Alfabeta - anno IX - n. 96 - maggio 1987

ne della musica - l'autonomia del significante - ha la meglio sul peso semantico della parola (così senza incertezze Boine per i Canti Orfici: «la musica vince i discorsi»). Basta un'occhiata al prediletto tra i Delirii, Veggo al di là, per affermarne la forte marca campaniana. Già i materiali tematici sono molto connotati: un porto affacendato e ingombro (e il lettore di Campana pensa a Genova, o a Crepuscolo mediterraneo); un turbinoso viaggioper mare (e si pensa a Viaggio a Montevideo); la visione dell'acqua della «strana città» (ancora Viaggio a Montevideo, con riscontro abbastanza puntuale: Campana: «Noi vedemmo sorgere nella luce incantata I una bianca città addormentata»; Boine: «Veggo al di là, veggo al di là la strana città»). Ma oltre i debiti minuti, è la struttura formale complessiva che si approssima al «gorgo canoro» dei Canti Orfici: la fittissima scansione fonico-ritmico-timbrica che insidia e corrode L'impianto logico, disseminando tracce continue di iterazioni, terminazioni coincidenti, rime, allitterazioni, assonanze, consonanze, sdruccioli in serie. Si leggano ad esempio i § 5-9, imperniati sull'uso martellato e drammatico del monosillabo (nostri anche qui i tondi). Veggo al di là ( da Delirii) - Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull'immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s'avanza una città. - Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti veggo pel lustro smeraldo, al di là. - Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch'è tutta d'oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità. - Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità... - Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va! A proposito dell'ultima strofetta si può anche citare da Campana Il canto della tenebra: «Non c'è di dolcezza che possa uguagliare la Morte/Più Più Più[. ..] Che dice all'orecchio Più Più» ecc. Anche se rispetto al continuum magmatico e dissestato di Campana si osserverà che in Boine prevale la divisione in unità isocòle, con scansione sintattica abbastanza perspicua. A proposito di Veggo al di là Boine scriveva allo scettico Cecchi: «Ti dà fastidio il ritmo elementare quasi il canto di nenia? [. ..] Io m'ostino a fare anche di peggio in questo senso, e colla pretesa di arrivare quando che sia a qualcosa. La parola la si può cantare oltreché parlare. Gli echi più vaghi sono, e più son belli» (9 agosto 1915). Cecchi in risposta sembra per una volta condividere, mettendo l'accento su istanze stilistiche di tipo espressionistico: « Lo credo che la 'febbrilità' dei 'deliri' ti richiami! Tutti siamo, per ora, a descrivere, davanti a visuali: almeno se queste visuali si rompessero risolutamente e torcessero, a rappresentare e imitare L'intimo dissesto: e lì a momenti lo fanno». Ma è indubbio che per se stesso Cecchi continui a inseguire un'ar.tetutta fondata su rigore e ragione. La divaricazione tra i due si esprime più nettamente poco dopo, davanti a un'altra prosa di Boine, visionaria analogica aggrovigliata, I cespugli è bizzarro, spedita a Cecchi il 21 ottobre 1915 (ma inedita in vita, e uscita postuma in altra stesura). Il 27 ottobre Cecchi prende risolutamente le distanze da questo tipo di frammentismo che - scrive - «richiede un getto violento ed esasperato, e le immagini sfor- . zate fino al loro estremo». Per concludere: r<E forse noi siamo un poco gli eccessi opposti. [. . .] Tu dai in fervore esterno tutta la tua 'carica'; a me la si brucia invece dentro e io non dò che un contorno quasi vuoto». E Boine per suo conto ribadisce: « La differenza che tu dici esiste fra noi due se mi fai l'onore di paragonarmiti: è questa, che tu possiedi tutto e ti rimugini di purificazione riflessa: sei stravigile; ed io non so niente d(me [. . .] Mi azzardo intero volta a volta» (29 ottobre). Sta di fatto tuttavia, qualunque peso abbia il monito dell'amico e siamo sicuri che un peso l'ebbe (tant'è vero che nel caso particolare I cespugli è bizzarro resta inedito), che il momento più anarchico di Boine si può indicare a circoscrivere nei molto campaniani Delirii. Nel settembre 1915 la serie dei Frantumi («La Riviera Ligure») presenta la solita potente carica inventiva linguistica, ma la struttura sintattico-ritmica appare più equilibrata e