Alfabeta - anno IX - n. 96 - maggio 1987

D a Nemico di classe (1982) dell'inglese Nigel Williams, all'Isola (1984) del sudafricano Athol Fugard, senza dimenticare il memorabile Lago (1985), Elio De Capitani, attore, regista, e, di recente, drammaturgo, appartenente alla compagnia milanese del Teatro dell'Elfo, ha cercato linguaggi teatrali nuovi per creare il suo stile particolare di performance da lui definito «musica da camera». Finora in tutti i suoi spettacoli ha sempre prestato particolare attenzione alla parola drammaturgica nel tentativo coraggioso, che lo accomuna ad altri giovani registi italiani, di forgiare vie nuove per liberare il teatro contemporaneo dalla sclerosi generale che lo paralizza. Impresa non facile se si pensa che il teatro italiano non ha beneficiato - a differenza di quello inglese - di una rivoluzione nella forma e nel linguaggio. Mi riferisco al clamoroso avvenimento del 1956 quando Ricorda con rabbia, la commedia del giovane «arrabbiato» John Osborne, fece scalpore sulle scene del Royal Court Theatre di Londra. Per la prima volta nella storia del teatro inglese, si vedeva un protagonista della classe subalterna che pretendeva d'essere preso sul serio. In passato persino i drammaturghi più radicali come John Galsworthy e Bernard Shaw avevano sempre dipinto i loro personaggi di umile provenienza con tratti comici. Il tragicomico protagonista osborniano Jimmy Porter si esprime nella lingua propria della sua classe sociale, volendo suscitare nel pubblico una vasta gamma di reazioni e emozioni. Tentativo audace che trova subito largo seguito tra i numerosi drammaturghi di sinistra: quelli di John Arden, Arnold Wesker e Edward Bond, sono solo i nomi più famosi. Avviciniamoci ora al Servo, tratto dall'opera dell'inglese Robin Maugham, di recente messo in scena presso il Teatro dell'Elfo in una regia dello stesso Elio De Capitani. Ci troviamo ancora una volta davanti ad una ricerca linguistica approfondita, poiché la commedia di Maugham costituisce una sfida particolarmente difficile ai fini di un adattamento-rielaborazione. Robin Maugham, rampollo della classe privilegiata britannica e nipote del più famoso Somerset Maugham, scrive il romanzo The Servant nell'immediato dopoguerra, e precisamente nel 1948. L'opera tratta in modo esplicito il rapporto omosessuale fra un servo e il suo padrone, incentrandosi sulla lotta violenta del primo per impossessarsi, attraverso un gioco mefistofelico, del secondo. All'epoca creò un enorme scandalo. Più di ogni altro furono i Maugham a rimanere inorriditi davanti a questa storia largamente autobiografica narrata da colui che era ormai di- <::S ventato la pecora nera della fami- .5 ~ glia. Dal punto di vista linguistico c::i.. il racconto presenta delle particoi-.... ~ Iarità molto interessanti. La trama ..... .si gg <::S E viene narrata e filtrata attraverso lo sguardo onnisciente del capitano Richard Merton, amico intimo e ex-amante del protagonista-padrone, Tony. Ed è proprio lo sguardo di Richard, viziato dalla ~ sua provenienza alto-borghese e -e ~ dai pregiudizi ad essa connessi, ad .... o::s impedire al servo Barrett di espriTheServant mersi direttamente. Barrett, infatti, viene espropriato dell'autenticità del suo linguaggio e la sua figura finisce per esserne svilita. L'identikit del servo deriva dalle varie opinioni degli altri personaggi provenienti da strati sociali diversi, che a prima vista sembrano essere imparziali, ma che immancabilmente subiscono il filtro-Richard. Ad adoperare le parole di Richard, Barrett non è altro che «un pesce dalle labbra dipinte», dalla voce effeminata, che si muove come una vipera. Sally, la donna di Tony, la cui descrizione viene naturalmente filtrata da Richard, considera Barrett il suo rivale, fisicamente ripugnante per giunta. La signora Toms (la governante di Richard, appartenente alla stessa classe sociale di Barrett) sostiene che il servo avrebbe potuto farsi prete, essendo di indole religiosa. D'altro canto Vera (la giovane ragazza di Barrett) rivela una altra dimensione ancora della personalità complessa del servo in quanto individuo calcolatore e privo di scrupoli che l'ha sedotta in giovane età. Ci troviamo davanti ad una serie di impenetrabili vignette che sorgono da punti di vista equivoci rendendo ambigua la figura di Barrett. Inoltre questa tecnica narrativa impedisce ai due protagonisti di scontrarsi direttamente poiché il voyeur intermediario della classe alta interviene senza tregua, separando non solo il servo dal suo padrone ma