più implacabile e freddo nello squadrare gli elementi del racconto. La materia del narrare è la vita in Sudafrica: una società lacerata e smembrata dal!'apartheid, da cui i rapporti umani non possono prescindere. L'ambientazione si situa per lo più nella borghesia bianca, con incursioni anche in culture e luoghi altri: il filo conduttore, sempre diverso, viene dipanato lungo il margine dei sentimenti e delle posizioni psichiche di personaggi complessi, fortemente connotati come tipi e come individui. Quando le ho detto che volevo parlare con lei dei suoi libri e della letteratura sudafricana, « Finalmente, mi ha risposto, perché di solito mi fanno delle domande soltanto sulla situazione politica in Sudafrica». Itala Vivan. Sono ormai quarant'anni che lei scrive: quando e come ha cominciato? Nadine Gordimer. Ho cominciato a scrivere quando avevo nove o dieci anni: in realtà è tutta la vita che scrivo. Quand'ero una ragazzina ho anche scritto delle poesie, ma non era una cosa seria. Ho sempre letto molto, fin da piccola, perché l'ombra di una enigmatica malattia fece sì che mia madre - che era iperprotettiva - mi proibisse ogni attività fisica. Mi rifugiai nella lettura, e presi a scrivere per ·conto mio. Vivan. Che cosa leggeva, da bambina? Quali sono i libri che ricorda? Gordimer. Ero una lettrice davvero onnivora. Nella piccola città dove abitavo c'era una biblioteca pubblica assai buona, e per mia fortuna non ebbi mai nessuno che mi guidasse e mi dicesse che cosa dovevo leggere e non leggere. Mia madre leggeva molto anche lei, ma erano romanzi popolari; tuttavia mi incoraggiava a leggere, e lei stessa mi lesse molto, quando ero troppo piccola per farlo da sola. Una volta che fui un po' cresciuta e conquistai la tessera della biblioteca, divorai tutto quello che mi capitava per le mani, tutto quello che colpiva la mia immaginazione: da libri qualsiasi, come Il dr. Dolittle, a testi come il Diario di Samuel Pepys. Una volta prendevo a prestito Jane Austen, la volta dopo magari uno di quei libretti rosa che leggono le adolescenti, o almeno che leggevano ai miei tempi. E vedendo che quei libri erano così popolari, mi venne voglia di scriverne anch'io, e così fu che cominciai. Ma avevo vissuto troppo poco, naturalmente, e così le mie storie erano moraleggianti e sentimentali come quelle che mi passavano tra le mani. Però, mentre i - libri che leggevo erano tutti ambientati in Europa - infatti erano dei libri inglesi - e parlavano del Natale sotto la neve o della Pasqua festeggiata con il plumcake, le mie storie si svolgevano nel veld sudafricano e nel mondo che io conoscevo. Avevo quindici anni quando pubblicai il mio primo racconto: lo battei a macchina e lo mandai ad una rivista letteraria e politica di allora, «The Forum»: loro non sapevano che l'aveva scritto una ragazzetta, e lo stamparono. E io continuai a scrivere, e a leggere, soprattutto racconti: Cechov - il massimo maestro dell'arte del racconto - e D.H. Lawrence. E poi venne Proust, e poi ancora Henry James. A poco a poco attraversai il periodo dell'imitaziorle dei modelli, e cominciai a trovare una mia voce, e dei modi di scrivere tutti miei. A ventun'anni mandai un paio di racconti a una straordinaria donna - si chiamava Emilia Levi - che aveva una piccola rivista letteraria: lei mi pubblicò, e volle conoscermi. Era assai brava; scoprì me e, pressapoco alla stessa epoca, Doris LesMussolini (young) ®David Levine (1980) Courtesy Studio Marconi sing, che le inviò del materiale da Salisbury, l'allora capitale della Rhodesia, dove viveva. Emilia si mise in contatto con altra gente che scriveva. Anni dopo, nel 1946, un critico letterario sudafricano vide alcuni miei racconti e li fece avere ad un'agente letteraria americana grazie alla quale arrivai a riviste universitarie di prestigio come la «Yale Review» e la «Virginia Quarterly Review». Ormai cominciavo ad esser conosciuta, e nel 1949 comparve in Sudafrica la mia prima raccolta di racconti, Faceto