accompagna, la nostra mente corre a Leopardi, e la sua lucida consapevolezza de11a disarmonia fra il poetico e l'universo contemporaneo non finisce di sorprenderci. Dopo Il pensiero poetante, Antonio Prete torna a interrogare ,i poeti del «tempo de11apovertà» e non può che ripartire da chi, nello Zibaldone, già annotava come alla «poesia moderna» fosse più appropriata la prosa. Nel nuovo libro, Il demone dell'analogia, accanto a Leopardi si trovano Baudelaire - che più di ogni altro ha mostrato il prezzo che la poesia pagò alla modernità - e Valéry che, meditando sul pronome Io, ne accertò la natura solo linguistica e teatrale. Il titolo, ripreso dal poemetto in prosa Le démon de /'analogie di Ma11armé, a11udea11a pulsione a procedere per somiglianze e similitudini e a scoprire i rapporti tra le cose, «anche i menomi, e più lontani - come ben sapeva Leopardi - anche de11ecose che paiono le meno analoghe [... ]» (Zibaldone, 7 settembre 1821). E questa rete di relazioni, improntate ai sensi più che all'intelletto, invita a scavalcare il muro della coscienza, a scomporre la scacchiera della ragione, a rompere - direbbe Mario Luzi - ~<lageometria del pensiero». Il demone dell'analogia attraversa non solo l'esperienza teorica, ma anche la lingua poetica fra Otto e Novecento. Per Leopardi, la stessa traduzione da una lingua all'altra era una pratica analogica: dietro la resa linguistica - commenta Prete - al traduttore «occorre garantire un'analogia d'impressione» (p. 58). Potremmo aggiungere: tradurre non è che costruire un mode11o artificiale che si avvicini il più possibile al senso depositato neU'originale. Nelle dense pagine di Mimesis e poiesis la traduzione de1la poesia si profila infatti come un processo interpretativo, che si fonda sull'ascolto del testo ed è regolato da un meccanismo di cancellazionè e restituzione, in virtù del quale il nuovo testo esiste, paradossalmente, proprio perché il primo è stato cancellato: «Che cosa altro se non una trasformazione dell'ascolto in un'ermeneutica del testo permette al traduttore di cogliere il rapporto tra lo stile dell'autore e il carattere de1la lingua cui egli appartiene, e permette di restituire per analogie - di senso e di convenzione linguistica, di invenzione e di effetto sonoro - quel che de11aprima lingua egli va cance11ando?»(p. 59). Baudelaire dà il nome di analogia al gioco di rispondenze («correspondances») tra le cose e i sensi o a11e relazioni inesauribili che corrono tra i diversi linguaggi. E questa trama che il poeta coglie e di cui sono intessuti il mondo e la lingua, rinvia a un'unità oscura e profooda che è come l'eco dell'origine. Un'unità che la ragione soggettiva non riuscirà più a cogliere, né fuori né dentro l'uomo. Difatti Valéry, sentendo la coscienza come un limite, ma non potendola sopprimere, cercò di congiungerla al corpo, a11asensibilità, a que11a voce che dice «l'oscura sostanza che noi siamo senza saperlo». E non appena scoprì il carattere costitutivamente scisso del soggetto, fu costretto a inventare il Moi «pour lui attribuer l'origine de tous ces changements mervei11eusement correspondants». L'analogia, che qui diventa figura emblematica de11apoesia moderna, illumina un salto, un passaggio: da un ordine logico, spaziale e temporale, fondato su11asignoria di una ragione armoniosa, a un ordine (a uno spazio e a un tempo) che privilegia i sensi e procede per traslati del pensiero; da un soggetto responsabile deU'accadere, a un soggetto - per dirla con Nietzsche - ridotto a favola, a finzione, a gioco di parole. Nel rintracciare i segni e «le forme» di una società che non ha più bisogno di poeti, Prete riflette su un nodo teorico della critica benjaminiana: congiungere il linguaggio poetico e il linguaggio delle merci e capire come la lingua della poesia condensi in grumi e traduca in figure il pensiero e, insieme, l'esperienza del tempo. (D'altro canto, quale linea potrebbe mai separare le forme dal sociale, il dentro dal fuori?) Ma meditando sulle a11egorie del moderno, s'accorge anche (e il lettore con lui) ch'esse s'attengono a una scansione temporale che non è più que11ade11astoria progressiva. Basti pensare al tempo pietrificato nel ricordo di Baudelaire: quel tempo che porta in sé il marchio de11a reificazione e che Benjamin acutamente lesse come reliquia, «esperienza crista11izzata in immagine e in frammento» (p. 92). O ancora, puntando al cuore del moderno, al suo carattere «più proprio e più omologante - l'immenso arsenale di merci» - come forma ottocentesca con la quale «i\ passato appare un morto possesso»; come «lo schema della trasformazione de11amerce in oggetto di co11ezione»(p. 93). Quanto al rapporto con un tempo sottratto alla pura cronologia o alla «tempesta» del progresso, mi vengono a11amente le parole di Stéphane Moses al recente convegno fiorentino Physis-Abitare la terra: «Il tempo cambia con il luogo da cui è percepito». Moses ci presenta una visione de11astoria diversa dal mode11o dominante neU'Europa moderna e ci parla di «un nuovo modo di percepire la successione degli avvenimenti, la realtà stessa degli avvenimenti». Il luogo di un diverso percepire che, nel suo discorso, sembra a tratti identificarsi con l'ebraismo, forse va inteso in senso più generale: come punto d'osservazione che il soggetto sceglie consapevolmente (e a cui , portato dai fatti, approda) a partire da una crisi. Non a caso, la caduta deU'idea classica della storia del progresso esplode, nel pensiero di Rosenzweig, Benjamin, Sholem, in tre momenti 'O particolari. Per Rosenzweig, quel ~ .s «luogo» coincide con la guerra del ~ 1914-1918; per Benjamin, con il t::I. crollo marxista delle speranze ri- ~ voluzionarie nel 1939-1940; per ....., Sholem, è il confronto - neU'esilio -9 in Palestina del 1923 - «con la ~ realtà tragica e contraddittoria E: della storia degli ebrei nel XX se- ~ colo». i:: Dunque, nei momenti di crisi ~ del processo storico e del soggetto l avviene che si pongano in discus- ~
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