anche - e a danno dell'autenticità del racconto - il lettore dai due protagonisti. D ieci anni dopo, nel 1958, Maugham decise di trarne una commedia. Tuttavia, nonostante la sua creazione abbia visto la luce due anni dopo la rivoluzione osborniana, i dialoghi non danno prova di quella coscienza socio-politica che era invece necessaria per liberare The Servant dalla camicia di forza linguistica in cui il romanzo è imprigionato. Come mi ha fatto osservare De Capitani, «in Maugham si ha una versione parodistica del linguaggio parlato, filtrata attraverso una situazione teatrale molto pesante; la pièce è ruolizzata teatralmente, non socialmente». Anche se il contesto teatrale dà la possibilità di esprimersi direttamente a Barrett, questi viene ugualmente giudicato negativamente dagli altri protagonisti, tutti di livello sociale superiore. Le loro costrizioni obbligano Barrett a nascondere il proprio modo di comportarsi e di esprimersi, tipico della sua classe di origine. Solo i documenti di questi rivelano al padrone la reale provenienza del servo. Persino quando Barrett si trova in compagnia della nipote/amante Vera, i due si scambiano battute perfettamente compiute e quasi totalménte prive di connotazioni regionali e sociali, a testimonianza della sostanziale incapacità dell'aristocratico Maugham di riprodurre in modo autentico il linguaggio della classe subalterna. Nel 1963 il drammaturgo Harold Pinter rimase affascinato dal romanzo di Maugham e ne trasse una brillante sceneggiatura per un film di Joseph Losey in cui il ruolo del servo venne affidato a Dick Bogarde. La sensibilità linguistica di Pinter lo porta ad abolire immediatamente il filtro Richard. L'ocMaggie Rose chio più obbiettivo della cinepresa fornisce una rappresentazione diretta di quelle immagini e rapporti oscuri già presenti nel romanzo. Inoltre il mezzo cinematografico conduce anche alla eliminazione delle prolisse_spiegazioni e giustificazioni che caratterizzano la forma letteraria. Nel testo pinteriano, Tony e Barrett si esprimono entrambi nel linguaggio della propria classe d'origine, liberi di scontrarsi violentemente nella lotta per il dominio. Giugno 1987 Numero 46 Anno 5 Lire 5.000 Maugham. Tutto ciò mette in luce una lotta di classe di tipo hegeliano che va al di là di uno scontro fra individui. Non appena il padrone viene sconfitto, lo spazio della stanza subisce un decadimento, ma anche il servo torna ad usare il linguaggio della sua classe, non avendo più bisogno di fingere. Tony cerca persino di essere accomodante imitando talvolta il linguaggio del servo, specchio linguistico che dimostra che i due ora si trovano sullo stesso piano, in un 46 Scienza Esperienza SPECIALE AIDS L'EPIDEMIA E L'INFORMAZIONE La malattia e l'analisi dei media DOSSIER 8 - COME E DOVE SI FA RICERCA IN ITALIA L'AGRICOLTURA La sfida sul campo di Giuliano Nencini INTERVISTA a Boris Paton dell'Accademia delle Scienze dell'URSS «LA SCIENZA DOPO CERNOBYL» Da un lato troviamo il padrone Tony e la sua donna Susan che si esprimono con l'eleganza articolata della propria classe. Pinter privilegia questo linguaggio, inventando ex novo una scena presso la famiglia aristocratica dei Mountsets con cui Tony e la fidanzata trascorrono un fine settimana. Assistiamo a battute che collocano i protagonisti fra i ceti più elevati della società anglosassone; allorché si trova in compagnia di Tony e Sally, Barrett si appropria del loro linguaggio, mascherando le proprie origini e impadronendosi gradualmente del territorio avversario. Il suo gioco, comunque, non inganna Susan che ironizza, ad esempio, sul suo modo di servire a tavola sfoggiando eleganti guanti bianchi da lui stesso dichiarati italiani. D'altro lato, assistiamo agli scarni dialoghi tra Barrett e Vera, Focosi, litografo, presso Corbetta, Milano di chiara impronta pinteriana: pause frequenti, espressioni regionali, fortemente caratterizzate dal punto di vista geografico e sociale. La rapida giustapposizione di linguaggi differenti arricchisce di tonalità complesse ed enigmatiche la personalità del servo che appare assai più diabolico del servo di rapporto paritario che li farà cadere sempre più in basso. B asandosi su questo passato complesso, Elio De Capitani ha creato e rielaborato il suo Servo italiano, ispirandosi al romanzo e alla commedia di Maugham, visto che il testo di Pinter, per motivi di diritti d'autore, non poteva essere utilizzato ufficialmente. Il regista si è subito reso conto dell'impossibilità di lasciare l'ambientazione dell'opera in