°' ...... <:::s .s ~ ~ t--.. ~ ...... -9 gg ~ ~ ~ ~ ~ -o g Ricercatori &Co. S i è tenuto a Viareggio nei giorni 26, 27 e 28 marzo, com'era previsto, l'incontro «Ricercatori & Co.» (Primo di un triennio, e continuazione delle iniziative sulla ricerca letteraria già promosse a Palermo nel 1984 e a Roma nel 1985). Era costituito di tre filoni diversi e convergenti: un dibattito critico-teorico, in due pomeriggi, con avvio di F. Leonetti e relazioni di R. Barilli e A. Porta, che ha dato un fitto e interessante nastro di sei-sette ore; una serie di presentazioni e proposte di riviste nuove, una ventina, che si è accentrata per lo più sul senso e sulle difficoltà del «lavoro delle riviste» e del gruppo-rivista oggi; e, nelle tre mattine, una serie di ricognizioni sulle riviste di ricerca del Novecento. Ed è di questa sezione che diamo qui, come anticipo, tre scritti critici-teorici; mentre tutti i materiali del convegno saranno pubblicati in un volume attualmente in fase di progetto. Gli autori di questi tre scritti sono operanti nelle facoltà universitarie, rispettivamente, di Pavia, Bologna, Siena. ~La Voce», Boine, sperimentazione Clelia Martignoni Non occorrono davvero giustificazioni preliminari per mettere sul tavolo in questa sede l'argomento vociano: sin troppo nota la laboriosa sperimentazione, la linea continua e frastagliata di ricerca, su cui si attesta la più parte del gruppo. Anzi semmai potrebbe essere, o parere, proprio questo l'ostacolo del nostro intervento: la sazietà del troppo detto. Sfidiamo volontariamente il rischio, nella persuasione che su certi nodi giovi ancora riflettere e lavorare, testi alla mano. L'insegna accattivante di queste giornate, Ricercatori & Co., ci incoraggia - anziché a tentare un quadro di gruppo, a cui il poco tempo conferirebbe per forza contorni sfocati e generici - a privilegiare dentro la varia ricerca vociana un caso di plurisperimentazione rappresentato da alcune prose liriche (1915-1916)di Giovanni Boine, proprio perché vi convergono in nuovo equilibrio parecchie componenti stilistiche estratte da vari compagni di strada e rielaborate industriosamente in proprio. Prima di addentrarci nell'analisi dei testi converrà ricapitolare le coordinate essenziali della scrittura vociana, contesto generale, concomitante e affine, nel quale la ricerca individuale di Boine si assesta. È ben noto che lo stile vociano - in prosa e poesia - garantisce interesse preminente e prioritario verso frammentarismo e autobiografismo strenuamente congiunti. Rifiuto della forma-romanzo, della sua impossibile durata, continuità, chiusura, e ricerca di altra espressione contrapposta, più fluida, disuguale, terremotata e lirica. La rete a larghe maglie del/'autobiografismo include però esemplari sensibilmente diversi, veri e propri sottogeneri abbastanza indipendenti tra loro: il diario impressionistico e immediato di Soffici (Arlecchino 1914, Giornale di bordo 1913-1915), l'autoritratto lutulento, romanzato e agonistico di Papini (Un uomo finito 1913), i compositi «romanzi» di formazione di Slataper (Il mio carso 1912) e di Jahier (Ragazzo 1919), e i monologhi cerebrali e ragionativi di un Cardarelli (Prologhi 1916) o le liriche aride di Cecchi («Riviera Ligure» 1915-1916), i distillati carnets rimbaudiani di Bacchelli (Memoria e Riepilogo, 1916); o anche, sul terrenopoetico, i canzonieri di Rebora o Sbarbaro o Bacchelli o Campana (quest'ultimo un prosimetro). Nella comune couche autobiografica, la specie più incisiva tende riconosciutamente verso la serrata analisi morale e metafisica, distanziato l'io in maschera astratta. Lo stile si specializza in direzione inventiva, ostentando l'equivalenza (rivoluzionaria) dei due registri di prosa e poesia. In molti casi si arriva a soluzioni espressionistiche (Boine, Rebora, lo stesso Jahier, a tratti Campana e Slataper). Questi caratterimolto generali (ma una mappa completa del genere, tra invarianti e