Alfabeta - anno IX - n. 96 - maggio 1987

Mensile di informazione culturale Maggio 1987 Numero 96 / Anno 9 Lire 5.000 ,._ I • r/···• .., . Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in ltaly ... ......... i,,\.,,,.{~\.. ~··" •. ''¾,~ l '4•:· ,'V ~-~;,.,..' '.',~' 4·, ,\ ;,., > i ·"' ' .... . ··.,~··-·~- .~: ' .! "6: (. ' ~ .. .,.: :· : '·~ •• i_ •'.t . , :-. ,· :•-..~ 'J•. . ~: .. "'· .• . . . : l sto:Ricercatori &Co. (Mart1gnonLi,orenz1nCi,ataldi) •

~Novità Marsilio J. Giuseppe Zigaina PASOLINI E LA MORTE Mito alchimia e semantica del «nulla lucente» Un libro inquietante: la verità sulla morte di Pier Paolo Pasolini Saggi, pp. 160, con 26 ili. b/n f.t., L. 18.000 Shuichi Kato STORIA DELLA LETTERATURA GIAPPONESE Il mondo delle «dame di corte» di Kyoto, dei samurai e dei monaci zen dell'antico Giappone a cura di Adriana Boscaro Saggi, pp. 396, L. 38.000 Giacomo Noventa NULLA DI NUOVO E ALTRI SCRITTI (1934-39) Teoria filosofica e critica letteraria di un protagonista della cultura novecentesca a cura di Franco Manfriani Opere complete di Giacomo Noventa, pp. 724 circa, rilegato, L. 70.000 Nino Pirrotta SCELTE POETICHE DI MUSICISTI Teatro poesia e musica da Willaert a Malipiero Musica critica, pp. 300, L. 30.000 Joan Campbell IL WERKBUND TEDESCO I rapporti fra arte e industria in Germania dall'inizio del Novecento alla fine della repubblica di Weimar Polis, pp. 324, con 20 ili. b/n., L. 35.000 Alessandro Manzoni TUTTE LE POESIE (1797-1872) La produzione poetica di Manzoni riproposta per intero nella sua complessità di forme e di contenuto a cura di Gilberto Lonardi commento e note di Paola Azzolini Esperia, 2 volumi, pp. 272 e L. 22.000 ciascuno Ermete Trismegisto POIMANDRES Il misterioso testo di filosofia religiosa che ha fondato la storia dell'ermetismo a cura di Paolo Scarpi Il convivio, pp. 122, L. 12.000 ':!J&.''•tfr'J1· ~/fi··· Gianni De Michelis VERSO IL XXI SECOLO Idee per fare politica I giorni, pp. 244, L. 24.000 Giuliano Di Bernardo FILOSOFIA DELLA MASSONERIA La prima ricostruzione razionale del pensiero massonico Biblioteca, pp. 160, L. 15.000 Renato Brunetta Alessandra Venturini MICROECONOMIA DEL LAVORO Teorie e analisi empiriche Biblioteca di economia e relazioni industriali, pp. 520, L. 68.000 le immagindiiquestonumero L a rappresentazione di un oggetto fa parlare lo stesso oggetto al di là delle sue capacità linguistiche, al di là della sua volontà di esporsi in pubblico, di mettersi in mostra. Una sequenza di immagini intorno al medesimo tema svela un racconto che si ricompone e trova la sua trama, la sua ragion d'essere come prodotto autonomo, rispetto alle sue radici materiali e alla sua storia, solo nel momento dell'interpretazione, della lettura. In questo numero «Alfabeta» svela un racconto possibile che ha come protagonista il grande musicista di Pesaro, qui presentato attraverso una serie di ritratti, incisioni e fotografie: l'insieme di questo itinerario iconografico ripropone non solo il problema musicale Rossini, ma anche e, direi soprattutto, il significato culturale della ricostruzione che i contemporanei fanno delle gesta di un personaggio pubblico. In questo caso, l'immagine della musica di Rossini, che è musica labirintica, «senza centro» come scrive Luigi Ferrari nella presentazione del catalogo Rossini in posa, edito dal Comune di Pesaro - «che gli infiniti tracciati interni permettono tutt'al più di attraversare, mai di conquistare», si traduce e si sedimenta, provvisoriamente e parzialmente, in una sequenza visiva dove gli stessi tratti significativi del suo viso non sono sempre facilmente rintracciabili. Questa difficoltà non è un problema da ricondurre alle qualità pittoriche o fotografiche del!'artista, ma alla questione cruciale che riguarda la natura della rappresentazione, tema sollevato in un capitolo famoso di Arte e Illusione di Ernst Gombrich, dedicato alla caricatura, e ripreso dallo stesso auSommario Alessandro Dal Lago Gli equivoci della ragion pratica pagine 3-4 Polemica sull'estetica Gabriele Scaramuzza Giuseppe Conte Aldo Colonetti Francesco Leonetti pagine 4-6 Anna Panicali Analogia, discontinuità (Il demone dell'analogia,di A. Prete; La via eccentrica,di F. Masini;Abitare il tempo, di S. Moses) pagine 6-7 Frediano Sessi La violenza rivissuta (/ sommersi e i salvati, di P. Levi; Il raccontodi Peuw, bambina cambogiana) pagine 7-8 Prove d'artista Paolo Baratella pagina 9 Traduzione contemporanea: Georges Bataille L'arcangelica pagina 10 Da New York pagine 11-13 Da Mosca pagine 13-14 Cfr. pagine 15-17 Comunicazione ai collaboratori di «Alfabeta» Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) ogni articolo non dovrà superare le 4-5 cartelle. di 2000 battute; ogni eccezione dovrà essere concordata con la direzione del giornale; in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; • b) tutti gli articoli devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, L'inafferrabile volto di Gioacchino Rossini tore in La maschera e la faccia: «come sia possibile che esista un'identità di base nelle molteplici e mutevoli espressioni facciali di un singolo individuo, mutazioni che non si producono solo in base al variare delle emozioni ma anpelli e basette, anche dei baffi, i suoi sguardi, la posizione delle mani, addirittura, nei ritratti f olografici della vecchiaia, un Rossini con il parrucchino; insomma qual è il vero Rossini? «Generalmente noi cogliamo la maschera prima Mo/teni, disegnatore; G. Focosi, litografo,presso Vassalli,Milano, 1834 che a cambiamenti più durevoli in un ampio arco di tempo». Le riflessioni di Gombrich ci sono utili per cercare di comprendere i diversi Rossini, la presenza e la parziale assenza, per esempio, di caRicercatori & Co. Clelia Martignoni Niva Lorenzini Pietro Cataldi pagine 19-22 Rosella Prezzo Simbolo, ragione e follia (Gli equivoci dell'anima, di U. Galimberti) pagina 23 Isabella Pezzini Il linguaggio ha un sesso? (L'infinito singolare,di P. Violi) pagina 24 Renato Cristin La filosofia contemporanea di Schulz (Le nuove vie della filosofia contemporanea, voli. I e Il, di W. Schulz) pagine 25-26 Gianfranco Marrone Mitologie di Barthes (Mitologie di Roland Barthes, a cura di P. Fabbrie I. Pezzini; La littérature selon Barthes, di V. Jouve; Introduzione a Roland Barthes, di S. Lagorio; Roland Barthes, roman, di Ph. Roger) pagine 26-27 Gianni De Martino Incidents (lncidents e Fragments d'un discours amoureux, di R. Barthes) pagine 27-29 .. Ubaldo Fadini Giordano Bruno (La ruota del tempo, di M. Ciliberto) pagina 29 Sergio Benvenuto L'etica di Lacan (Le Séminaire. Livre VII. L'éthique de la psychanalyse,di J. Lacan) pagina 31 titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. La maggiore ampiezza degli articoli o il loro carattere non recensivo sono proposti dalla direzione per scelte di lavoro e non per motivi preferenziali o personali. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma larivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il cridi notare la faccia; la maschera in questo caso rappresènta le distinzioni immediate, le deviazioni dalla norma che distinguono una persona dalle altre. Ognuna di queste deviazioni che attragga la Massimo Marzi Schmitt su Hobbes (Scritti su Thomas Hobbes, di C. Schmitt; La malattia mortale del Leviatano, di J. Habermas) pagina 32 Franco Toscani Teologia della liberazione (La tunica lacerata,di G. Girardi) pagine 32-33 Kassel, il ritorno di Pound Conversazione di A. Porta con V. Fagone pagine 33-34 Paola Serra Zanetti Pittori nell'Ottocento (Ascoltare l'incenso, confraternite di pittori nell'Ottocento, di L. Falqui; Dante Gabriele·Rossetti. Vita, arte e poesia, di E. Schulte; Catalogo della mostra su E. Burne Jones, a cura di M. T. Benedettie G. Piantoni) pagina 35 Maggie Rose The Servant pagina 37 Giornale dei giornali Elezioni e recessione pagine 38-39 Indice della comunicazione Imbambolati davanti al teleschermo pagina 39 Le immagini di questo numero L'inafferrabile volto di Gioacchino Ros. 