Face. Avevo ventisette anni. Ma ormai mi stavo già cimentando con un romanzo, The Lying Days, che uscì nel 1953. Non smisi più di scrivere. Vivan. Ed oggi ha al suo attivo otto romanzi, dieci volumi di racconti, un libro di saggistica e una gran quantità di scritti vari. Come lavora? Ha mai tenuto un diario cui attingere? Gordimer. Non propriamente. Certo, scrivevo un diario quand'ero bambina: lo ha scoperto poco tempo fa Stephen Kinman, che ha scritto un libro di critica su di me e sta ora raccogliendo le mie varie cose sparse. Sono troppo pigra per tenere un diario; lavoro invece su dei quaderni di appunti, dove raccolgo del materiale grez2:o per i romanzi - qualche pagina di annotazioni, poi, quando ho trovato il nome giusto per un personaggio, butto giù qualche riga per fermare le cose che ho pensato, e qualche frase per fissare un fatto, un particolare, un gesto, dei brandelli di dialogo che mi si organizzano nella mente. Ma sono sempre degli appunti brevi. Vivan. Quanto c'è di autobiografico nella sua produzione narrativa, a partire da «The Lying Days»? Gordimer. Il mio primo romanzo contiene senz'altro molto di me, della mia storia personale, soprattutto per quanto riguarda gli anni della fanciullezza. Ma credo che ciò sia normale nel primo romanzo d'ogni scrittore. In seguito, invece, ho scritto assai poco di autobiografico, ad eccezione, forse, di taluni aspetti che affiorano qua e là: ad esempio, in Occasione d'amore, che scrissi in un periodo in cui avevo a che fare con dei ragazzi che crescevano, il rapporto di Jessie Stilwell con i figli è estremamente importante. Ma gli altri libri, come è evidente, trattano temi che sono lontani da me: Un ospite d'onore ha un protagonista maschile, e lo stesso succede in The Conservationist (Il conservatore). Quanto a Luglio, è vero, il personaggio centrale è una donna, ma un tipo assolutamente diverso da me, anche se pure lei, come me, viene da una cittadina mineraria, ed è cresciuta in un ambiente simile al mio, del quale in effetti mi sono servita, attingendo alle mie memorie d'infanzia. Vivan. E come si spiega, l'uso frequente che lei fa della narrazione in prima persona? Gordimer. Quando scrivo un romanzo, non decido a freddo se debbo usare la prima o la terza persona, o un'altra forma. Dipende dall'argomento. In The Conservationist, ad esempio, il romanzo è tutto monologo interiore, e la presenza dell'autore non compare mai. Ne La figlia di Burger l'autore non interviene direttamente, perché ci sono già parecchi altri «io» che guardano uno stesso problema: c'è Rose, innanzitutto, e poi ci sono vari altri personaggi, i quali tutti parlano di lei o pensano a lei. In Luglio, invece, c'è la voce dell'autore. Altrettanto avviene in Un ospite d'onore, sebbene il protagonista sia un uomo. Insomma, non c'è una regola fissa, dipende dai romanzi. Vivan. Nella sua narrativa tutto giunge sempre filtrato attraverso la coscienza d'un personaggio, anziché venire offerto come una realtà con cui vi possa essere un rapporto di diretta referenzialità. Gordimer. Credo che ciò sia inevitabile, perché, anche se mascherato come fosse il pensiero d'un personaggio, tutto proviene sempre dall'interiorità dell'autore. Non è della vita vera che si scrive, ma del nostro modo di vivere la vita. Vivan. Quali sono gli scrittori che più hanno influenzaio la sua formazione, e quali quelli ai quali si sente più legata - oltre a Proust e Tolstoj? Gordimer. Molti sono i nomi che dovrei citare. Il primo di tutti però è Cechov: non c'è scrittore di racconti che non sia stato influenzato da Cechov, e per me è stato lui a modellare il mio modo di raccontare. Ho letto molto anche Maupassant, benché non credo mi abbia influenzato gran che. Importante è stato D.H. Lawrence; e Katherine Mansfield e Virginia Woolf, insieme a E.M. Forster. Poi, però, mi sono staccata da quella gentle tradition tutta inglese, e credo d'averlo fatto istintivamente, perché il materiale con cui avevo a che fare, la vita in cui