L'etica: un quasi nulla / 1 Gliequivoci _ della ragjgggopratica S ul finire di un secolo che ha visto ogni tipo di rivolgimenti, di superamenti e di crisi nella filosofia, ci è permesso ormai solo una valutazione generale, anche se paradossale: che le pretese universali del discorso filosofico sono cadute, e che ogni tentativo di ricostituzione della verità in filosofia deve prendere atto di questa iniziale difficoltà. Ogni rifondazione assume inevitabilmente le cadenze di una dichiarazione di impotenza. Le figure che hanno espresso, nel dibattito filosofico più recente, questa situazione sono fin troppo note, discusse (e usurate) perché sia necessario riprenderle. Ma si può fare un'osservazione su un fenomeno concomitante, e in un certo senso singolare: il ritorno di una filosofia della morale. Si direbbe quasi che la filosofia, preso atto della sua incapacità di ricostituire il discorso della verità nel campo del pensiero, abbia deciso di compiere un salto e di ritentare la sorte nel campo dell'agire pratico. È indubbio infatti che da qualche anno il fuoco del dibattito filosofico si è spostato sulle questioni etiche. L'impresa è impegnativa, se non altro perché contrasta con una retorica filosofica che sembrava ormai tranquillamente condivisa. Quelle che Ricoeur ha felicemente chiamato ermeneutiche del sospetto ci hanno insegnato da molto tempo che la cosiddetta evidenza dei giudizi morali era un'apparenza ingannevole: sotto la superficie della morale •si agitavano realtà molto meno nobili. In questo senso, chi aveva letto e abbandonato Marx, poteva rifarsi ora a Nietzsche e a Freud nella pretesa di negare ogni diritto di cittadinanza filosofica alla morale. E che cosa ha fatto in fondo Foucault, se non riprendere le indicazioni di Nietzsche - anche se in un quadro epistemologico mutato? Dalla critica della verità morale che si rovesciava nel suo contrario, o dalla trasvalutazione di tutti i valori, si passava a una critica per così dire relativistica. Non c'era più una morale, non perché il soggetto morale fosse falso, ma perché non era più pensabile un soggetto unificato, non perché l'idea di volontà fosse soltanto un trucco dei moralisti - o una giustificazione della pena - ma perché il mondo appariva l'arena di volontà plurime, cieche e rissose. Il ruolo di Foucault, o meglio del primo Foucault, è stato decisivo perché, nella sua ricerca genealogica, ha mantenuto lo spirito della critica nichilistica della volontà morale, pur modificandone radicalmente la forma e lo stile. Stabilito il carattere contingente e relazionale delle verità pratiche, Foucault ha suggerito implicitamente che i conflitti da cui risultavano tali verità sarebbero potuti andare diversamente. Ed ecco il successo politico delle sue indagini negli anni sessanta e settanta. Così, paradossalmente, uno dei distruttori delle nozioni sostanziali (soggetto, potere, volontà, ma anche desiderio, e così via) in filosofia, ha finito per suggerire che sì, forse, un'alterità fosse pensabile. E proprio su questa difficoltà, sembrano essere aperti gli interrogativi delle sue ultime ricerche. 1 Accanto ai filosofi post-nichilisti, che raccoglievano l'istanza radicale delle ermeneutiche del sospetto, sono sempre rimasti attivi quelli che potremmo chiamare i tutori della razionalità pratica in filosofia - gli autori che rientrano nella nebulosa nota come filosofia pratica: dall'ermeneutica trascendental-pragmatica di Ape! a quella comunicativa di Habermas, fino agli esponenti del neo-aristotelismo. Se c'è qualcosa che unisce tendenze filosofiche così disparate è la fiducia, questa sì trascendentale, nel consenso. Il caso di Habermas è veramente emblematico. Anche se un consenso comunicativo sembra empiricamente improbabile, dobbiamo tuttavia assumere la potenziale positività del consenso: è la realtà empirica della comunicazione che è deformata, mentre resta vera la pretesa alla ragione comunicativa. Insomma, il brutto ranocchio empirico della comunicazione