'ni di Aldo Colonetti In copertina A. Mailly, disegnatore terio indispensabile del lavoro intellettuale per Alfabeta è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, Alfabeta respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo nostra attenzione può servirci come segno di riconoscimento e promette di risparmiarci lo sforzo di una indagine minuziosa». Ecco, la galleria dei ritratti di Rossini, pur diversi sul piano delle qualità pittoriche e delle caratteristiche somatiche indagate ed evidenziate, ci permette, come scrive Gombrich, di riconoscere il personaggio, proprio perché colto nell'insieme dei suoi possibili modi di apparire. Noi, gli osservatori, una volta decifrata la persona, entriamo ed usciamo dalle sue rappresentazioni, in un gioco dove la conoscenza va sempre oltre la pura e semplice descrizione fisica della persona, di Rossini in questo caso; la copertina ci offre un Rossini inventore di suoni, con le note che fanno da contorno a un viso ispirato e attento a non perdere nemmeno una pur piccola possibilità di emissioni sonore. Se non ci fosse la maschera, l'effetto comunicativo sarebbe poco coinvolgente, si consumerebbe nell'indifferenza: sempre Gombrich, «chiaramente l'artista o anche il fotografo non potrebbero mai superare il torpore del!'effigie arrestata se non fosse per quella caratteristica della percezione che io ho descritto come la parte dell'osservatore. Tendiamo a proiettare vita ed espressione sull'immagine arrestata e ad aggiungere in base alla nostra esperienza ciò che non è presente». La maschera di Rossini è in parte il risultato di questa proiezione dell'interprete; solo così si può completare il riconoscimento e trasformare i ritratti, le incisioni, le fotografie, in segni del nostro tempo, necessari, come le parole, per ricostruire e tramandare la cultura di un'epoca. Aldo Colonetti alfabeta mensiledi informazioneculturale dellacooperativaAlfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese Maria Corti, Gino Di Maggio Umberto Eco, Maurizio Ferraris Carlo Formenti, Francesco Leonetti Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art director: Gianni Sassi Editing: Studio Asterisco - Luisa Cortese Grafico: Bruno Trombetti Edizioni Intrapresa Cooperativadi promozione culturale Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Pubblicherelazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttoreresponsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Rotostampa, Brugherio Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 50.000 estero Lire 65.000 (posta ordinaria) Lire 80.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 8.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431208 Tutti i diritti di proprietàLetteraria e artisticariservati

L'etica: un quasi nulla / 1 Gliequivoci _ della ragjgggopratica S ul finire di un secolo che ha visto ogni tipo di rivolgimenti, di superamenti e di crisi nella filosofia, ci è permesso ormai solo una valutazione generale, anche se paradossale: che le pretese universali del discorso filosofico sono cadute, e che ogni tentativo di ricostituzione della verità in filosofia deve prendere atto di questa iniziale difficoltà. Ogni rifondazione assume inevitabilmente le cadenze di una dichiarazione di impotenza. Le figure che hanno espresso, nel dibattito filosofico più recente, questa situazione sono fin troppo note, discusse (e usurate) perché sia necessario riprenderle. Ma si può fare un'osservazione su un fenomeno concomitante, e in un certo senso singolare: il ritorno di una filosofia della morale. Si direbbe quasi che la filosofia, preso atto della sua incapacità di ricostituire il discorso della verità nel campo del pensiero, abbia deciso di compiere un salto e di ritentare la sorte nel campo dell'agire pratico. È indubbio infatti che da qualche anno il fuoco del dibattito filosofico si è spostato sulle questioni etiche. L'impresa è impegnativa, se non altro perché contrasta con una retorica filosofica che sembrava ormai tranquillamente condivisa. Quelle che Ricoeur ha felicemente chiamato ermeneutiche del sospetto ci hanno insegnato da molto tempo che la cosiddetta evidenza dei giudizi morali era un'apparenza ingannevole: sotto la superficie della morale •si agitavano realtà molto meno nobili. In questo senso, chi aveva letto e abbandonato Marx, poteva rifarsi ora a Nietzsche e a Freud nella pretesa di negare ogni diritto di cittadinanza filosofica alla morale. E che cosa ha fatto in fondo Foucault, se non riprendere le indicazioni di Nietzsche - anche se in un quadro epistemologico mutato? Dalla critica della verità morale che si rovesciava nel suo contrario, o dalla trasvalutazione di tutti i valori, si passava a una critica per così dire relativistica. Non c'era più una morale, non perché il soggetto morale fosse falso, ma perché non era più pensabile un soggetto unificato, non perché l'idea di volontà fosse soltanto un trucco dei moralisti - o una giustificazione della pena - ma perché il mondo appariva l'arena di volontà plurime, cieche e rissose. Il ruolo di Foucault, o meglio del primo Foucault, è stato decisivo perché, nella sua ricerca genealogica, ha mantenuto lo spirito della critica nichilistica della volontà morale, pur modificandone radicalmente la forma e lo stile. Stabilito il carattere contingente e relazionale delle verità pratiche, Foucault ha suggerito implicitamente che i conflitti da cui risultavano tali verità sarebbero potuti andare diversamente. Ed ecco il successo politico delle sue indagini negli anni sessanta e settanta. Così, paradossalmente, uno dei distruttori delle nozioni sostanziali (soggetto, potere, volontà, ma anche desiderio, e così via) in filosofia, ha finito per suggerire che sì, forse, un'alterità fosse pensabile. E proprio su questa difficoltà, sembrano essere aperti gli interrogativi delle sue ultime ricerche. 1 Accanto ai filosofi post-nichilisti, che raccoglievano l'istanza radicale delle ermeneutiche del sospetto, sono sempre rimasti attivi quelli che potremmo chiamare i tutori della razionalità pratica in filosofia - gli autori che rientrano nella nebulosa nota come filosofia pratica: dall'ermeneutica trascendental-pragmatica di Ape! a quella comunicativa di Habermas, fino agli esponenti del neo-aristotelismo. Se c'è qualcosa che unisce tendenze filosofiche così disparate è la fiducia, questa sì trascendentale, nel consenso. Il caso di Habermas è veramente emblematico. Anche se un consenso comunicativo sembra empiricamente improbabile, dobbiamo tuttavia assumere la potenziale positività del consenso: è la realtà empirica della comunicazione che è deformata, mentre resta vera la pretesa alla ragione comunicativa. Insomma, il brutto ranocchio empirico della comunicazione non solo può sempre sperare di trasformarsi in un principe per un miracoloso bacio della principessa, ma egli sa della sua mutazione. Questo semplice saperlo ne fa un principe potenziale. E chi si affanna a negare questa struttura trascendentale è un neoconservatore (definizione che per Habermas si applica a Foucault, Derrida, Deleuze), perché vuole conservare la presente deformità, negando la luce trascendentale che traspare già nelle nostre tenebre. Alle filosofie pratiche, che partono da una nozione metafisica di verità, c'è così ben poco da obiettare, se non forse una constatazione banale, anche se decisiva: che l'agire pratico in atto e la struttura della comunicazione non sono deformati ma semplicemente plurali; e questo nel senso che, nel campo differenziato degli interessi umani, la comunicazione può raggiungere il consenso, ma anche escluderlo, sfociare nei conflitti ma anche risolvere i conflitti. Insomma, non c'è scontro tra luce potenziale ed ombra empirica, ma penombra, o mezza luce, e non esistono prìncipi o brutti ranocchi, ma esseri normalmente e umanamente compiuti nella loro incompiutezza. Assumere