bato ed esperto di scissioni, duplicità, enigmatici eterni ritorni. Un classicismo cui si addice sicuramente la censura che Gombrich applicava ad altro oggetto: «Forse avremmo maggiore probabilità di raggiungere un nuovo linguaggio formale se fossimo meno ossessionati dalle novità e dal cambiamento. Sovraccaricando il sistema perdiamo il sostegno del nostro senso dell'ordine» (Il senso dell'ordine, trad. it., Torino, Einaudi, 1984, p. 483). Ma nessuna novità si dà mai senza traumi: e suona davvero profetica, allora, la parentesi che Carrà pone a commento del suo «dramma intrinseco» nella pagina di apertura del primo fascicolo della rivista: «Eccomi a fantasticare su una solida geometria d'oggetti. Giungerò al canto totale, se un nonnulla mi manda in visibilio, se un nonnulla mi fa tremare il cuore?» (Il quadrante dello spirito). Si è a un passo dal punto di frizione tra ordine e parcellizzazione dell'evento, a un passo dalla poetica dello stupore, del/'intermittenza, che la propria tradizione se la fonda da sé, nella rinuncia ad ogni assolutismo. La linea, insomma, di un Novecento che ridiscute simbolo e mito: ma l'eterogenea accolita di « Valori Plastici» pare soltanto intuirla senza riuscire, di fatto, a praticarla, troppo angosciata dà/ timore della perdita per tentare l'avventura del discontinuo, troppo nostalgica di integrità per accettare, definitivamente, la crisi del Senso. Letteratura e Sessantotto Pietro Cataldi 1. Il reale - si legge nella prefazione di A. Giuliani ali'edizione einaudiana de I Novissimi (19652 , p. 14) - «è irreperibile nella poesia se non quale oggetto di quel processo che è il linguaggio». Un redattore di «Nuovo impegno» o di «Che fare» avrebbe certamente contestato questa affermazione: se in essa sono esemplarmente presenti le premesse da cui mosse la neoavanguardia, proprio quelle premesse sarebbero parse inaccettabili al nostro ipotetico redattore. Il quale, specie approssimandosi il Sessantotto, le avrebbe volentieri rovesciate; preoccupato, più che di come il reale stia nella poesia, di come la poesia possa collocarsi nel reale. Era, questo, un problema particolare che si riconnetteva al problema generale del rapporto tra intellettuale e lotta di classe. Ma intellettuale ed artista, cercando spesso di rifondarsi insieme, finivano inevitabilmente con il delegittimarsi a vicenda; proprio il contrario di quanto avveniva agli aderenti del Gruppo 63, forti della postulata priorità del linguaggio (o della fondativa sua maggiore contraddittorietà interna). In antitesi alla contestazione letteraria della neoavanguardia, le riviste legate al Sessantotto e alla sua preparazione mirano ad affermare il primato della prassi, e quindi dell'homo politicus, sulla letteratura e sulla cultura intesi come istituzioni separate. Lo scopo è anzi proprio quello di criticare e abbattere la separatezza, riscattando le figure dell'intellettuale e dell'artista dalla loro professionalizzazione e parcellizzazione per sottrarle alla morsa dell'omologazione capitalistica. In questo tentativo sta senz'altro l'aspetto più interessante e prezioso di quell'esperienza; anche se bisognerà riconoscerne la realizzazione solo parziale. Un aspetto decisivo dell'elaborazione teorica di «Nuovo impegno» e di «Che fare» è senz'altro la critica violenta e ampia condotta nei riguardi della neoavanguardia (e dello strutturalismo) e poi ali'organo di stampa che essa si diede, cioè «Quindici». In questa polemica le due riviste rivelarono forse il meglio della propria lucidità teorica e del proprio mordente demistificatorio. Il fatto è che la posizione compromessa della neoavanguardia risultò facilmente smascherabile proprio sul piano di quei rapporti scrittoresocietà e contestazione-integrazione ai quali «Nuovo impegno» e «Che fare» rivolgevano il massimo della propria attenzione. Le proposte della neoavanguardia furono rifiutate integralmente: accusate di contestare l'istituzione letteraria e non il Sistema e di restare quindi intrappolate nel meccanismo stesso che volevano aggredire, finendo con il risultare una forma di aggiornamento di quell'istituzione e di quel Sistema, intfgrandosi perfettamente nell'una e nell'altro. Si pensi almeno, per queste critiche, al saggio di Di Marco Dal tram delle ideologie alla metropolitana delle formalizzazioni («Che fare», n. 1) e ai saggi di Luperini, che si occupò a fondo della questione, Dopo la neoavanguardia («Nuovo impegno», n. 1-2) e Sull'ideologia politica