Antonio Tabucchi Il filo dell'orizzonte Milano, Feltrinelli, 1986 pp. 105, lire 12.000 Aldo Busi La delfma bizantina Milano, Mondadori, 1986 pp. 399, lire 22.000 D ue tra i membri della pattuglia dei «nuovi romanzieri» (anche se pattuglia reclutata, lo si può concedere, per gran parte secondo ragioni di comodo), Antonio Tabucchi e Aldo Busi, ci hanno dato prove ulteriori convincenti e comunque significative, su cui quindi vale la pena di soffermarsi, cogliendo anche un legamento per antitesi che sembra congiungerle: Tabucchi, e il suo •Filo dell'orizzonte, sempre più estenuato; Busi, e La delfina bizantina, sembre più folto, aggrovigliato. L'opera di Tabucchi può essere considerata come un racconto in più, di particolare impegno, da aggiungere alla fortunata raccolta posta all'insegna dei Piccoli equivoci senza importanza: un'insegna che oltretutto appare perfetta come concentrato della poetica seguita dall'autore. Il quale infatti si dedica programmaticamente a collezionare «piccoli equivoci», circostanze marginali e apparentemente ininfluenti (tanto da doverle accompagnare con l'inevitabile marchio del «senza importanza»). In fondo, si tratta di una dichiarazione di minimalismo, tanto per riprendere il termine di cui si sta facendo uso e abuso per i giovani narratori statunitensi. Ma bisognerebbe subito aggiungere la chiosa che, allora, tutta la narrativa valida del nostro secolo è stata «minimalista»: dalle epifanie di Joyce alla Madeleine proustiana ai fatterelli insignificanti che costellano le opere pirandelliane. Non solo, ma occorre pure tenere conto che, caso mai, il secondo Novecento ha operato di raddoppio, nella medesima direzione. Se il nouveau roman ha avuto un senso, è stato proprio nell'imporre uno stile sempre più asciutto e oggettivo, nel registrare i «piccoli equivoci». È quel carattere di «normalizzazione» della narrativa secondonovecentesca, rispetto a quella precedente, su cui insisto fino alla noia da due decenni abbondanti. E i conti tornano, dato che Tabucchi appare proprio come un buon cultore, presso di noi, magari con qualche ritardo, di tecniche che stanno tra Robbe-Grillet e Simon (quando erano entrambi più diretti e oggettuali, con scarse preoccupazioni strutturali) e 1 «tropismi» della Sarraute. In un certo senso, Tabucchi si riallaccia a un nostro seguace di questo plesso di tendenze attivo con bella tenacia negli anni sess~nta e poi periodicamente disposto a qualche nuova sortita, Germano Lombardi. Inutile dire che, visto in questa .$ ampia prospettiva, il «senza im- ~ pohanza» sbandierato nel titolo si ~ rivela sempre~ più rispondente a ~ una figura retorica della specie di ..... ~ quelle che negano per affermare a.. (la litote, l'antifrasi, la preterizio- ~ ne e così via, a scelta). È in sostan- ~ za un ammicco al lettore per indicargli che quanto segue è della ~ massima importanza, se almeno 1 egli sia disposto a lasciare «i più», ~ la massa del volgo, e ad iscriversi nel club degli happy few, di coloro che hanno occhi per vedere e orecchie per intendere. Il protagonista del Filo dell'orizzonte risponde a meraviglia a tali requisiti: si chiama Spino, gode di assai scarso successo, sul metro dei fatti che contano: lavora come infermiere in un obitorio, non avendo trovato l'energia, o i soldi, per laurearsi in medicina, così come non si decide a risolvere un ménage con Sara, portato avanti tra la svogliatezza e la tenerezza che accomuna i «vinti», gli «inetti sveviani». Assai poco sviluppato nei settori che «importano», Spino possiede naturalmente una straripante fertilità in tutto ciò che «non importa», ovvero un'ampia vita interiore, pronta del resto a rovesciarsi sulle cose, e dar luogo a un continuo· monologo