che la comunicazione sia infallibilmente distorta dal potere, dagli interessi o dalla cattiva volontà è indebito soprattutto perché nega la pluralità dell'esperienza. È questo assunto che fa cadere Habermas nell'ermeneutica del sospetto: soltanto che ai tradizionali rovesciamenti, la coscienza unificata di classe al posto dell'ideologia, o il «dir di sì» nietzscheano al posto della negazione moralistica, subentra una pretesa altrettanto illuministica ed empiricamente irreale~ che il senso della comunicazione, e per estensione dell'agire pratico, sia la «verità». S ullo sfondo di questi dibattiti, il merito principale di Jankélévitch, come appare nell'antologia di scritti sull'etica recentemente pubblicata,2 consiste nell'eliminare alcuni equivoci tramandati nel discorso sull'agire pratico. Il primo equivoco è che l'esperienza pratica possa essere codificata in una morale, e che il codice si articoli in un sistema di valori o di principi. E questo non tanto per una sfiducia nichilistica nei sistemi, ma per una devastante ironia nei confronti della funzione de-realizzante o, in termini più chiari, soporifera dei sistemi: «Dal . " I momento che c'è dilazione, tutte le speranze sono permesse, per l'amante che si sottrae come per il condannato a morte. Le ideologie, eludendo l'insorgere dell'occorrenza, passano lo sfumino sullo scandaloso accadimento. [... ] Per fortuna i miti escatologici del messianismo, speranze sociali o promesse religiose, 'Grande sera' o Giudizio universale, Pace perpetua o Città di Dio sono rimandate alla fine del tempo. L'internazionale sarà il genere umano, ma non subito, ma molto dopo, ma alla fine della storia, per non spaventare nessuno[ ... ]. La 'Grande sera' insomma è grande solo perché è sempre rimandata a una data ulteriore. Che brutto scherzo ci farebbe se le venisse in mente di essere per stasera, tra le cinque e le sette».3 Ironia, motivata dalla semplice constatazione che l'agire non si conforma a sistemi di verità (tantomeno filosofici), ma a scelte istantanee, che si presentano all'attore non nella forma di imperativi categorici ma di appelli immediati al suo giudizio pratico. Come dice Jankélévitch con una formula rapida e felice, il bene può essere pensato come qualcosa che deve essere fatto «seduta stante». Un ulteriore, importante equivoco, che Jankélévitch contribuisce a dissolvere, è il càrattere atemporale dell'agire pratico. Un sistema morale funziona come se avesse risolto il problema della temporalità. I valori o le regole pratiche vengono presentati come se fossero capaci di ri-orientare il tempo. Fin qui l'agire è stato cieco, ripetitivo, oscuro o dominato dall'interesse o dalla falsità. Ma da ora in poi ... In questo modo, ✓-~-. /J I ;,~ •• ;, ~t.") fiJ.. ,_ - ...__ '-1-i (, : 't Autore anonimo

l'urgenza dell'occorrenza viene sacrificata alla trascendenza. La buona coscienza sacrifica l'attualità - le richieste diverse e spesso contraddittorie che il presente pone incessantemente all'agire - alla desiderabilità e alla potenzialità. Da qui il carattere irrealistico, per nulla paradossale, delle filosofie pratiche, che vogliono intervenire con un sistema di prescrizioni, elaborato nello spazio separato del pensiero, nella concretezza contingente del presente. Elaborando un'idea di Simmel, di cui si mostra un allievo indiretto, Jankélévitch parlà dell'unica etica possibile come «legge individuale», una pretesa di assoluto che può incarnarsi solo nella particolarità della scelta presente. Ma forse l'equivoco più importante che qui viene smontato è l'idea che l'agire pratico, fare il bene degli altri e con gli altri, sia deducibile dalla buona coscienza, in breve da quel soggetto trasparente e illuminato che dall'epoca di Descartes pesa sulla nostra tradizione filosofica. Se all'inizio della traiettoria morale poniamo l'io-penso come istanza costitutiva del soggetto, trasformeremo delle regole intellettualistiche in regole pratiche. La trasparenza che il soggetto cartesiano pretende dal mondo si trasformerà in un'analoga pretesa nei confronti di se stesso (in fondo io esisto perché penso) invaderà il mondo come luce della ragione comunicativa. Non è possibile che ciò che io penso come giusto non si possa estendere agli altri ... E in questo modo la ragione diventerà la patetica sovrana di questo mondo, sempre ostacolata da sudditi riottosi o ribelli. Ma se invece l'atto morale viene individuato, come fa Jankélévitch, in atto istantaneo che risolve un conflitto, il soggetto è molto meno sicuro della sua giustizia. Il giudizio non è un atto di inaugurazione, assoluto come tutti gli editti, ma il risultato di una deliberazione interiore, possibile soltanto perché il soggetto accetta la sua cattiva coscienza e la combatte. L'atto morale che risulta da un travaglio, per quanto espresso in una scelta immediata, è infinitamente meno rassicurante della pretesa di applicare una volontà interiore e fondata. Il giudizio che sale da un processo contraddittorio e opaco pretende difficilmente l'obbedienza, non è per definizione totalitario. D estituzione della trasparenza del soggetto, de-intellettualizzazione della morale, pluralizzazione dei valori. In queste tre formule può essere sintetizzato un discorso sull'etica che in sé non pretende di essere normativo: «Ahimè! I valori non compongono tutti insieme né un'armoniosa architettura, né una repubblica intellegibile; i valori non formano una piramide il cui valore supremo coprirebbe e sussumerebbe i valori subordinati come il genere ingloba le specie e in modo tale che in quello si potrebbero leggere questi per trasparenza». 4 Ma destituire l'agire pratico da ogni riferimento al sistema, colpire al cuore la pretesa che l'etica possa intervenire nel mondo con il suo procedimento deduttivo, non significa predicare qualche forma di immoralismo. Significa spostare l'accento del discorso pratico dalla sfera delle norme a quella del giudizio, nel senso della Critica del giudizio di Kant (e del dibattito ripreso recentemente da Hannah Arendt oppure da Lyotard). Non si tratta di uno spostamento di poco conto. Ogni etica normativa, in filosofia come nelle scienze umane, traspone più o meno legittimamente un principio speculativo in un codice di comportamento. Non è indifferente che i due termini con cui indichiamo la regolazione dell'agire pratico, etica e morale, siano derivati da due parole, una greca e una latina (mores e ethos) che si riferivano a costumi acquisiti. Etica o morale sono eterni tentativi di fissare delle leggi che dovrebbero già esistere - ma che implicitamente e malinconicamente si riconoscono defunte o contraddittorie. Il pensiero speculativo agisce, quando pretende di trasporsi in un'etica, come surrogato di una giustizia che non c'è. Il pensiero si sostituisce ai costumi tramandati, pretendendo di fondarne dei nuovi. Ma questi costumi, come appare nelle etiche contemporanee razionali e comunicative, sono appunto meramente teorici, quando non sono surrogati di attributi di attività umane particolari o limitate, come l'utilità o l'interesse. I sistemi etici non possono che generalizzare o funzioni separate del pensiero o funzioni limitate dell'azione. Il passaggio al giudizio non generalizza regole già costituite nel travaglio empirico dell'esistenza, ma chiama questo travaglio alle sue responsabilità. Il giudizio non può essere per definizione una facoltà isolata o separata, né una facoltà parziale, ma si esercita sempre, di fronte a ogni occorrenza, e soprattutto si esercita con gli altri. Per quanto scaturito da deliberazioni interiori, il giudizio comporta scelte immediatamente comunicate, diviene immediatamente pubblico. Esso non solo risponde a un appello incessante, che è quello della particolarità concreta, ma si protende in un appello al giudizio degli altri. L'universalità del giudizio, diversamente dall'universalità delle ragioni pratiche, non è un presupposto trascendentale ma