del Gruppo 63 e del «Quindici» («Che fare», n. 4). Che la neoavanguardia rappresentò un bersaglio polemico costante delle due riviste in questione, si ricava anche da scritti non dedicati specificamente all'argomento, nell'orizzonte dei quali essa è sempre presente, come punto di riferimento negativo ma inevitabile. In un'avvertenza Ai lettori (n. 17-18, p. 2), «Nuovo impegno» ammoniva che «un ruolo d'avanguardia non sarebbe possibile, se non venisse legittimato politicamente dal riconoscimento di essa, della sua necessità, della sua funzione da parte di masse via via crescenti, del popolo insomma, dei proletari sfruttati». E si parla, con ogni evidenza, di un'avanguardia prima politica che culturale. Leonetti, dal canto suo, proclamava su «Che fare» (n. 4, p. 136) che «avanguardia [. ..] vuol dire avanguardia di azione, oggi, e nessuna metaforicità è più ammissibile». Se la critica della neoavanguardia occupa L1nposto di rilievo nell'orizzonte teorico di «Nuovo impegno» e di «Che fare», essa è in particolare il fulcro, dichiarato o implicito, sul quale ruota la parte più cospioua (e valida) della loro ricerca teorica, quella parte che potrei chiamare destruens per la forza della demistificazione e della critica. Critica, soprattutto, del concetto tradizionale di «impegno», a travolgere sia la rinnovata separatezza dei neoavanguardisti che la militanza degli intellettuali marxisti negli anni della ricostruzione. Attraverso un'analisi marxista .dei rapporti di produzione e dei legami tra struttura e sovrastruttura, emerge con evidenza la compromissione della forma, al pari delle ideologie, con le leggi del profitto capitalistico e della sua riproduzione-perpetuazione anche nel- /' aspetto del controllo delle coscienze (cfr. almeno Di Marco, Verso un'estensione della rivoluzione culturale nel campo della comunicazione borghese formalizzata, «Che fare», n. 4). Viene così definitivamente inficiato sia il qualunquismo formale di origine zdanovista che la contestazione endolinguistica del Gruppo 63: il neorealismo e la neoavanguardia vengono ad occupare, in questa analisi, i due corni' complementari di un errore in qualche modo simile (cfr. Luperini, La critica comunista, l'arte e il punto di vista rivoluzionario, «Nuovo impegno», n. 3). Si potrebbero segnare altri punti .afavore di questa ricerca. Ma mi preme passare subito a considerare l'aspetto meno studiato e più propriamente costruttivo, o caratterizzante, dell'esperienza teorica (e politica) di «Nuovo impegno» e di «Che fare»: nel tentativo di individuarne, insieme alle peculiarità, i limiti storici. 2. Intanto, un'osservazione di fondo: si avverte, nel trattamento di questioni teoriche propriamente fondative, una certa frettolosità, a liquidare rapidamente problemi che si sarebbero certo giovati di una più attenta riflessione; come se lo stesso incalzare degli avvenimenti (le lotte studentesche e operaie, e insomma il clima insurrezionale) sortisse il duplice effetto di rendere urgente un pronunciamento e di autorizzare la incompleta ricognizione teorica preliminare, offrendosi come garanzia a priori della sua «tenuta» storica. Detto questo, sarà opportuno soffermarsi su alcune caratteristiche «esterne» delle due riviste. «Nuovo impegno» inizia le pubblicazioni nel dicembre 1965 come «rivista bimestrale di letteratura»; con il quarto fascicolo (n. 6-7, nov. 1966 - apr. 1967) diventa trimestrale e significativamente smette la specificazione «di letteratura». Coerentemente a questa rinuncia, si assiste ad una progressiva politicizzazione, lungo il climax ascendente che porta alle lotte del Sessantotto e lungo quello discendente che da esse allontana. E il problema della letteratura è lasciato sempre più in ombra, fino a dare l'impressione di un vero e proprio rinnegamento. Il primo numero di «Che fare» esce nel maggio 1967 e conserva oltre la verifica del Sessantotto il sottotitolo «bollettino di critica e azione d'avanguardia», privo di termini compromettenti come «letteratura» o· «arte». Ma, contrariamente a quanto avviene in «Nuovo impegno» con l'inverno 1968-1969 (quando esce il n. 4) la riflessione teorica sulla letteratura e sull'arte, appena abbozzata nei tre fascicoli precedenti, diviene il momento centrale dell'impegno redazionale; ed appunto sul n. 4 si colloca la proposta di «decentramento dell'opera» in cui si concreta il massimo sforzo teorico fondativo della rivista (affidato soprattutto ai direttori Leonetti e Di Marco). Questo