Alfabeta - anno IX - n. 96 - maggio 1987

l'urgenza dell'occorrenza viene sacrificata alla trascendenza. La buona coscienza sacrifica l'attualità - le richieste diverse e spesso contraddittorie che il presente pone incessantemente all'agire - alla desiderabilità e alla potenzialità. Da qui il carattere irrealistico, per nulla paradossale, delle filosofie pratiche, che vogliono intervenire con un sistema di prescrizioni, elaborato nello spazio separato del pensiero, nella concretezza contingente del presente. Elaborando un'idea di Simmel, di cui si mostra un allievo indiretto, Jankélévitch parlà dell'unica etica possibile come «legge individuale», una pretesa di assoluto che può incarnarsi solo nella particolarità della scelta presente. Ma forse l'equivoco più importante che qui viene smontato è l'idea che l'agire pratico, fare il bene degli altri e con gli altri, sia deducibile dalla buona coscienza, in breve da quel soggetto trasparente e illuminato che dall'epoca di Descartes pesa sulla nostra tradizione filosofica. Se all'inizio della traiettoria morale poniamo l'io-penso come istanza costitutiva del soggetto, trasformeremo delle regole intellettualistiche in regole pratiche. La trasparenza che il soggetto cartesiano pretende dal mondo si trasformerà in un'analoga pretesa nei confronti di se stesso (in fondo io esisto perché penso) invaderà il mondo come luce della ragione comunicativa. Non è possibile che ciò che io penso come giusto non si possa estendere agli altri ... E in questo modo la ragione diventerà la patetica sovrana di questo mondo, sempre ostacolata da sudditi riottosi o ribelli. Ma se invece l'atto morale viene individuato, come fa Jankélévitch, in atto istantaneo che risolve un conflitto, il soggetto è molto meno sicuro della sua giustizia. Il giudizio non è un atto di inaugurazione, assoluto come tutti gli editti, ma il risultato di una deliberazione interiore, possibile soltanto perché il soggetto accetta la sua cattiva coscienza e la combatte. L'atto morale che risulta da un travaglio, per quanto espresso in una scelta immediata, è infinitamente meno rassicurante della pretesa di applicare una volontà interiore e fondata. Il giudizio che sale da un processo contraddittorio e opaco pretende difficilmente l'obbedienza, non è per definizione totalitario. D estituzione della trasparenza del soggetto, de-intellettualizzazione della morale, pluralizzazione dei valori. In queste tre formule può essere sintetizzato un discorso sull'etica che in sé non pretende di essere normativo: «Ahimè! I valori non compongono tutti insieme né un'armoniosa architettura, né una repubblica intellegibile; i valori non formano una piramide il cui valore supremo coprirebbe e sussumerebbe i valori subordinati come il genere ingloba le specie e in modo tale che in quello si potrebbero leggere questi per trasparenza». 4 Ma destituire l'agire pratico da ogni riferimento al sistema, colpire al cuore la pretesa che l'etica possa intervenire nel mondo con il suo procedimento deduttivo, non significa predicare qualche forma di immoralismo. Significa spostare l'accento del discorso pratico dalla sfera delle norme a quella del giudizio, nel senso della Critica del giudizio di Kant (e del dibattito ripreso recentemente da Hannah Arendt oppure da Lyotard). Non si tratta di uno spostamento di poco conto. Ogni etica normativa, in filosofia come nelle scienze umane, traspone più o meno legittimamente un principio speculativo in un codice di comportamento. Non è indifferente che i due termini con cui indichiamo la regolazione dell'agire pratico, etica e morale, siano derivati da due parole, una greca e una latina (mores e ethos) che si riferivano a costumi acquisiti. Etica o morale sono eterni tentativi di fissare delle leggi che dovrebbero già esistere - ma che implicitamente e malinconicamente si riconoscono defunte o