ferma. L'autore per primo nell'inviarli a Cecchi non stentava a dirli «più umani e duraturi dei Delirii» (21 luglio). Ne leggeremo uno a titolo esemplificativo, Deserto, anticipando che il genere rinvia al diario astratto e metafisico tanto caro a Cecchi; ma è tipicamente di Boine la tensione ritmica che ostacola e combatte quella logica, opponendole improvvise impennate, inversioni, fantasiose virate, iterazioni litanianti, rime grammaticali, torsioni espressionistiche. - Il tempo dell'adolescenza fu gonfio-ricolmo della calda amicizia, - quand'ero terra d'americhe ricca che avido ciascun vi segnava il suo pezzo. - Adolescenza primavera-fervenza d'ogni possibilità! Sei come un bosco; popolosa città. Tutte le strade son buone, tutte le mete! e ciascun che t'incontra fa ressa, vi batte vi cerca la sua. - Il pregio d'ogni idea era allora d'esser bandiera; ci fasciava a schiera, si marciava in frotta; l'entusiamQ era pane che si spezza alla cena. - Non v'era né mio né tuo; le case come gli affetti, senza le porte: abbraccio, la nostra sorte, e volersi bene, respiro. Vi furono amici come gelosissimi amanti (vi furono odii e rotture). Devozioni sino alla cecità. - Ma buono sentir nel buio sbattere cuori, buono l'amore, fraterna la calca! Pullula il mondo, non c'è sabbie di disperazione. - Il tempo dell'adolescenza fu gonfio (ohimè) della calda amicizia ... E se il linguaggio dei Frantumi può dirsi complessivamente più sedato (come ben vide Boine) predominando l'investigazione dell'io morale, esso contiene tuttavia diverse escursioni tonali. Ad esempio: vi si ritrova il timbro della più tenera e bamboleggiante cantilena amorosa (cfr. Càrezza: «M'allacci allora senza parola, t'appoggi allora così lievemente, che appena ti sento, appena... Vuoi dir che ci sei? I - Ma torno piano dalla lontananza, ma tocco piano il dolce viso, guardo i fedeli occhi che guardano me»). Oppure: il ritmo sincopato, altrove adibito come s'è visto per fini drammatici, viene usato anche a scopi ironico-fumisti - perciò s'era invocato prima il nome di Palazzeschi - (cfr. Rifugio: «Ormai il dolore fu; per me non conta più: sopra i giardini, dentro l'azzurro, è come un vago fumo che fa pennacchio giù, - o è poco più dell'ombra (nera un po'), di quelle nubi sole di lassù»). O infine: si rilevino le magre aperture alla Sbarbaro, connotate sia dalla giacitura sintattica sia dal repertorio tematico - strade cittadine, oscure inquietudini (cfr. almeno Domande: «Mi piglia uscendo talora ai crepuscoli per le vie stranote, il bizzarro ansito dell'avventura», vero calco sbarbariano. Sbarbaro infatti si prodigò in incipit del tipo: «Talor, mentre cammino solo al sole I [. . .] I un improvviso gelo al cor mi coglie»; oppure: «Talor, mentre cammino per le strade I della città tumultuosa solo»; o ancora: «Talora nell'arsura della via I un canto di cicale mi sorprende»). Dunque, il 1915 di Boine appare vistosamente segnato dalla sperimentazione curiosa e ancora instabile di più scritture, alla ricerca di quella definitiva. E si potrebbe ancora incrementare il catalogo con altri prelievi, tutti 1915. Ad esempio, I miei amici di qui («La Riviera Ligure», dicembre) tradiscono dal titolo il ricordo di Papini, di quelle Cento pagine di poesia recensite sulla «Riviera» con particolare riguardo al brano d'esordio, appunto I miei amici. «Questo sì - ne scriveva Boine - è il Papini che mi ferisce dentro come una frecciata», ecc. Ricordo di Papini che l'andamento del testo - baldanzoso, conversevole, rude - conferma: «Pei giorni allegri tutto è buono, e il mondo m'è un'uscita da scuola [. . .] faccio baldoria con tutto. Gli amici ci vogliono pei tempi andati», ecc. Alla stessa zona annetteremo Resoconto dell'escursione («La Riviera Ligure», marzo), che combina insieme un tipo di narratività brusca, scanzonata, festosa, di segno quasi strapaesano (ancora Papini dunque), con intense impennate liriche. Arriviamo infine a Le conclusioni d'ottobre. Fatte conoscere a Cecchi nell'ottobre 1915 (usciranno sulla «Riviera» solo nel marzo 1916), strappano finalmente al prudente interlocutore un'adesione pronta e totale: « Forse - commenta Cecchi - per ragioni egoistiche, perché le sento ritagliate in quella sostanza che m'è più vicina, più concreta, e a un tempo esaltante. A volte, nelle cose d'un altro tipo tuo, io