destino inverso delle due riviste non deve stupire. Esso mi sembra contenere, in modi diversi e complementari, un identico presupposto e uno stesso limite. Nel primo fascicolo di «Nuovo impegno» - contro il rifiuto della letteratura, cioè contro la sua proclamata ineffettualità (Asor Rosa), e contro la negazione della possibilità di una letteratura d'opposizione, cioè contro la proclamata compromissione della forma con le classi dominanti (Fortini) - Luperini difende la capacità della letteratura di modificare la realtà, al pari di ogni altro momento del/'operare umano; ne difende cioè la legittimità strumentale in senso rivoluzionario. Ma nonostante l'utiliizazione importantissima del concetto del/avo/piano di «procedimento razionale-intellettuale» del discorso letterario, manca un'effettiva riflessione sul momento dello specifico formale. Si oscilla tra la difesa del valore oppositivo della letteratura in quanto «veicolo di concetti» e l'esaltazione della «pregnanza storica e realistica del discorso poetico», garantita dal polisenso, nella direzione dello «scavo nel reale, addirittura superiore al discorso politico o storico o filosofico» (p. 32 e sgg.). Sullo stesso primo fascicolo, Petroni difendeva l'importanza del nesso tra letteratura e società: «Noi affermiamo decisamente l'unità tra il momento della presa di posizione morale e politica e il momento della ricerca (e nella ricerca includiamo la attività artistica)» (p. 6). C'è insomma la tendenza a difendere il valore della letteratura (anche in senso rivoluzionario) appellandosi ad una sua ridefinizion"'epolitica in chiave prevalentemente sociologica e gnoseologica (cioè demistificatoria). La letteratura è analizzata solo superficialmente nella sua specificità, che in questo modo si sottrae al terreno dello scontro, per essere o lo strumento di una conoscenza della mistificazione borghese e dell'orrore che vi si cela o un esito, sostanzialmente individuale anche se passibile di politicizzazione oppositiva, di una «tensione etico-intellettuale verso uno stile» (Ciabatti, n. 1-2, p. 51). Probabilmente a far restare irrisolto il problema della specificità cooperò la diffidenza nei confronti dei neoavanguardisti, che nella forma letteraria e nel linguistico avevano installato il loro quartier generale. Recensendo I piacevoli servi di Bellocchio, Petroni scriveva infatti: «L'apertura verso un'esperienza culturale e umana più vasta ci sembra [... ] nella situazione attuale, l'unico atteggiamento veramente sperimentale»; e si scagliava contro gli «esperimenti della neoavanguardia», fondati «su una concezione del mondo data una volta per tutte e divenuta ormai di maniera» (n. 3, p. 119). Al centro dell'attenzione era l'aprirsi di «un'esperienza culturale e umana più vasta» e non la riconsiderazione materialistica del fare letterario. La critica riguardava il ruolo dell'intellettuale e dell'artista, o anche quello della cultura e dell'arte; ma sempre in una prospettiva immediatamente politica: dove l'intellettuale e il letterato potevano impadronirsi di un'identità altra, e la letteratura essere difesa a partire da quella identità. O, meglio ancora, essere tralasciata: la militanza politica, mancando una convincente ridefinizione del proprio ruolo, avvenne così sotto l'egida della categoria separata, appunto, della politica; e questa si rivelò nei fatti semplicemente inconciliabile con la categoria culturale del letterario. Ho già osservato che con il conclamarsi delle tendenze insurrezionali tra il 1968 e il 1969 l'atteggiamento di «Che fare» nei confronti dell'arte e della letteratura cambia, facendosi a un tempo più rigorosamente critico e più affermativo. Sul n. 4, Leonetti, criticando lo «sventramento» che la neoavanguardia compie «autocontraddittoriamente» «della comunicazione borghese», afferma che il suo limite sta nel non concepire «nessun 'fuori'». «Ora - egli afferma - questo procedimento o finisce senza residui in una pratica di negazione o si smentisce e si integraperfettamente e professionalmente f. ..]. Il solo vero 'vuoto' è quello del luogo contrario alla 'produzione' [. . .]