una conquista: la v~rità del dialogo e della comunicazione non sta all'inizio dell'agire pratico ma nella sua incerta conclusione. Infatti la fugace libertà del giudizio non si ancora a norme pre-costituite, a un'etica normativa, ma consiste nella Verantwortung, nella disponibilità all'ascolto e nella capacità di rispondere,5 cioè in quello che Kant chiamava lo «spettacolo» della vita. Note (1) Dominate infatti dal tentativo di ricostituire un soggetto nello spazio incerto ma positivo della relazionalità. Cfr. M. Foucault, L'uso dei piaceri, Milano, Feltrinelli, 1984 e La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 1985. (2) V. Jankélévitch, Trattato della virtù, Milano, Garzanti, 1987. (3) lvi, pp. 79-80. (4) lvi, p. 219. (5) H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik fur die technologische Zivilisation, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1984. Polemicsaull'estetica Prosegue il dibattito sull'estetica iniziato con la lettera di Stefano Zecchi («Alfabeta» n. 90, novembre 1986) e che ha ospitato interventi di Dorfles, Anceschi, Leonetti sul n. 92 (gennaio 1987) e di Givone e Rella sul n. 94 (marzo 1987). Seguiranno altri contributi. Lo spettro dell'idealismo Gabriele Scaramuzza A proposito del dibattito seguito alla conversazione tra Anceschi, Colonetti, Dorfles, Sassi, e a un intervento di Zecchi: dà un senso di sollievo che, magari provocatoriamente, questioni di valore tornino sul tappeto. Troppo a lungo è rimasto chiuso negli armadi della nostra cultura (non vi è ancora scomparso, vedo) lo spettro dell'idealismo. E idealismo, in estetica, ha voluto tra l'altro dire ancoraggio della realtà artistica ai suoi esiti più nobili (nelle arti belle della tradizione, nelle arti maggiori); o comunque una sorta di aristocrazia estetica che rinchiudeva l'arte - e gli studi sull'arte - nella serra delle grandi opere, isolandola nei suoi momenti di più alto, autonomo valore. Il problema della descrizione di un certo campo veniva schiacciato sul problema della determinazione di ciò che in esso è valido: per dirla con Utitz, la questione dell'essere dell'arte veniva tout-court identificata con quella del valore artistico. E la conseguenza era che risultava compromessa la possibilità di capire vasti ambiti di fenomeni, e mutilata la sensibilità per i valori potenzialmente in essi racchiusi. Comprensibile quindi che l'insofferenza verso certi schemi «idealistici» si fosse fatta grande. Tanto grande da passare qualche volta il segno, da rischiare di buttar via il bambino con l'acqua sporca: il terrore di ricadere nei vecchi vizi ha favorito inaccettabili livellamenti, sorretti magari da non sempre comprensibili nostalgie scientiste. Si sono prodotti ostracismi perniciosi: i valori si sono ridotti a presupposti di cui tacere, o sono stati rimossi con fastidio - o, semplicemente, sono passati di moda nei discorsi degli addetti ai lavori. Quando non sono stati fatti segno di un disprezzo degno di miglior causa: altro era sempre ciò che «davvero importa». Giuliano Briganti ha una volta, ricordo, su «Repubblica», efficacemente stigmatizzato questa sorta di mortificazione della sensibilità (quando esisteva, quest'ultima) per i dati qualitativi dell'esperienza artistica, esibita da taluni cultori, a vario titolo, di arte. Da molto tuttavia alcuni miti sono stati sfatati (e lascio in sospeso se non sia tuttavia il caso di riesaminare qualche ragione che stava alle loro origini; neppure l'idealismo era tutto lì). Già qualche decennio fa, con Banfi, la democrazia estetica aveva fatto una sua prima comparsa in cattedra anche da noi. Banfi parlava di un'artisticità diffusa, irriducibile ai sublimi esiti della grande arte; e difendeva tra l'altro i diritti dell'arredamento e della grafica, delle cosiddette arti minori, citava il disegno industriale come un rilevante aspetto di tale artisticità. E per chi si fosse formato a non patrie consuetudini di pensiero già il discorso non era nuovo. Da tempo è noto-quanto meno da Dessoir, se non altro da Mukafovsky - che è legittimo, in qualche contesto sicuramente proficuo, teorizzare delle realtà artis_tiche senza fare riferimento ai valori in esse coinvolti. Lo sapevano Riegl e i formalisti russi, lo sapeva bene Ingarden; dopo di loro l'hanno saputo tutti (o quasi). Ci siamo assuefatti a considerare il mondo artistico come un mondo dotato di specifici tratti caratterizzanti - minimi denominatori comuni a tutti i suoi oggetti, Faust o Misteri di Parigi che fossero - rispetto ai quali certe precostituite differenze di valore risultano irrilevanti. Tutto questo ha dato buoni frutti, ha aperto nuovi orizzonti all'esperienza estetico-artistica; indietro non si può tornare. Anche tuttavia si sapeva (si sarebbe sempre dovuto tener presente) che una circostanziata messa tra parentesi della questione dei valori non implica alcuna loro irrimediabile scomparsa. Che si poteva, si doveva comunque riflettere anche su quella ineludibile dimensione della nostra esperienza artistica (e non) che sono i valori - Ingarden l'ha fatto, Mukafovsky anche. Senza confonder di nuovo le carte, certo, senza assolutismi, senza improbabili gerarchizzazioni (del tipo, appunto, un mobile riuscito vale sempre e comunque artisticamente meno di un Picasso). Le differenze di valore esistono, la sensibilità per esse dovrebbe far parte del normale bagaglio di chiunque abbia a che fare col mondo artistico. Non si vede perché il prenderle in considerazione debba necessariamente reintrodurre i fin troppo deprecati scempi dell'estetica von oben. Spostare l'attenzione da ciò che accomuna gli eventi entro un certo ambito a ciò che li diversifica (non solo descrittivamente, ma anche quanto al valore) non risponde a un impulso di cui vergognarsi; la passione per le differenze può non essere meno intensa di quella per ciò che unifica. Ancora, scorgere positive possibilità di valori estetici o artistici anche su terreni inusitati, lontani da quelli dell'Arte con la maiuscola, non implica affatto che non pregiudiziali dislivelli di valori vadano aboliti. E infine, chiedersi cosa possa diversificare Das Lied von der Erde da una buona poltrona non implica alcun disprezzo per le poltrone. Non si vede perché debba implicarlo, in nome di quale strano estremismo culturale, per cui tra il silenzio sui valori e un loro uso dogmatico, tra assoluto valore e assoluto disvalore non si darebbe alternativa. E d'altronde l'oscillante relatività dei valori tipica del nostro mondo non esime comunque dalla scelta e non può abolire le preferenze; non è il caso di serbar rancore alle poltrone se difficilmente esse procurano le intense emozioni dei Trakl-Lieder. Ma sono in gioco qui differenze che vanno comunque ben tenute presenti. Goethe invece che Newton Giuseppe Conte Cara redazione di «Alfabeta», sono venuto a conoscenza della polemica suscitata dalla lettera di Stefano Zecchi a proposito della funzione dell'estetica; e vorrei dire anch'io una cosa o due, molto semplicemente. Prima di tutto, credo che per decidere se Zecchi ama o no l'arte, sia opportuno vedere come ne parla nei suoi libri, visto che ne ha scritti, e parecchi, per di più. Ora, in La magia dei saggi (Milano, 1984), incentrando il proprio discorso su Blake (la visionarietà rivoluzionaria), su Goethe (l'organicità della natura) e su D.H. Lawrence (l'utopia dell'eros), Stefano Zecchi ha fatto ciò che nessun filosofo fa più: ha innestato il suo pensiero, che è di matrice fenomenologica e blochiana, sul tronco della ricerca artistico-letteraria, ed ha incontrato il movimento vivente della poesia nel tentativo di rileggere oggi le fonti del Romanticismo, le forme del mito, il linguaggio dei simboli e della bellezza. Una posizione così è certo più comodo ignorarla o distorcerla che prenderla in seria considerazione. E invece occorre proprio vedere quanto di serio, di terribilmente serio, c'è sotto la contrapposizione, allegorizzante e