contraddittorie. Il pensiero speculativo agisce, quando pretende di trasporsi in un'etica, come surrogato di una giustizia che non c'è. Il pensiero si sostituisce ai costumi tramandati, pretendendo di fondarne dei nuovi. Ma questi costumi, come appare nelle etiche contemporanee razionali e comunicative, sono appunto meramente teorici, quando non sono surrogati di attributi di attività umane particolari o limitate, come l'utilità o l'interesse. I sistemi etici non possono che generalizzare o funzioni separate del pensiero o funzioni limitate dell'azione. Il passaggio al giudizio non generalizza regole già costituite nel travaglio empirico dell'esistenza, ma chiama questo travaglio alle sue responsabilità. Il giudizio non può essere per definizione una facoltà isolata o separata, né una facoltà parziale, ma si esercita sempre, di fronte a ogni occorrenza, e soprattutto si esercita con gli altri. Per quanto scaturito da deliberazioni interiori, il giudizio comporta scelte immediatamente comunicate, diviene immediatamente pubblico. Esso non solo risponde a un appello incessante, che è quello della particolarità concreta, ma si protende in un appello al giudizio degli altri. L'universalità del giudizio, diversamente dall'universalità delle ragioni pratiche, non è un presupposto trascendentale ma una conquista: la v~rità del dialogo e della comunicazione non sta all'inizio dell'agire pratico ma nella sua incerta conclusione. Infatti la fugace libertà del giudizio non si ancora a norme pre-costituite, a un'etica normativa, ma consiste nella Verantwortung, nella disponibilità all'ascolto e nella capacità di rispondere,5 cioè in quello che Kant chiamava lo «spettacolo» della vita. Note (1) Dominate infatti dal tentativo di ricostituire un soggetto nello spazio incerto ma positivo della relazionalità. Cfr. M. Foucault, L'uso dei piaceri, Milano, Feltrinelli, 1984 e La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 1985. (2) V. Jankélévitch, Trattato della virtù, Milano, Garzanti, 1987. (3) lvi, pp. 79-80. (4) lvi, p. 219. (5) H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik fur die technologische Zivilisation, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1984. Polemicsaull'estetica Prosegue il dibattito sull'estetica iniziato con la lettera di Stefano Zecchi («Alfabeta» n. 90, novembre 1986) e che ha ospitato interventi di Dorfles, Anceschi, Leonetti sul n. 92 (gennaio 1987) e di Givone e Rella sul n. 94 (marzo 1987). Seguiranno altri contributi. Lo spettro dell'idealismo Gabriele Scaramuzza A proposito del dibattito seguito alla conversazione tra Anceschi, Colonetti, Dorfles, Sassi, e a un intervento di Zecchi: dà un senso di sollievo che, magari provocatoriamente, questioni di valore tornino sul tappeto. Troppo a lungo è rimasto chiuso negli armadi della nostra cultura (non vi è ancora scomparso, vedo) lo spettro dell'idealismo. E idealismo, in estetica, ha voluto tra l'altro dire ancoraggio della realtà artistica ai suoi esiti più nobili (nelle arti belle della tradizione, nelle arti maggiori); o comunque una sorta di aristocrazia estetica che rinchiudeva l'arte - e gli studi sull'arte - nella serra delle grandi opere, isolandola nei suoi momenti di più alto, autonomo valore. Il problema della descrizione di un certo campo veniva schiacciato sul problema della determinazione di ciò che in esso è valido: per dirla con Utitz, la questione dell'essere dell'arte veniva tout-court identificata con quella del valore artistico. E la conseguenza era che risultava compromessa la possibilità di capire vasti ambiti di fenomeni, e mutilata la sensibilità per i valori potenzialmente in essi racchiusi. Comprensibile quindi che l'insofferenza verso certi schemi «idealistici» si fosse fatta grande. Tanto grande da passare qualche volta il segno, da rischiare di buttar via il bambino con l'acqua sporca: il terrore di