variabili, resta ancora da allestire, nonostante recenti rendiconti parziali) risultano confermati dalla scrittura di Boine: cui non si negheranno infatti né frammentismo (esplicitamente teorizzato) né vocazione autobiografica né osmosi prosa-poesia né sperimentazioni di stile con violenti esiti espressionisti. Insomma, nonostante dissensi e rotture (famosa nel 1912 la querelle vociana Boine-Croce, che emarginò Boine dalla rivista e dal còté trionfante dell'idealismo prezzoliniano), Boine resta congenitamente congiunto con la cultura vociana. È poi seducentissimo motivo dell'epoca (e più in generale tipico tratto del lavoro delle avanguardie) il senso della collettività, la percezione di un'operosa coinè. Prova eccellente ne siano i carteggi: numerosissimi e altrettanto preziosi, non solo per la straordinaria ricchezza di dati, ma anche per il piacere autonomo della lettura: vivaci, combattivi, persino drammatici. Quasi che il catalogo delle opere non bastasse a esaurire la voglia di dire e di dirsi dei singoli, questa si espande a latere senz' argini nella sede libera della confessione epistolare: generoso dispendio di forze a chiarificazione di se medesimi, connettivo che sostiene, alimenta, accompagna, il la_vorodi questa generazione. Qui ci appoggeremo soprattutto al foltissimo epistolario Boine-Cecchi, indispensabile per seguire dall'interno le tappe di Boine nel giudizio e dell'autore e dell'interlocutore, amtctsstmi eppure diversi (audace e spericolato Boine, quanto Cecchi è guardingo, vigile, disciplinato). A Boine, ad esempio, che nel luglio 1914 ribadisce l'amicizia nonostante i contrasti, e interroga con candida urgenza: «Ma insomma s'io la penso come la penso come debbo fare per dirlo senza urtarti? Ed in ogni modo non dobbiamo perciò scriverci più?» Cecchi risponde ruvido, per una volta rompendo il riserbo: «Diavolo che non ci dovessimo più scrivere! Tu rappresenti tutto il mio prossimo ma seguitiamo così, senza guanti e franchi che è l'unico modo di non perder tempo». Franchezza dunque, anche durezza, un dibattito aperto quando non spietato regolano la corrispondenza dei due. Toni altrettanto acuminati e aggressivi circolano nelle lettere di Cardarelli a Cecchi (mancano le risposte). Basti citarne un significativo lacerto del 1911, non sprovvisto di autoironia: «So bene - si censura Cardarelli - che instaurare queste reciproche inquisizioni non è il miglior modo per mantenerci amici». Ma sbaglia: è proprio alla luce tempestosa delle «reciproche inquisizioni» aleggianti tra le splendide lettere, che si commisura il moralismo vociano, quella scintillante, eccitazione da sturm und drang, quella tensione verso soluzioni estreme e totali, di cui hanno l'aria a tratti di rimproverarsi a vicenda ma che tutti coinvolge con poche eccezioni. Non è un caso infine che tanta passione morale esploda in confronti epistolari così fitti, intensi, e risolutivi. Sgombrato il terreno da queste premesse generali e tornando a Boine, si diceva che egli compendia bene i tratti salienti della letteratura vociana. È noto che Boine, già autore tra il 1913 e 1914 di un lungo e intralciato racconto lirico-psicologico (Il Peccato), fu tra i più drastici negatori del romanzo addebitandogli di (citiamo quasi alla lettera da una recensione del 1914 a Clarice Tartufari, «La Riviera Ligure») «congelare [. ..} rifinire fotograficamente [. ..} ripetere la vita [..} sperperare narrativamente una emozione la quale, nuda, era un grido, un lamento, un bagliore, una interiore colorazione [. ..} basta signori scrittori, basta romanzi [. . .}. [. ..} Signori scrittori, siamo uomini: lasciamo la letteratura e facciam della lirica. [. ..