mondana, tra un Van Gogh e un termosifone. Almeno, io ci vedo la contrapposizione tra due diverse generali idee estetiche: la prima che fa nascere l'opera d'arte da una necessaria energia mitico-spirituale, la seconda che tenta di ridurla a un manufatto, a un oggetto semiotizzabile senza nessuno spessore di mistero, sottratto a ogni rapporto con il Cosmo e il Fato: non c'è dubbio che un termosifone incarni in maniera araldica questi requisiti, per quanto possa tener caldo, e dunque restarci prezioso e caro. Sono proprio due visioni del mondo, due mentalità, due scelte: non c'era una volta chi trovando aulica la parola «poeta» voleva sostituirla con «operatore poetico»? Idee che hanno fatto strada, non nella cultura, ma presso gli Assessorati alla Nettezza urbana, che si avvalgono ora di «operatori ecologici». E invece che cosa di più nobile ed eroico del termine «poeta» come lo usa Shelley nella sua somma Difesa della Poesia? Da tempo lavoro perché un'idea mitica della letteratura ritorni; e le discussioni con Stefano Zecchi hanno spesso alimentato il mio lavoro, trovando dei punti di convergenza che forse quando eravamo studenti alla Statale e abitavamo tutti e due al Collegio di Sesto San Giovanni non avremmo immaginato: Lawrence, Goethe, il Romanticismo ... Ho lavorato per riportare dentro il corpo della letteratura le figure della Natura, delle Divinità e del Destino (L'Oceano e il Ragazzo, Milano, 1983, Equinozio d'autunno, Milano, 1987). Molti, con un facile atteggiamento liquidatorio non hanno voluto vedere che dietro ognuna di quelle figure c'era un'idea, una cultura, una proposta: Goethe· invece che Newton, Hillman e Vernant invece di Freud e Lévi-Strauss, Marsilio Ficino invece degli aristotelici, Lawrence invece di Joyce, Spengler invece di Marx. Ero tacciato di dannunzianesimo, tra le righe di hitlerismo; come nel '::!- caso di Zecchi, è più facile proce- c:::s .:; dere così che interrogarsi su ciò ~ che muta. Ma ora vedo che queste c:i.. I'-.. figure cominciano a essere sac- ~ cheggiate dai più insospettabili: ....., non sono più kitsch? ·a Certo, tutto appare degradazio- ~ ne a chi è degradato, tutto appare E volgarità a chi è intimamente voi- ~ gare, e tutto appare impossibile a I:! chi è impotente. Non credo che ~ Dorfles - di cui sono stato allievo ~ ~ anch'io- immaginasse l'uso censo- ~

V) <:::! rio e normativo che altri avrebbero fatto del concetto messo in giro da lui. Ma tant'è: anche oggi preferirei ·essere sospettato come kitsch piuttosto che essere stimato come termosifone. Il design è una trappola Aldo Colonetti Ogni polemica culturale è sempre il risultato dell'emergere o del riemergere di un nucleo teorico, intorno al quale il confronto delle idee è ancora aperto e il sistema, il modello attuali non rappresentano altro che tentativi di una progressiva approssimazione per definire i confini disciplinari o, addirittura, il concetto a cui fanno riferimento tutti coloro i quali partecipano alla produzione delle idee. Nel caso specifico del dibattito dedicato alle arti, o meglio, al sistema delle arti e alla loro rilevanza teoretica, è abbastanza indicativo il fatto che è stato sufficiente reintrodurre nella dimensione estetica il problema del progetto, in particolare un oggetto ambiguo esteticamente e semanticamente come il design, per ritrovare voci, riflessioni, filosofie che pensavamo, onestamente, sepolte alla luce sia della produzione artistica e degli artefatti comunicativi, sia, soprattutto, di tutte quelle interpretazioni sempre meno provinciali e sempre più pluridisciplinari. A questo punto, evitando polemiche dirette che hanno sempre il sapore di conti personali aperti, più che di contributi diretti al chiarimento del problema in discussione, vorrei fare alcune riflessioni, a mo' di tesi, sviluppandole· dalla prima domanda che sorge, allorquando nasce la necessità di distinguere, separare arte da non-arte, esperienza estetica da esperienza comune: «Come da tempo abbiamo appreso, l'arte offre soddisfacenti sostitutivi per le più antiche e tuttora profondamente sentite rinunce imposte dalla civiltà e contribuisce perciò come null'altro a riconciliare l'uomo con i sacrifici da lui sostenuti per questa. Nell'attività della fantasia l'uomo contribuisce dunque a godere di quella libertà dalla costrizione esterna, alla quale ha rinunciato da lungo tempo nella realtà». Come scrive Freud, la specificità dell'esperienza artistica sta al di là di ogni fondazione e definizione successive, funzionali esclusivamente ai modelli ideologici corrispondenti. Non si vuole qui, riportare la fondazione dell'attività artistica al di là del principio di realtà, proprio perché sarà. la realtà poi a sedimentare,- concretamente, i soddisfacimenti, trasformandoli in forme, in oggetti: si desidera soltanto escludere .dalle nostre riflessioni, ogni forte riferimento a un criterio e.a una organizzazione gerarchica delle arti, perché questo • significherebbe preordinare l'esperienza estetica all'interno di un modello interpretativo, modello che invece viene sempre dopo. L'emozione estetica varia, variando i codici, storici e antropologici, dell'interprete; per cui, ogniqualvolta qualcuno, operando comparazioni più o meno pretestuose tra un oggetto d'uso pratico e un altro di apparente inutilità pratica, costruisce paradigmi più o meno autorevoli, non fa altro che proporre se stesso, la sua cultura, il suo orizzonte d'interessi indivi- .s ~ duali, come criterio di orientat:l.. mènto generale. «Un oggetto d'arr---- ~ te per definizione è un oggetto ri- -. conosciuto come tale da un grup- .9 po»; secondo questa affermazione ~ <:::! di Marce! Mauss è possibile indiviE: duare un'esperienza estetica non ~ necessariamente là dove ci si i::: aspetta di trovarla, anche se è ij chiaro, che questa riflessione non l è sufficiente per fondare «un crite- ~ rio logico che permetta di decidere su quale base avviene il riconoscimento e, di conseguenza, la discriminazione tra oggetti riconosciuti come tali e quelli che non lo sono» (H. Damisch). Tuttavia questa definizione, di carattere socio-antropologico, ci potrebbe essere d'aiuto, per evitare cristallizzazioni di pensiero e atteggiamenti che si rifiutano di estendere l'orizzonte estetico a un altro parco di oggetti: nel museo immaginario dell'arte, c'è la totalità degli oggetti che gli uomini hanno definito, via via, nelle diverse storie e nelle diverse aree geografiche, con il termine artistici; è ancora possibile, allora classificare e distinguere arte da non-arte, il bello dal brutto, attraverso alcune categorie interpretative che non si richiamano né al soggetto né ai materiali e ai procedimenti, ma esclusivamente a una pretesa iperteoreticità metastorica e per questa ragione mai controllabile? Coloro i quali giudicano, spesse volte si richiamano, più o meno consapevolmente, a una tradizione, a una «formazione artistica, più o meno istituzionalizzata, la cui finalità prevalente consiste nell'inculcare nel maggior numero Autore anonimo di soggetti sociali un particolare regime di preferenze estetiche». Non è questa una condanna sen- . za appello di chi giudica, perché tutti giudichiamo e tutti siamo portatori, o comunque, propositori di norme; la riflessione di Tomas Maldonado esprime una concreta preoccupazione nei riguardi di quella cultura che disprezza, con un atteggiamento aristocratico pre-industriale, tutto ciò che circola, esteticamente, nei prodotti di massa, nelle merci. Non sempre gli strumenti culturali di un'interpretazione, chiusa all'interno di una circolazione delle idee che si autoalimentano, sono in grado di risalire da un qualsiasi prodotto, magari un calorifero, alle sue radici colte, che sono presenti, anche se non appaiono alla luce di una lettura superficiale, nell'itinerario progettuale che ha portato a quel particolare oggetto; l'oggetto-industriale deve essere letto e interpretato non solo nelle sue funzionalità