vivevo, era così diverso e lontano da loro, e tanto più aspro e difficile ... così feroce, in un certo senso, se si guarda a come gli esseri umani devono risolvere la propria vita. Quella sensibilità inglese era ormai troppo lontana da me, dal mio mondo sudafricano, e non mi serviva più per quanto io avevo da dire. Da quel momento in poi mi sono mossa istintivamente in tutt'altra direzione, e gradatamente delle nuove influenze sono entrate a far parte del mio orizzonte: il primo è stato Thomas Mano, e poi son venuti Italo Svevo, Gtinther Grass, Gabriel Garcia Marquez. Vivan. Ma lei è sudafricana, Nadine Gordimer: e quali sono gli autori della tradizione sudafricana che hanno avuto importanza nella sua formazione? Gordimer. Proprio nessuno, direi. Mi vergogno davvero a confessare che ho letto per la prima volta Storia di una fattoria africana, di Olive Schreiner, quando avevo già diciotto o diciannove anni: una cosa incredibile, se si pensa a quanto è importante quel libro, e a quanto io avevo già letto a quell'età. Ma questo dimostra quanto sia trascurata la letteratura sudafricana nelle nostre scuole, in che poco conto sia tenuta. Una favolosa scoperta fu la lettura di Turbott Wolfe, di William Plomer - un libro che ancor oggi giudico davvero splendido, e una pietra miliare per la tradizione sudafricana. Vivan. Ho visto che lei ha scritto la prefazione alla nuova edizione di Turbott Wolfe: ma in che modo lo considera una «pietra miliare»? Gordimer. Vede, Storia di una I / I ,,, ✓ , I~ 1\•.L-;-/;; - .__~,}}~y fattoria africana è un grande romanzo, ma è ancora un romanzo coloniale, in cui gli africani non compaiono affatto come personaggi, ma vengono usati soltanto come aspetti del paesaggio. Turbott Wolfe invece presenta personaggi neri insieme a personaggi bianchi, anzi, addirittura costrui-- sce una storia d'amore fra due di loro - anche se si tratta d'una storia che risulta sconvolgente alla coscienza culturale del narratore protagonista. In Plomer l'ambiente non è più coloniale, è africano. Vivan. Lei legge gli scrittori neri del suo paese, il Sudafrica? E che cosa ne pensa, oggi, a qualche anno di distanza del suo saggio del 1973, The Black Interpreters (interpreti neri)? Gordimer. Ho sempre letto e seguito la produzione dei neri, che oggi è molto abbondante, e non sempre buona dal punto di vista letterario, ma comunque importante perché costituisce una testimonianza. È un genere di testimonianza che nessun altro può dare all'infuori di loro, e quando dico che talvolta è letterariamente povera non mi riferisco al fatto che non usino l'inglese «mandarino», per così dire. Loro scrivono in inglese così come parlano, e questo per me va benissimo. Quello che invece mi disturba è il fatto che non sempre riescono a trasmettere al lettore ciò che vorrebbero trasmettergli. Io mi metto dal punto di vista del lettore, e vedo i clichés di cui si servono certi scrittori neri: mentre la situazione dei neri è così ricca, così piena di complessità - un mondo che gli scrittori devono ancora portare alla luce della pagina. Naturalmente io ora sto generalizzando: di fatto esistono degli scrittori neri molto bravi, come Njabulo Ndebele, ad esempio, e Sipho Sepamla: il primo come narratore, il secondo soprattutto come poeta. E c'è del teatro splendido, proprio splendido. E poi ci sono quelli che scrivono in esilio, come Lewis Nkosi, assolutamente bandito in Sudafrica: non lo si può neppure menzionare. Vivan. E che cosa pensa degli scrittori della generazione precedente, quella emersa a partire dagli anni quaranta: Peter Abrahams, E'skia Mphahlele, Alex La Guma? Gordimer. Molto bravi, soprattutto alcuni di essi - chi non ama un libro come Teli Freedom (Parlare libertà) di Abrahams? - ma perduti per il Sudafrica. Tutti andati in esilio, staccati dal filo della nostra tradizione. È una storia tra- ,,' :-~~~ .•. i:.'.~" Natalia Ginzburg ®David Levine (1985) Courtesy Studio Marconi
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==