ricadere nei vecchi vizi ha favorito inaccettabili livellamenti, sorretti magari da non sempre comprensibili nostalgie scientiste. Si sono prodotti ostracismi perniciosi: i valori si sono ridotti a presupposti di cui tacere, o sono stati rimossi con fastidio - o, semplicemente, sono passati di moda nei discorsi degli addetti ai lavori. Quando non sono stati fatti segno di un disprezzo degno di miglior causa: altro era sempre ciò che «davvero importa». Giuliano Briganti ha una volta, ricordo, su «Repubblica», efficacemente stigmatizzato questa sorta di mortificazione della sensibilità (quando esisteva, quest'ultima) per i dati qualitativi dell'esperienza artistica, esibita da taluni cultori, a vario titolo, di arte. Da molto tuttavia alcuni miti sono stati sfatati (e lascio in sospeso se non sia tuttavia il caso di riesaminare qualche ragione che stava alle loro origini; neppure l'idealismo era tutto lì). Già qualche decennio fa, con Banfi, la democrazia estetica aveva fatto una sua prima comparsa in cattedra anche da noi. Banfi parlava di un'artisticità diffusa, irriducibile ai sublimi esiti della grande arte; e difendeva tra l'altro i diritti dell'arredamento e della grafica, delle cosiddette arti minori, citava il disegno industriale come un rilevante aspetto di tale artisticità. E per chi si fosse formato a non patrie consuetudini di pensiero già il discorso non era nuovo. Da tempo è noto-quanto meno da Dessoir, se non altro da Mukafovsky - che è legittimo, in qualche contesto sicuramente proficuo, teorizzare delle realtà artis_tiche senza fare riferimento ai valori in esse coinvolti. Lo sapevano Riegl e i formalisti russi, lo sapeva bene Ingarden; dopo di loro l'hanno saputo tutti (o quasi). Ci siamo assuefatti a considerare il mondo artistico come un mondo dotato di specifici tratti caratterizzanti - minimi denominatori comuni a tutti i suoi oggetti, Faust o Misteri di Parigi che fossero - rispetto ai quali certe precostituite differenze di valore risultano irrilevanti. Tutto questo ha dato buoni frutti, ha aperto nuovi orizzonti all'esperienza estetico-artistica; indietro non si può tornare. Anche tuttavia si sapeva (si sarebbe sempre dovuto tener presente) che una circostanziata messa tra parentesi della questione dei valori non implica alcuna loro irrimediabile scomparsa. Che si poteva, si doveva comunque riflettere anche su quella ineludibile dimensione della nostra esperienza artistica (e non) che sono i valori - Ingarden l'ha fatto, Mukafovsky anche. Senza confonder di nuovo le carte, certo, senza assolutismi, senza improbabili gerarchizzazioni (del tipo, appunto, un mobile riuscito vale sempre e comunque artisticamente meno di un Picasso). Le differenze di valore esistono, la sensibilità per esse dovrebbe far parte del normale bagaglio di chiunque abbia a che fare col mondo artistico. Non si vede perché il prenderle in considerazione debba necessariamente reintrodurre i fin troppo deprecati scempi dell'estetica von oben. Spostare l'attenzione da ciò che accomuna gli eventi entro un certo ambito a ciò che li diversifica (non solo descrittivamente, ma anche quanto al valore) non risponde a un impulso di cui vergognarsi; la passione per le differenze può non essere meno intensa di quella per ciò che unifica. Ancora, scorgere positive possibilità di valori estetici o artistici anche su terreni inusitati, lontani da quelli dell'Arte con la maiuscola, non implica affatto che non pregiudiziali dislivelli di valori vadano aboliti. E infine, chiedersi cosa possa diversificare Das Lied von der Erde da una buona poltrona non implica alcun disprezzo per le poltrone. Non si vede perché debba implicarlo, in nome di quale strano estremismo culturale, per cui tra il silenzio sui valori e un loro uso dogmatico, tra assoluto valore e assoluto disvalore non si darebbe alternativa. E d'altronde l'oscillante relatività