non solo può sempre sperare di trasformarsi in un principe per un miracoloso bacio della principessa, ma egli sa della sua mutazione. Questo semplice saperlo ne fa un principe potenziale. E chi si affanna a negare questa struttura trascendentale è un neoconservatore (definizione che per Habermas si applica a Foucault, Derrida, Deleuze), perché vuole conservare la presente deformità, negando la luce trascendentale che traspare già nelle nostre tenebre. Alle filosofie pratiche, che partono da una nozione metafisica di verità, c'è così ben poco da obiettare, se non forse una constatazione banale, anche se decisiva: che l'agire pratico in atto e la struttura della comunicazione non sono deformati ma semplicemente plurali; e questo nel senso che, nel campo differenziato degli interessi umani, la comunicazione può raggiungere il consenso, ma anche escluderlo, sfociare nei conflitti ma anche risolvere i conflitti. Insomma, non c'è scontro tra luce potenziale ed ombra empirica, ma penombra, o mezza luce, e non esistono prìncipi o brutti ranocchi, ma esseri normalmente e umanamente compiuti nella loro incompiutezza. Assumere che la comunicazione sia infallibilmente distorta dal potere, dagli interessi o dalla cattiva volontà è indebito soprattutto perché nega la pluralità dell'esperienza. È questo assunto che fa cadere Habermas nell'ermeneutica del sospetto: soltanto che ai tradizionali rovesciamenti, la coscienza unificata di classe al posto dell'ideologia, o il «dir di sì» nietzscheano al posto della negazione moralistica, subentra una pretesa altrettanto illuministica ed empiricamente irreale~ che il senso della comunicazione, e per estensione dell'agire pratico, sia la «verità». S ullo sfondo di questi dibattiti, il merito principale di Jankélévitch, come appare nell'antologia di scritti sull'etica recentemente pubblicata,2 consiste nell'eliminare alcuni equivoci tramandati nel discorso sull'agire pratico. Il primo equivoco è che l'esperienza pratica possa essere codificata in una morale, e che il codice si articoli in un sistema di valori o di principi. E questo non tanto per una sfiducia nichilistica nei sistemi, ma per una devastante ironia nei confronti della funzione de-realizzante o, in termini più chiari, soporifera dei sistemi: «Dal . " I momento che c'è dilazione, tutte le speranze sono permesse, per l'amante che si sottrae come per il condannato a morte. Le ideologie, eludendo l'insorgere dell'occorrenza, passano lo sfumino sullo scandaloso accadimento. [... ] Per fortuna i miti escatologici del messianismo, speranze sociali o promesse religiose, 'Grande sera' o Giudizio universale, Pace perpetua o Città di Dio sono rimandate alla fine del tempo. L'internazionale sarà il genere umano, ma non subito, ma molto dopo, ma alla fine della storia, per non spaventare nessuno[ ... ]. La 'Grande sera' insomma è grande solo perché è sempre rimandata a una data ulteriore. Che brutto scherzo ci farebbe se le venisse in mente di essere per stasera, tra le cinque e le sette».3 Ironia, motivata dalla semplice constatazione che l'agire non si conforma a sistemi di verità (tantomeno filosofici), ma a scelte istantanee, che si presentano all'attore non nella forma di imperativi categorici ma di appelli immediati al suo giudizio pratico. Come dice Jankélévitch con una formula rapida e felice, il bene può essere pensato come qualcosa che deve essere fatto «seduta stante». Un ulteriore, importante equivoco, che Jankélévitch contribuisce a dissolvere, è il càrattere atemporale dell'agire pratico. Un sistema morale funziona come se avesse risolto il problema della temporalità. I valori o le regole pratiche vengono presentati come se fossero capaci di ri-orientare il tempo. Fin qui l'agire è stato cieco, ripetitivo, oscuro o dominato dall'interesse o dalla falsità. Ma da ora in poi ... In questo modo, ✓-~-. /J I ;,~ •• ;, ~t.") fiJ.. ,_ - ...__ '-1-i (, : 't Autore anonimo
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