pratiche, semantiche, ma anche come prodotto nella sua dimensione generalizzante di programmi, di tensioni, di testimonianze estetiche, che vanno al di là della sua evidente, chiara e palpabile, praticità. Credo che si sia conclusa l'era di quei filosofi dell'arte che in virtù di un discorso espellevano, dalla riflessione che ha come oggetto l'arte, tutto ciò che non rientra nelle proprie tradizioni disciplinari, in genere tradizioni che difficilmente attraversano altri campi del sapere, altre zone culturali poco frequentate perché ritenute solo strumenti tecnici e non produttori di poetiche, di un'estetica di massa. Ogni oggetto che desta la nostra attenzione, perché la sua forma interna evade da una grammatica costituita, deve essere, comunque, analizzato, non solo per quanto riguarda la sua str~tta ed evidente funzionalità, ma anche per ciò che esso rappresenta esteticamente nel parco degli altri oggetti, simili sul piano di una stessa funzionalità pratica. Già il solo fatto di scegliere per l'acquisto, o anche come luogo di attenzione e curiosità intellettuale, un certo oggetto, è indicativo e sintomatico di come la nostra intenzionalità operi sempre oltre il puro e semplice dato fenomenico: «Una cosa che si presenta ora, concretamente, come colore, indica il suo possibile modo di rappresentarsi come superficie; una rappresentazione sonora è indice di una rappresentazione visiva; un lato è indice del modo di presentarsi degli altri; una presenza attuale è indice delle presenza che permane nella intenzione, del modo in cui si presenta l'appena passato, del modo con cui si presenta il già passato che viene rimemorato, del modo con cui sarà percepito se mi muovo in un senso o in un altro, in disaccordo o in accordo con tutti i modi di rappresentazione». Questa apertura fenomenologica così espressa da Enzo Paci, nel suo Funzione delle scienze e significato dell'uomo, ci consente di non precludere la nozione di arte a ciò che oggi non si definisc_e tale, e, contemporaneamente, ci stimola ad osservare il mondo degli oggetti da più parti, avvicinandoci o allontanandoci; ci invita a cogliere il particolare nell'universale, o l'insieme delle parti come il prodotto di un'attività comune, diffusa e omogenea. Il compito di un interprete colto è, appunto, quello di anpare oltre, e non trasformare la pfopria sfera pratica in una dimensione estetica, ritenuta sufficiente per decidere chi e che cosa stia dentro e chi e che cosa stia fuori rispetto al proprio contenitore colto. Questo, infatti, è un atteggiamento di falsa scientificità, che trasferisce il proprio gusto dalla sfera privata sul piano di un preteso modello teorico: un'opera non è,estetica in sé, e neppure per la proprietà del sistema simbolico in cui parla; essa diventa arte per via di una prescrizione esterna, di natura storica e culturale. La prescrizione esterna, non significa altro che una serie di avvicinamenti teorici all'oggetto, utilizzando tutte quelle discipline che ci consentono di orientarci nel sistema delle realtà artificiali, senza né chiudere gli occhi sulla posizione artistica, né dichiarare decaduti alcuni strumenti culturali che fanno parte della storia delle idee e quindi sono anche all'interno, pur parzialmente, della forma degli stessi oggetti. L'invito ad una apertura interpretativa, potrebbe articolarsi (anche se, per evidenti ragioni, il discorso può apparire oltre che sintetico, un poco dida-. scalico, ma forse qualche volta è· necessario essere didascalici) secondo questi punti o tappe di.avvicinamento: 1. La prima operazione da fare intorno a qualsiasi ogget.to non è quella di tipo ermeneutico, ma quella di una sua corretta contestualizzazione storica: solo così è possibile evitare confronti non solo tra Van Gogh e il calorifero (di questa strana relazione parleremo più avanti), ma tra Van Gogh e Giulio Paolini, per esempio. 2. È necessario poi relazionare l'oggetto con il proprio spazio, o con altri eventuali spazi, nei quali la sua funzione possa o mantenersi o dissentire rispetto a quella tradizionale: il calorifer9 non ~erve nei paesi tropicali, ma proprio lì potrebbe assumere un nuovo, straordinario, valore estetico. Attenzione quindi a giocare con gli oggetti di casa; come scrive Heidegger, a proposito della scultura, «il gioco di rapporti di arte e spazio dovrebbe essere pensato a partire dall'esperienza di luogo e contrada. L'arte come scultura: non già una presa di possesso dello spazio». 3. A questo punto l'avvicinamento all'oggetto dovrebbe tradursi in una lettura deJ!e parti costituenti di esso, del suo linguaggio; qui è necessaria una competenza dei singoli linguaggi attraverso i quali si esprimono le diverse arti, altrimenti ogni altra interpretazione, indifferente agli aspetti tecnici dell'oggetto, non farebbe altro che, consapevolmente o inconsapevolmente, affermare l'inesistenza o la rilevanza dell'opera d'arte. 4. Solo a questo punto può nascere e svilupparsi un'esauriente lettura dell'opera d'arte e, soprattutto, è possibile proporre una filosofia dell'arte che non neghi al fare la sua autonomia intenzionale, ma che, invece, contemporaneamente e parallelamente alla produzione artistica, cerchi di individuare come si sono succedute le diverse tappe di avvicinamento che hanno, poi, portato a.quell'esito formale particolare. Analizzandolo dal di dentro, si potrebbe anche scoprire che un calorifero, con alcune caratteristiche temporali spaziali linguistiche, sedimentate poi in una forma, in un disegno particolare, sia migliore di un «qualsiasi» Van Gogh. Tutto il resto è letteratura attraverso l'arte, intendendo quest'ultima esclusivamente come occasione di riflessioni e di esercitazioni più o meno pretestuose; l'onnivorità di una filosofia -dell'arte e di un'estetica senza alcuni controlli disciplinari, può far dire di preferire una landa deserta a un sistema di comunicazioni, di trasporti, chiaro ed effici(ènte: ideologia per ideologia, preferisco vivere nella modernità ,di un progetto di Bob Noorda. Riflettendo intorno alla funzionalità progettuale diffusa e le arti artigianali, Dino Formaggio giustamente scrive che «due sono le conseguen- . ze alle quali ogni attuale teorizzazione dell'arte non sembra che possa sfuggire: la prima è che l'arte debba essere sempre in ogni suo punto considerata come funzionale [... ]; la seconda, porta al ritrovamento di un principio di individuazione e di specificità altrettanto dinamico e pluralistico del modello ipotetico in cui l'arte viene considerata, speciaimente per descriverne comprensivamente le sue concrezioni particolari». L'artisticità transita dovunque, anche laddove meno te lo aspetti; bisogna saperla cogliere con gli oc- : chi attenti in ogni sua concrezione particolare, e non affidarsi, troppo ciecamente, ai propri occhi colti ma anche distratti dalle parole della cosiddetta tradizione alta. Il de- .sign è uno di questi luoghi' progettuali apparentemente semplici, ma che ,fanno cadere facilmente in trappola chi pensa di sapere e, so- .prattutto, di avere già definita la . propria bussola estetica. L'oggetto è. sempre più complesso di ogni pensiero, di ogni classificazione: parafrasando Hegel, trovare nomi agli oggetti è facile, ma molto più difficile e rischioso è pensare gli oggetti (soprattutto oggetti nuovi o che conosciamo poco) attraverso i concetti, non limitandosi a trasferire, sugli stessi oggetti, definizioni già codificate e sedimentate. Quindi, attenzione a trasferire il giudizio estetico sul proprio cucchiaio alla città, soprattutto perché nella città non ci sono solo cucchiai, e quando ci sono, possono esprimere la propria funzionalità attraverso linguaggi che non sempre siamo in grado di riconoscere, se ci limitiamo a tradurre definizioni dal vecchio al nuovo, dall'antico al moderno. La rarità di alcuni oggetti potrebbe trasformare il calorifero in un'opera d'arte funzionale, più calda, anche sul piano simbolico, di una tela di Van Gogh.