dei valori tipica del nostro mondo non esime comunque dalla scelta e non può abolire le preferenze; non è il caso di serbar rancore alle poltrone se difficilmente esse procurano le intense emozioni dei Trakl-Lieder. Ma sono in gioco qui differenze che vanno comunque ben tenute presenti. Goethe invece che Newton Giuseppe Conte Cara redazione di «Alfabeta», sono venuto a conoscenza della polemica suscitata dalla lettera di Stefano Zecchi a proposito della funzione dell'estetica; e vorrei dire anch'io una cosa o due, molto semplicemente. Prima di tutto, credo che per decidere se Zecchi ama o no l'arte, sia opportuno vedere come ne parla nei suoi libri, visto che ne ha scritti, e parecchi, per di più. Ora, in La magia dei saggi (Milano, 1984), incentrando il proprio discorso su Blake (la visionarietà rivoluzionaria), su Goethe (l'organicità della natura) e su D.H. Lawrence (l'utopia dell'eros), Stefano Zecchi ha fatto ciò che nessun filosofo fa più: ha innestato il suo pensiero, che è di matrice fenomenologica e blochiana, sul tronco della ricerca artistico-letteraria, ed ha incontrato il movimento vivente della poesia nel tentativo di rileggere oggi le fonti del Romanticismo, le forme del mito, il linguaggio dei simboli e della bellezza. Una posizione così è certo più comodo ignorarla o distorcerla che prenderla in seria considerazione. E invece occorre proprio vedere quanto di serio, di terribilmente serio, c'è sotto la contrapposizione, allegorizzante e mondana, tra un Van Gogh e un termosifone. Almeno, io ci vedo la contrapposizione tra due diverse generali idee estetiche: la prima che fa nascere l'opera d'arte da una necessaria energia mitico-spirituale, la seconda che tenta di ridurla a un manufatto, a un oggetto semiotizzabile senza nessuno spessore di mistero, sottratto a ogni rapporto con il Cosmo e il Fato: non c'è dubbio che un termosifone incarni in maniera araldica questi requisiti, per quanto possa tener caldo, e dunque restarci prezioso e caro. Sono proprio due visioni del mondo, due mentalità, due scelte: non c'era una volta chi trovando aulica la parola «poeta» voleva sostituirla con «operatore poetico»? Idee che hanno fatto strada, non nella cultura, ma presso gli Assessorati alla Nettezza urbana, che si avvalgono ora di «operatori ecologici». E invece che cosa di più nobile ed eroico del termine «poeta» come lo usa Shelley nella sua somma Difesa della Poesia? Da tempo lavoro perché un'idea mitica della letteratura ritorni; e le discussioni con Stefano Zecchi hanno spesso alimentato il mio lavoro, trovando dei punti di convergenza che forse quando eravamo studenti alla Statale e abitavamo tutti e due al Collegio di Sesto San Giovanni non avremmo immaginato: Lawrence, Goethe, il Romanticismo ... Ho lavorato per riportare dentro il corpo della letteratura le figure della Natura, delle Divinità e del Destino (L'Oceano e il Ragazzo, Milano, 1983, Equinozio d'autunno, Milano, 1987). Molti, con un facile atteggiamento liquidatorio non hanno voluto vedere che dietro ognuna di quelle figure c'era un'idea, una cultura, una proposta: Goethe· invece che Newton, Hillman e Vernant invece di Freud e Lévi-Strauss, Marsilio Ficino invece degli aristotelici, Lawrence invece di Joyce, Spengler invece di Marx. Ero tacciato di dannunzianesimo, tra le righe di hitlerismo; come nel '::!- caso di Zecchi, è più facile proce- c:::s .:; dere così che interrogarsi su ciò ~ che muta. Ma ora vedo che queste c:i.. I'-.. figure cominciano a essere sac- ~ cheggiate dai più insospettabili: ....., non sono più kitsch? ·a Certo, tutto appare degradazio- ~ ne a chi è degradato, tutto appare E volgarità a chi è intimamente voi- ~ gare, e tutto appare impossibile a I:! chi è impotente. Non credo che ~ Dorfles - di cui sono stato allievo ~ ~ anch'io- immaginasse l'uso censo- ~

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