reagisco senza volere a un eccesso fantastico». Cade preziosa per mettere in guardia dagli abusi fantastici, una similitudine figurativa: «Cézanne non poteva dipingere che col modello, uomo o paese davanti. Il Qui insomma, io sento che tu intagli proprio, nella materia viva [. .. J E ciò non esclude né limita per nulla il raggio fantastico vero: abbassa, velia, l'éclat immaginativo; e ciò è bene». E sfogliando le Conclusioni d'ottobre, pare di capire che il consenso di Cecchi si debba proprio alla supremazia del carnet metafisico («lo per me.sono sempre sconfitto; Il Ma certo che il mondo bisogna arrangiarlo! Bisogna puntellarlo!» ecc., «Ma io per me, e lasciatemi da me! Sono un soldato zoppo fuor di marcia: lento penso a me per la via de' campi»; sino alla nuda, epigrafica, clausola: « La morte bisogna morirla: a dirla fa paura ed è vergogna»). Trionfa inevitabilmente - preteso si direbbe dal genere - un impianto-base razionale, pur aperto a eventuali avventure lessicali, foniche, metaforiche. Non si dimentichi che in questo stesso periodo Cecchi attendeva ai suoi notevoli esperimenti di lirica metafisica (via via pubblicandoli sulla «Riviera Ligure»), e che fu tra i primi e più convinti assertori dei Prologhi del/'amico Cardarelli, in grazia dello stile fermo, apodittico, tagliente. È questo il polo più vetrino e severo dell'autobiografismo morale vociano, verso cui l'avventuroso - ma ben consapevole - Boine non manca di accostarsi (e al testo citato potremmo legarne altri pertinenti alla stessa area stilistica, o per intero o a lacerti, ma manca il tempo per analisi minute). Il dicembre del,1915 trova l'uno - Boine- molto malato e depresso, incline a credersi fallimentarmente un «anarchico», un «volubile», «uno che gualcisce tutti i mappamondi» (9 dicembre); mentre l'altro - Cecchi - risponde dalla caserma di Alessandria sconvolta dal neo-reclutamento dei ragazzi del 1896 («figurati che la mia lettera dell'altro giorno ti fu scritta, in una cascina in mezzo a queste campagne con un fango che pareva la guerra di Polonia»). E tuttavia si parla ancora di lavoro letterario, con gli accenti estremi e netti che le congiunture richiedono. Cecchi il 12 dicembre: «M'hai sentito un poco sordo alle tue risoluzioni di musica e di colore fantasmagorici; ci ho sentito, a volte, un partito preso, lì sotto. Io non so, e questo non è un momento per me di elucubrazioni [. ..] Tuttavia, in linea generale, io penso che il nostro guaio come artisti[. ..] è d'averla presa troppo dall'alto; ed esserci buttati alle posizioni estreme e ai pinnacoli [. ..] Le stesse tendenze di lirica integrale, favorevoli e ottime, in altro clima letterario, qua [... ] hanno fatto più male che altro; e hanno spinto alla sintesi, prima che ci fossimo conosciuti, ci fossimo sperimentati». Parole che suonano come un per- ~ sanale tentativo di bilancio, e come congedo dagli eccessi ~ del frammentismo lirico. E conclude: «Lavoriamo, senza f!ij disperarci, Boine; e saldiamoci a qualcosa in grande; è la ~ ciambella a cui si sono attaccati tanti che non volevan0;- •'-- ~ crepare. E ti ripeto, ancora, parole tue, ma un amico, a volte, è anche un'eco; l'eco dei nostri momenti d'efficien- • za, almeno nei momenti neutri e bui». Ma se il·lava.rodoveva continuare a lungo e fecondamente per Emilio Cecchi, diversamente amaro era il destino di Giovanni Boine: la sua vita breve si sarebbe prestissimo conclusa, non concedendo al suo talento scapigliato e indocile, dopo le ultime affascinanti sperimentazioni, il tempo necessario per assestarsi, verificarsi, procedere oltre. Avanguardia e tradizione in ~ Valori Plastici~ Niva Lorenzini Vogliono essere, questi miei appunti, nient'altro che un contributo di riflessione sul significato e le contraddizioni di una svolta culturale, il cosiddetto «ritorno all'ordine» degli anni venti, visualizzato da~'ottica delle arti figurative. La scelta di « Valori Plastici» piuttosto che della « Ronda» non è, nelle intenzioni, casuale: sulla rivista di Broglio è dato infatti misurare con particolare incisività la portata. di un dibattito che andava ben oltre la proposta di nuove maniere espressive, coinvolgendo un confronto ampio tra modernità e tradizione, senso del nuovo e valore del passato, dinamismo e staticità, sintesi e frantumazione. I grossi problemi, insomma, che