. Ma ora sta nella strada, nella scuola, nella fabbrica; non più nella lingua. Poco prima di ciò, ammettiamo, è stato nell'afasia e nel progetto d'avanguardia» (Il processo estetico «rovesciato», n. 4, p. 132). La pratica rivoluzionaria riassorbe la funzione intellettuale ed artistica. Nel momento in cui rinnega se stessa nella prassi, cioè, la funzione intellettuale ed artistica afferma la ragione storica delle proprie scelte e quindi la propria identità. Ecco perché il clima insurrezionale del Sessantotto favorisce la fertilità fondativa e teorica di «Che fare»: il collegamento con la prassi rivoluzionaria garantisce all'intellettuale-artista un'identità che egli può riversare entro la propria specificità. Il decentramento del- /' opera afferma appunto questo non esaurirsi dell'opera in se stessa, ma in un compimento esterno a sé, «entro alla pratica sociale rivoluzionaria della negazione determinata storico sociale» (Di Marco, n. 4, p. 146). Affermando il primato della prassi, e affermando il proprio compiersi in essa, la letteraturapuò coraggiosamente riaffermare se stessa: la sua fatale inerzia lungo i binari sempre discendenti verso le fauci del capitale viene riscattata dalla locomotiva potente dell'insurrezione sociale, e da essa sospinta ad una realizzata efficacia operativa oltre che ad una implicita ragion d'essere. Tùtto ciò risulta più che mai chiaro da quanto si legge in una nota su «Che fare» e la letteratura-arte (a p. 85 del n. 5): «Noi, insieme a pochi altri che come noi nella malfamata locanda letteraria-artisticaalloggiamo soltanto qualche notte e con giusto schifo o disagio, nel primato della prassi materialisticamente crediamo f. . .]. Anche l'arte e la letteratura [. . .] è prassi essa stessa ma mistificata f. ..]. Ecco perché il 'Che fare'[. ..] non è rivista di cultura ma tende ad essere azione politica [. . .]. L'orizzonte di lavoro del 'Che fare' non è appunto la letteratura, comunque intesa e praticata, ma la pratica sociale di negazione determinata del sistema capitalistico qui ed .ora. Al che si può arrivare - qui il principio che l'esperienza del 'che fare' postula - anche muovendo da una pratica letteraria specifica». Ma, ci si sente in diritto di chiedere, se si crede nel primato della prassi e si sostiene che anche la letteratura è prassi, perché il letterato deve operare nella «pratica sociale», «muovendo da una pratica letteraria specifica» (c. n.)? Perché un aspetto della prassi deve autenticare l'altro per renderlo legittimo? Perché «ora nessuna parola di cultura ha senso se viene da chi ha continuato ad avere professione e abitazione fissa, o non ha mai distribuito un volantino» (Leonetti, n. 5, p. 92)? Forse che davvero questo rende una parola di cultura più sensata? Non deve stupire, a questo punto, che proposte meno attente e meno rigorosamente analitiche, potessero conseguentemente affermare come «compito» dello scrittore, in un momento rivoluzionario, quello «di impiegare le tecniche apprese (i modi e i mezzi speciali dell'attività separata e privilegiata dell'arte) per misurare la capacità di soddisfare i bisogni nuovi (e perciò più antichi) emergenti. Questa è la sperimentazione» (R. Fracassini, L'arte non è attività «spontanea» ma separata, n. 4, p. 180). I diversi esiti di «Nuovo impegno» e di «Che fare» rivelano insomma una medesima rimozione di fondo, quella della specificità formale della letteratura; e da ciò deriva la mancata riconsiderazione, in senso compiutamente materialistico ed in chiave marxista, delle sue prerogative e peculiarità storiche e politiche. Il rifiuto della letteratura o la sua riaffermazione in nome della prassi nascono da uno stesso equivoco: l'istituzione criticata non suggeriva, stante anche lo «spettro» della neoavanguardia, riconsiderazioni o eccessivi coinvolgimenti; e piuttosto si mostrava bisognosa di una rilegittimazione che parve poterle venire dalla pratica sociale e dalla politica. Se oggi ricordo questo è nella speranza di rilanciare l'esemplare valore demistificatorio delle critiche che riviste come «Nuovo impegno» e «Che fare» seppero muovere alla concezione tradizionale del letterario e della cultura, senza cedere alle sue modernizzazioni e ai suoi aggiornamenti; ma è anche nella speranza di rilanciare, insieme, un più profondo bisogno di verifica delle peculiarità storicomateriali della specificità dell'operare letterario, in vista di una rifondazione che sappia tenere giusto conto anche della lezione in tal senso decisiva della neoavanguardia; è, insomma, per riproporre quel tentativo materialistico e marxista, e contribuire a renderlo praticabile. ~ <::$ .s ~ I::), t-.... ~ ..... .si gg <::$ E: ~ i.:: ~ ..e g --------------------------=-----------------------------------------------------<::$
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