E perché non leggere Breton? Francesco Leonetti l. I puntigli. Io ritengo che i puntigli, le impuntature e i silenzi, non siano secondari nel dibattito intellettuale. Vale dunque la pena di capire o di cercare in essi, buttando via ogni aspetto personale e anche di mera irritazione. Leggo dunque Sergio Givone che scrive: «Fra un Van Gogh, magari neppure visto ma solo sentito raccontare da Heidegger, e un bel termosifone» passa pur sempre «una differenza». Su questo inciso, ho da dire che è meglio sentire Heidegger raccontare Van Gogh, magari in un bosco, leggendo; tuttavia è impossibile non averlo visto in qualche museo, oppure nelle molte riproduzioni di scarpe da contadini che sono nella stessa edizione italiana di Derrida, La verità in pittura. Ogni battuta in proposito è dunque virtuosistica. E tuttavia Derrida stesso si ripiglia da Meyer Schapiro, sulle stesse scarpe, per interpretare «l'ingenuità del riferimento monoreferenziale di Heidegger». Secondo Schapiro, infatti, «Heidegger sa benissimo che Van Gogh ha dipinto più di una volta scarpe come queste, ma non identifica il quadro che ha in mente, come se le differenti versioni fossero fra loro interscambiabili, in quanto presentano tutte la medesima verità». Il lungo saggio in forma di dialogo approfondisce con acume st~aordinario questa disattenzione specifica di Heidegger. (Né io me ne dico soddisfatto, in quanto dalla data del saggio, 1968, ad oggi emerge a mio giudizio un ulteriore interesse per il tema di Heidegger, il rapporto tra !'«uso» e !'«arte» - scarpe dell'uso e scarpe deU'opera d'arte - che è diverso da quello posto da Duchamp stesso, e potrebbe essere indagato.) Ma il nostro tema è dunque la disattenzione del filosofo verso le arti visive? Mi pare che sia piuttosto questo ... Non lo rimprovereremo come già ha fatto Schapiro: a Hegel, a Croce, a Lukacs, a Heidegger... Quando in uno scritto precedente per «Alfabeta» Stefano Zecchi ha visto certe opere recenti, ha invece precisato con lucidità di definizioni la situazione de1l'arte oggi, da1la fine del concettuale, difeso da Beuys o da Paolini, al neoespressionismo di Kiefer e Baselitz e a quello di Paladino. Oggi è addirittura cresciuta - ne11a prossimità della dominanza dei nuovi media - la necessità dell'occhio attento all'invenzione visiva con tutte le sue tensioni e i suoi limiti. 2. Il grande tema. Né indubbiamente c'è più un forte rilievo nella differenza tra l'arte maggiore (pittura e scultura) e le altre arti: il carte11one di Toulouse Lautrec, l'affisso della mostra con le date di essa, il cinema e il fotomontaggio, ecc. Esattamente come non c'era differenza di live11oforte ne11astoricità fra i maestri dei cassettoni nuziali, i miniaturisti dei codici, e le botteghe dei pittori ... E anzi a chi sfoglia l'opera collettiva guidata da Federico Zeri risulta con sorpresa che uno scritto compatto, relativo ad una grande personalità di artista, non c'è. Essa emerge più volte ne11eoperazioni sue e nei diversi contesti: sempre in immagini in bianco-nero, per culto di Baudelaire e Benjamin che pure questi orrori del colore non videro neanche, gli bastarono le fotografie ... Ora, tutto ciò non viene particolarmente dal disegno industriale, dove Givone con molta giustezza vede presente per lo più «la be11a mossa promozionale», con un suo e nostro «filo d'angoscia». Tutti sappiamo bene che il buon design, e il dibattito complessivo sul progetto, provengono dal tentativo della modernità di controbattere la produzione seriale. La perdita di autenticità che la produzione seriale induce, e che la critica materialistica non vulgata (a cominciare da Benjamin) evidenzia come parcellizzazione del lavoro a Iive11ode11e idee stesse, trova il proprio avversario nel tentativo, funzionalistico a tratti, e a tratti R. Cazes, disegnatore; firma illeggibile del litografo archetipico, della progettualità sia neU'urbanistica che nel disegno industriale. Ciò, come sappiamo, non riesce tuttavia a rovesciare la perdita. Anche in buoni prodotti resta un elemento ottimistico e stereotipo, apparentato a11e«controfinalità de1la ragione», che sono una scoperta di Adorno: la città del futuro è mostruosa, benché fondata su11arazionalità. E ciò investe oggi le arti e le lettere: nell'informatizzazione, dunque, e fino almeno a quando essa non trova altre coerenze, eresce la perdita che ha colpito la sedia impagliata deU'artigiano classico con la sua globalità impareggiabile. Si deve tenere conto ora che la mescolanza di operazioni di vario live11oartistico di cui si usa far storia, oggi, non proviene da una pura prepotenza di alcuni fattori, ma dal criterio storiografico stesso che. da11e «Annales» in poi riguarda tutti gli aspetti di una civiltà come fra loro connessi. E caratterizza tale civiltà come dotata di una sua propria e complessiva «mentalità»: che a noi sfugge, che ci occorre interpretare, a cui ci è possibile aggiungere, in cui dobbiamo scegliere, ecc. Mai il ritorno ai classici fu così difficile come oggi. 3. Un esempio. Ne11a nota situazione che ho qui indicata per accenni, a me pare che il grande tema dell'Estetica come disciplina (che ha nome strano e vecchio come altre) potrebbe essere, o sarebbe utile che fosse, fra altri: il nesso tra i filosofi, che elaborano concetti, e i teorici di movimento, che più strettamente «vedono» il lavoro letterario e artistico in corso. (E mi pare che taluni rilievi di Cacciari, già, e recentemente di Vattimo su certi film di «utopia post-apocalittica», operino in questo senso.) Sto leggendo a scuola la discordanza feroce tra Freud e Breton, sempre da loro ovattata. Nell'ampia ricostruzione della Bandini' trovo che il termine bretoniano di «automatismo psichico», pur essendo apparentato a11«' automatismo psicologico» di Pierre Janet, non ne deriva semplicemente. La Bandini si rimette a un saggio di Starobinski che segnala un riferimento a Myers. Se riprendo in mano l'ecceUente s~ggio di Gombrich Freud e l'arte2 mi pare che egli sia convincente nel sostenere, sulla scorta di Kris, che le avanguardie di prima della guerra hanno assolutamente voluto ignorare la stretta separazione fra l'inconscio e le altre istanze (e hanno dunque mantenuto nell'espressionismo l'influsso di Nietzsche e quindi forse quello di Jung e di altri). Io ritengo che la circolazione continua fra i campi della cultura, e particolarmente fra il discorso teoriéo e le operazioni dei movimenti d'arte (dove agiscono i Breton come i Motherwell o i Rosenberg) e quelli stessi di letteratura, sia sempre una grossa posta. In una recente prefazione di Segre allo Schapiro3 leggo che gli proviene dalla scuola iconologica il sentimento di una parziale traducibilità fra i linguaggi verbali e visivi: e perciò a11oSchapiro l'opera d'arte appare «implicata in una rete di riferimenti, tesa fra le leggi de1la visibilità (mode11i introiettati ne11apsicologia del vedere) e le proposte del contesto culturale» filtrate dall'individuo storico che è l'artista. M'importa semplicemente ciò. E un giovane artista deve essere capace di stabilire un suo statement (mentre è strano che a uno scrittore non sia