la cultura totalizzante della fin de siècle aveva consegnato alla volontà eversiva delle avanguardie, ma che il futurismo aveva poi solo parzialmente affrontato e risolto. Chi ha indagato, con analisi documentata e capillare, le diverse fasi della rivista (mi riferisco in particolare a Fos- ,sati) ha giustamente posto L'accentocol rigore dello specialista sulle caratteristiche tecniche del riconquistato «mestiere», soffermandosi intanto sui pericoli di intendere la rivista come portavoce di un'arte metafisica con cui, di consueto ed erroneamente, la si identifica. L'esperienza di « Valori Plastici», chiarisce Fossati, è ben più articolata, tanto che non a caso la rivista occupa un ruolo importante nella situazione postbellica. Vi si svolge, ad esempio, una riflessione critica che diviene inseparabile dal produrre artistico, e sarà questa una lezione destinata a fertili sviluppi; vi si avvia un recupero del classicismo che si traduce immediatamente in «politica di intervento», secondo i modelli operativi imposti anche, va ric_onosciuto, dall'ideologia futuristica. Non, dunque, chiusura alla ricezione, «torre d'avorio» subito sostituita alla civiltà della spettacolarizzazione di massa, ma progetto culturale che coniuga i modi della creazione con quelli della produzione, proponendo con forza «una coscienza della natura particolare del lavoro artistico e dei suoi miti». Con ambivalenze, certo, e limiti dovuti alla stessa eterogeneità del gruppo (ma di gruppo è già improprio parlare, data la rivalità delle posizioni, i dissidi interni, la distanza tra la linea Carrà-De Chirico-Savinio e la linea Tavolato, o Broglio, o la conventicola dei raimondiani Franchi e Mario Bacchelli, e Cecchi, e Soffici ... ). Più che affrontare direttamente, nei suoi termini propositivi, l'impegnativo progetto di un'arte intesa come «globalità di esperienza», non più fusa con la vita ma ad essa conflittuale, con le irrisolte antinomie di un rigore espressivo che ritaglia spazi elitari e di un contemporaneo interesse alla riforma del mercato e alla funzione del critico, sceglieremo aree di intervento decentrate e parziali. La prima riguarda l'approfondimento della polarità fine delle avanguardie-nuovo classicismo. E si potranno allineare, intanto, connotazioni diversificate, talora sorprendenti, utili anche ad approfondire risvolti, aporie, contraddizioni della pratica dell'avanguardia. Un ideale catalogo delle interpretazioni del futurismo va aperto con le radicali stroncature di Savinio e De Chirico, che riportiamo nell'ordine. La prima, notissima, risale al numero dell'aprilemaggio 1919 (Savinio, «Anadioménon» - Principi di valutazione dell'Arte, contemporanea): «Ogni inquietudine s'avvia fatalmente a una calma in cui quella sostanza stessa che provocò l'urto inquietante si spiana e si distende in tutta la sua verità: t il processo naturale che conduce dal barbarismo al classico». «Vedemmo già come l'ultimo classicismo, venutogli a mancare la vitalità spirituale e spentosi, si fosse lasciato dietro il suo cadavere, la sua materia morta, la sua scoria: l'accademismo. Fenomeno di spurgo che si ripete dietro ad ogni fatto vivo, nel procedere di questo mondo in continuo divenire. Così vediamo ogni tappa di questo ultimo periodo pittorico lasciarsi dietro, al suo finire, lo strascico inevitabile delle sue proprie scorie. È questa la ragione [. ..]per cui troviamo ancor adesso dei futuristi intorno a noi ... Sono le scorie, ahimè! le scorie!... È lo sterco che traccia la corsa del cavallo [. ..]». E chi pensasse che l'attenzione di Savinio si rivolga qui in realtà solo all'ultimo futurismo, facendo salvo il periodo di vitalità del movimento, potrebbe rileggersi L'interventodel primo fascicolo, Arte = idee moderne, ove gli innovatori • moderni (futuristi e insieme cubisti) sono accomunati nel- !'accusa di falso rinnovamento e falsa originalità: «È .ben miserabile questo rinnovamento. Ci ritroviamo sempre ad un'arte monca, creazione di spiriti monchi. Giacché l'artista moderno [. . .] non s'è accorto che la nostra intuizione del mondo non è solamente sensoria ma è soprattutto intellettiva, vale a dire, per esprimersi obiettivamente, cerebrale [. ..]. Quasi tutti questi artisti moderni [. ..] sono degli spiriti deboli».

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