Inghilterra: «Non potevo immaginare - mi dice - un Ferdinando Bruni (l'attore italiano interprete del servo) come un servo inglese; sarebbe stata una figura assurda e parodistica, e avrei creato uno stereotipo di maggiordomo inglese che personalmente detesto». Per non tradire troppo l'impulso e lo spirito del testo originale, la forza che aveva nel suo contesto originario, il regista ha deciso di trapiantare il tutto nell'Italia fascista del 1936, in una località del varesotto all'indomani della guerra d'Etiopia. Ma la questione spinosa rimane: in quale lingua far parlare i protagonisti? E soprattutto come deve esprimersi un servo ormai italianizzato col nome di Ferri (il Barrett inglese)? Nella lingua italiana, i legami stretti e evidenti fra linguaggio, classe e educazione della lingua inglese sono meno espliciti; ciò fa sì che tante sfumature della sceneggiatura di Pinter sono inevitabilmente perse in traduzione. Inoltre in Italia esiste un ben altro tipo di aristocrazia rispetto a quella inglese e dunque una diversa filosofia del servire, come De Capitani ha potuto accertare durante una sua recente ricerca in qualità di cameriere presso un lussuoso e prestigioso albergo di Milano. Un servo di alta classe, come il Barrett inglese, difficilmente esiste in Italia. Ad un servo italiano manca il grande gusto estetico e lo stile ricercato del suo omologo inglese. Quindi per creare un servo autentico anziché una mera caricatura bozzettistica dell'originale, il regista è andato alla ricerca del nocciolo essenziale: «Attraverso il linguaggio, ho cercato di creare un servo molto spogliato delle sue caratteristiche servili, nel senso del linguaggio tipico del maggiordomo, per ridurlo ad una dimensione di prototipo umano, un po' denotato in queste caratteristiche e che distraggono molto perché sono facilmente teatrizzabili almeno agli occhi del pubblico italiano». Occorreva comunque cercare di riprodurre la sensibilità linguistica pinteriana che fa del linguaggio uno specchio della lotta fra servo e padrone. In primo luogo De Capitani ha meditato sulla scelta di un dialetto lombardo che sarebbe stato giustapposto all'italiano: «Avrei potuto - mi rivela il regista - far parlare Ferri in dialetto con Maria (la Vera inglese) e in italiano con il padrone Marcello (il Tony inglese). Poi con l'evolversi dei rapporti di forza i protagonisti avrebbero usato il dialetto». Ma come nota De Capitani, questa operazione non avrebbe rispecchiato una effettiva situazione storica. Dopotutto in quell'epoca il dialetto era appannaggio tanto della classe dominante quanto di quella subalterna; persino re Umberto parlava più volentieri il torinese che non l'italiano, limitato alla funzione di lingua ufficiale. Il regista ha optato quindi per un italiano più neutro nel caso di Ferri e ha invece caratterizzato il linguaggio degli altri personaggi, e soprattutto quello di Vera, con espressioni legate al linguaggio e alla retorica fascista. Secondo l'interpretazione del regista, Ferri non doveva collocarsi in quell'epoca poiché «egli è un personaggio che non crede in queste cose, e quindi rifiuta complessivamente questa terminologia, rimanendo ancorato ad un universo pre-fascista. Ferri usa una lingua assai astratta e - a differenza della versione pinteriana - lo scontro di forza fra servo e padrone non emerge da connotati linguistici a livello geografico e sociale». Il regista ha giocato invece su un uso sottile del lei e del tu. Come egli stesso mi fa osservare, «nel mio testo, nel rapporto personale fra Marcello e Ferri c'è un continuo passaggio dal lei al tu; vi sono momenti in cui entrambi si danno del lei, oppure durante il litigio in cui si danno del tu. Altri momenti ancora in cui le posizioni divergono, finché le rispettive maschere cadono completamente ed entrambi giungono a un tu completamente diverso che testimonia la caduta dei due protagonisti piuttosto che l'ascesa del servo al livello del padrone». Sulle scene dell'Elfo scopriamo un servo diverso, con le proprie radici in Italia, che si distingue da quello di Maugham e anche dalla creazione pinteriana. Un indivi- • duo, comunque, dotato di grande forza espressiva che attraverso un suo linguaggio astratto giunge a dirci cose nuove sul travagliato rapporto di forza fra un servo e il suo padrone, rapporto interessante ancora oggi, come lo era ai tempi di Maugham, perché rappresenta un nodo dei rapporti di classe di natura difficilmente decifrabile e tuttora enigmatica.

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