richiesto). E mi pare che presso Dorfles il punto di non equilibrio, disarmonia e originale equilibrio, in tema di estetica e arte generalmente inteso, abbia un'incalcolabile virtù continua di approssimazione: permettendo di effettuare il proprio statement a chi mira a raccogliere dai due versanti, la ricerca specifica e la ricerca teorica. Note (1) M. Bandini, La vertigine del moderno. Percorsi surrealisti, Roma, Officina, 1986. (2) E.H. Gombrich, Freud e la psicologia dell'arte, Torino, Einaudi, 1967 (il saggio è del 1966, in «Encounter»). (3) M. Schapiro, L'arte moderna, Torino, Einaudi, 1986, pref. di Cesare Segre, trad. di Renato Pedio. Analogia,'-'iJcontinuità Antonio Prete II demone dell'analogia Da Leopardi a Valéry: studi di poetica Milano, Feltrinelli, 1986 pp. 199, lire 20.000 Ferruccio Masini La via eccentrica Figure e miti deU'anima tedesca da Kleist a Kafka Casale Monferrato, Marietti, 1986 pp. 169, lire 21.000 Stéphane Moses Abitare il tempo «Alfabeta», n. 92, gennaio 1987 Q uando pensiamo al «moderno» e al sentimento della crisi, del trapasso di civiltà che l'accompagna, la nostra mente corre a Leopardi, e la sua lucida consapevolezza de11a disarmonia fra il poetico e l'universo contemporaneo non finisce di sorprenderci. Dopo Il pensiero poetante, Antonio Prete torna a interrogare ,i poeti del «tempo de11apovertà» e non può che ripartire da chi, nello Zibaldone, già annotava come alla «poesia moderna» fosse più appropriata la prosa. Nel nuovo libro, Il demone dell'analogia, accanto a Leopardi si trovano Baudelaire - che più di ogni altro ha mostrato il prezzo che la poesia pagò alla modernità - e Valéry che, meditando sul pronome Io, ne accertò la natura solo linguistica e teatrale. Il titolo, ripreso dal poemetto in prosa Le démon de /'analogie di Ma11armé, a11udea11a pulsione a procedere per somiglianze e similitudini e a scoprire i rapporti tra le cose, «anche i menomi, e più lontani - come ben sapeva Leopardi - anche de11ecose che paiono le meno analoghe [... ]» (Zibaldone, 7 settembre 1821). E questa rete di relazioni, improntate ai sensi più che all'intelletto, invita a scavalcare il muro della coscienza, a scomporre la scacchiera della ragione, a rompere - direbbe Mario Luzi - ~<lageometria del pensiero». Il demone dell'analogia attraversa non solo l'esperienza teorica, ma anche la lingua poetica fra Otto e Novecento. Per Leopardi, la stessa traduzione da una lingua all'altra era una pratica analogica: dietro la resa linguistica - commenta Prete - al traduttore «occorre garantire un'analogia d'impressione» (p. 58). Potremmo aggiungere: tradurre non è che costruire un mode11o artificiale che si avvicini il più possibile al senso depositato neU'originale. Nelle dense pagine di Mimesis e poiesis la traduzione de1la poesia si profila infatti come un processo interpretativo, che si fonda sull'ascolto del testo ed è regolato da un meccanismo di cancellazionè e restituzione, in virtù del quale il nuovo testo esiste, paradossalmente, proprio perché il primo è stato cancellato: «Che cosa altro se non una trasformazione dell'ascolto in un'ermeneutica del testo permette al traduttore di cogliere il rapporto tra lo stile dell'autore e il carattere de1la lingua cui egli appartiene, e permette di restituire per analogie - di senso e di convenzione linguistica, di invenzione e di effetto sonoro - quel che de11aprima lingua egli va cance11ando?»(p. 59). Baudelaire dà il nome di analogia al gioco di rispondenze («correspondances») tra le cose e i sensi o a11e relazioni inesauribili che corrono tra i diversi linguaggi. E questa trama che il poeta coglie e di cui sono intessuti il mondo e la lingua, rinvia a un'unità oscura e profooda che è come l'eco dell'origine. Un'unità che la ragione soggettiva non riuscirà più a cogliere, né fuori né dentro l'uomo. Difatti Valéry, sentendo la coscienza come un limite, ma non potendola sopprimere, cercò di congiungerla al corpo, a11asensibilità, a que11a voce che dice «l'oscura sostanza che noi siamo senza saperlo». E non appena scoprì il carattere costitutivamente scisso del soggetto, fu costretto a inventare il Moi «pour lui attribuer l'origine de tous ces changements mervei11eusement correspondants». L'analogia, che qui diventa figura emblematica de11apoesia moderna, illumina un salto, un passaggio: da un ordine logico, spaziale e temporale, fondato su11asignoria di una ragione armoniosa, a un ordine (a uno spazio e a un tempo) che privilegia i sensi e procede per traslati del pensiero; da un soggetto responsabile deU'accadere, a un soggetto - per dirla con Nietzsche - ridotto a favola, a finzione, a gioco di parole. Nel rintracciare i segni e «le forme» di una società che non ha più bisogno di poeti, Prete riflette su un nodo teorico della critica benjaminiana: congiungere il linguaggio poetico e il linguaggio delle merci e capire come la lingua della poesia condensi in grumi e traduca in figure il pensiero e, insieme, l'esperienza del tempo. (D'altro canto, quale linea potrebbe mai separare le forme dal sociale, il dentro dal fuori?) Ma meditando sulle a11egorie del moderno, s'accorge anche (e il lettore con lui) ch'esse s'attengono a una scansione temporale che non è più que11ade11astoria progressiva. Basti pensare al tempo pietrificato nel ricordo di Baudelaire: quel tempo che porta in sé il marchio de11a reificazione e che Benjamin acutamente lesse come reliquia, «esperienza crista11izzata in immagine e in frammento» (p. 92). O ancora, puntando al cuore del moderno, al suo carattere «più proprio e più omologante - l'immenso arsenale di merci» - come forma ottocentesca con la quale «i\ passato appare un morto possesso»; come «lo schema della trasformazione de11amerce in oggetto di co11ezione»(p. 93). Quanto al rapporto con un tempo sottratto alla pura cronologia o alla «tempesta» del progresso, mi vengono a11amente le parole di Stéphane Moses al recente convegno fiorentino Physis-Abitare la terra: «Il tempo cambia con il luogo da cui è percepito». Moses ci presenta una visione de11astoria diversa dal mode11o dominante neU'Europa moderna e ci parla di «un nuovo modo di percepire la successione degli avvenimenti, la realtà stessa degli avvenimenti». Il luogo di un diverso percepire che, nel suo discorso, sembra a tratti identificarsi con l'ebraismo, forse va inteso in senso più generale: come punto d'osservazione che il soggetto sceglie consapevolmente (e a cui , portato dai fatti, approda) a partire da una crisi. Non a caso, la caduta deU'idea classica della storia del progresso esplode, nel pensiero di Rosenzweig, Benjamin, Sholem, in tre momenti 'O particolari. Per Rosenzweig, quel ~ .s «luogo» coincide con la guerra del ~ 1914-1918; per Benjamin, con il t::I. crollo marxista delle speranze ri- ~ voluzionarie nel 1939-1940; per ....., Sholem, è il confronto - neU'esilio -9 in Palestina del 1923 - «con la ~ realtà tragica e contraddittoria E: della storia degli ebrei nel XX se- ~ colo». i:: Dunque, nei momenti di crisi ~ del processo storico e del soggetto l avviene che si pongano in discus- ~

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