}Io piangerò, griderò o starò zitto. Starò con, dirò la mia anima nuda. Non scriverò romanzi». Altrettando noto ma più specifico e singolare che in uno scritto estetico del 1912 (Un ignoto, «La Voce») connettesse la ripulsa del romanzo con l'indicazione di un nuovo stile, l'aforisma (ovvia e implicita la suggestione nietzscheana). Val la pena di risentirlo puntualmente in merito: «Se uno pensasse a scatti, gli scoppiassero dentro cose profonde come lampi senza alone, senza riverbero logico, senza ecn.eggiamenti di concatenamenti sillogistici, farebbe male a non darci come gli viene il pensiero suo, a scatti, a guizzi, a motti senza mettere tra l'un motto e l'altro un artificiale lavorio di apparente sistemazione. Vogliamo l'aforisma vivo non il rabberciamento di facciata secondo le regole solite [. . .} Dico che mi ripugna incarnare, (diluire, annegare, rabberciare, sfigurare, artificialmente trasporre), ciò che vive dentro di me senza incarnazione nessuna». Parole che illuminano su una gestione spregiudicata del genere aforistico, dove la trascrizione simultanea illimitata selvaggia del pensiero sconfigge ordine, logica, ragione in un deliberato caos, mimetico della discontinuità interiore. A questa stregua dunque Boine avrebbe forse potuto definire aforistiche le sue prose liriche 1915-1916 (aggiungiamo in parentesi che sulla cultura italiana dell'aforisma e della scrittura morale sarebbe opportuna una perlustrazione sistematica che risulterebbe particolarmente feconda proprio in area vociana). Le quali prose di Boine ci introducono nel vivo del suo laboratorio, e nel momento cruciale in cui si trattava di inventare uno stile alternativo al vituperato romanzo, in fase di transito e ricerca piuttosto che di assestamento e traguardo, mentre le sperimentazioni si incrociano, e gli strumenti del mestiere sono disparati. In questa stagione - strozzata dalla morte precoce per tisi (1917) - è utile termine di confronto il lavoro in fieri dei vociani più affini. Questo punto ci preme sottolineare: Boine non è un solitario, dentro le pagine effervescenti confezionate a Porto Maurizio leggiamo operosità e inquietudine di una generazione intera. Perciò se è vero - com'è sempre vero - che Boine va letto secondo Boine, parallelamente e ancor più ci piace insistere in una analisi non separata bensì intertestuale, affondata nel vivo di una coinè culturale. Ad esempio, certi vortici di stile, certa volontà di delirio, pur riferibili - com'è stato fatto - alla matrice religiosa e mistica rilevantissima nella sua formazione, trovano tuttavia un ancoraggio preciso nel caso Campana. Al polo opposto, il linguaggio raziocinante di altri pezzi rinvia ali'astrattezza metafisica di un Cecchi (e attraverso Cecchi di un Cardarelli). E and'rannopure registrate anche se più occasionali alcune interferenze ilari e fantasiste alla Palazzeschi e alla Soffici; o certi echi sbarbariani, o .certa ruvidezza popolaresca papiniana. Questi, in nudo schema, i molti ingredienti che affiorano sulla pagina. Certo l'effetto più travolgente viene da Campana, e si capisce: Boine era già di per sé attentissimo alle risorse ritmiche della scrittura, e tentato dal linguaggio trasgressivo e caotico più che da~'ordine. Ma prima di arrivare alla folgorazione-Campana, indulgeremo su un vasto ed eccellenteblocco di Frammenti («La Riviera Ligure», marzo 1915). È una sorta di diario morale segmentato in aforismi, dallo stile notevolissimo, poiché una stretta rete di iterazioni congiunge tra loro i paragrafi trattandoli alla stregua di cellule non isolate ma continue. Il testo risulta generato da poche parole-chiave riportabili a due antinomie fondamentali: il polo (negativo) dell'ORDIN E con le sue entità correlate (legge, nome, codice, società, ieri); e di contro il polo (positivo) del CAOS, con le sue categorie (oggi, individuo, attimo, anarchia, viaggio). ORDINE e INFRAZIONE (affrontati e guerreggiantisi, come molto spesso in Boine) sono le due forme-base la cui collisione elettrica ed elettrizzante dà vita a Frammenti. Si noteranno le misure secche e brevi, il ritmo incalzante, le sforbiciature - emotive più che logiche - prodotte da interpunzioni, parentesi e interiezioni. Oltre ai ganci assillanti delle parole-tema già individuate, un ordito più sottile e insinuante si deve ali'attenta combinazione di assonanze, consonanze, rime, anafore. Dei cinquantacinque Frammenti leggiamo a titolo di campione già significativo alcuni dei primi, in particolare quelli numerati 1, 3, 4, 5, 7, 9, 10 (nostri i tondi, nel tentativo di rilevare la fittissima tessiturafonica). 1. Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch'è. vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: «buona sera!» Allora d'un tratto, lì sul Corso, ch'è vuoto, m'imbatto stupito alle cose d'ieri e sono pur io una cosa col nome. 3. Mi fermi per via chiamandomi a nome, col mio nome di ieri. Ora cos'è questo spettro che torna (l'ieri nell'oggi) equesta immobile tomba del nome? 4. Tepido letto del nome, sicura casa dell'ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle gioie lontane. Nave sul mare. Zattera di naufraghi. Ma l'oggi è, via, come una cateratta aperta. Nubi cangianti nell'abissale cavo del cielo. 5. Tu resti saldo-piantato nell'ieri specula alta dell'oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome. Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo /'ordine giusto. Che tutte s'incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto. 7. Come faticoso vivere sul metro dell'ieri! Ma, bue al giogo, prosegui. L'oggi e /'ieri e pingue la stalla s'apre al fine del solco. 9. Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e ne~'ora della mia morte. Appena, il mattino, su mi isso dal/9 varia nube del sogno, mia madre dice piano «Giovanni» allaporta socchiusa, e, quasi, io sono di nuovo. 10. Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo - Tra la smarrita paura dell'ieri e l'oggi vissuto, ho messo a ponte il mio nome. La possibile linea di lavoro additata da Frammenti (forse un'innovazione del genere aforistico, movimentato dalla scaltrita tecnica ritmico-musicale) fu in realtà interrotta e intralciata dal fascino dei Canti Orfici che calamitò Boine sollecitandolo a sperimentalismi di tipo diverso. Un po' di cronistoria al proposito. 9 aprile 1915, a Cecchi: «Quel Dino Campana di cui mi parlavi non lo conosco affatto e vorrei vederlo. Puoi mandarmelo o farmelo mandare?» Cecchi, che segnala Campana all'amico, è però guardingo: legge «con attenzione» (parole sue) ma consente solo in parte: troppo distacco separa il suo bisogno di fermezza razionale dall'esplosione dei Canti Orfici. A Boine il volume arriva a tamburo battente, lo legge d'un fiato, dopo pochissimi giorni _neparla agli amici (così a Baldini, '?,1 aprile: «ho ricevuto il libro del Campana affastellamento di buio ciarpame con scoppi vivi di poesia« ecc.); in agosto ne scrive all'autore («parecchiepagine del suo libro mi diedero una febbre d'esaltazione che non perderò», 5 agosto), e soprattutto nell'agosto la «Riviera» ne stampa l'impetuosa recensione che batte e ribatte sul tasto del «gorgo canoro», del/'«allucinazione», della dissoluzione musicale, delle «morbosità fosforescenti», della «febbre». Non dubitiamo che sia proprio la rivelazione dei Canti Orfici a fruttificare i poco posteriori Delirii di Boine («Là Riviera Ligure», agosto). Nelle lettere a Cecchi l'autore vi allude già nel giugno, definendoli «un po' di febbre, riflesso in acqua mossa» (15 giugno); altrove li chiama tout court «stramberie» (10 luglio), altrove ancora li collega a un'«atmosfera di morbosa allucinazione» (21 luglio); a «uno stato sonnambolico», a un'ansia di «ritmo» (9 agosto). Le tangenze lessicaliparlano da sé: «febbre», «allucinazione», «morbosità», ecc.: sono le medesime parole usate per definire i Canti Orfici. La zona di sperimentazione Delirii/Canti Orfici è infatti la stessa: il «gorgo canoro» così acutamente denunciato in Campana, dove la seduzio- <:::!L------------------------------------------------------------------------------'
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==