esteriore, secondo il postulato introdotto ormai da tre decenni dal nouveau roman. E anche il «filo dell'orizzonte» che entra nel titolo appartiene a questa fascia di sensibilità, è un eponimo delle circostanze «inutili» di cui si pascono questi personaggi, con i quali, d'altra parte, ognuno di noi farebbe bene a identificarsi per allargare la propria sensibilità. È insomma un titolo che funziona come le «gomme» o la «gelosia» di RobbeGrillet, mentre Spino, a sua volta, non manca di aderire alla condizione del «voyeur». Nell'obitorio in cui il protagonista lavora una notte viene depositata la salma di uµo sconosciuto rimasto ucciso in un conflitto a fuoco tra alcuni poliziotti e un gruppo di probabili terroristi. Le circostanze del fatto di sangue sono oscure e intricate, tali comunque da risvegliare l'attenzione acuta di Spino, per ragioni via via più decisive: intanto, perché in lui cova un «contestatore» potenziale del sistema; di sicuro in passato nel suo curriculum c'è stata l'adesione a gruppuscoli estremisti, e dunque lo muove un impulso generoso a ricostruire i fatti, a «sapere». Ma si aggiunge un'attrazione morbosa per quell'esistenza ignota, non reclamata da nessuno, svoltasi e spentasi nella sfera del «senza importanza», e magari perita per qualche «piccolo equivoco». Indagando sul morto, Spino riscatta anche la dimensione «altra» dell'esistenza, lo strato dei sotto-significati, del materiale epifanico. Al limite, egli si identifica con quei defunto, come se fosse una proiezione· di sé ugualmente votata al sacrificio, al silenzio, al nulla. E senza dubbio l'inchiesta personalissima di Spino è affascinante, passa per una serie di stazioni tutte felici nel dare un volto all'invisibile, nell'affondare nei tropismi di tanti spaccati di vita: gli emigranti che ritornano dal Sud America, l'esistenza di stenti degli orfani, certi impieghi saltuari. C'è anche il capitolo della visita a un· cimitero (Staglieno, così come il fondale della quete sembra. fornirci l'identikit _diGenova). Ma si capisce anche che Spino, e con lui l'Autore, non sa come saltar fuori dalla rapsodia (nel senso letterale della parola) di queste varie stazioni, di queste caselle di un gioco dell'oca che non può mai arrivare alla conclusione. Le conclusioni ci sono solo a livello di fatti «importanti»; lo sapevano anche gli adepti del nouveau roman, che puntellavano i loro monologhi esterni con ingegnose carpenterie a livello di plot, e anzi, a partire dal 1960, esasperando questo lato ingegneresco. Così è anche per Tabucchi, che già nelle prove precedenti aveva tentato la via dell'azione autre, introducendo storie di spie, di super-investigatori, di campioni del dinamismo, della vita attiva, ancorché votata a un esito finale di gratuità, risolta a colpi di dado. Anche IO quest'ultima prova, per uscire dalla spirale, sempre più rarefatta delle situazioni «senza importanza», egli immagina che Spino vada a un appuntamento misterioso stabilito, forse, con la banda cui l'estinto era affiliato,o con qualche altra istanza superiore non meglio identificata, o infine, e per dirla in termini enfatici, col proprio destino. Ma il passaggio all'azione autre è alquanto tardivo,.giocato in extremis, in misura appena abbozzata. Resta dunque a dominare la scena l'esatto reticolo degli stati •d'animo, delle circostanze esistenziali «fatte di niente», perfette pur nel loro grado di marginalizzazione spinta. Cavour ©David Levine (1985) Courtesy Studio Marconi B usi invece, ne La delfina bizantina, va verso un destino di corposità crescente, di densità di fatti e circostanze, allontanandosi sempre più dal filo autobiografico su cui era intessuta la sua prova di esordiente, il Seminario della gioventù. In fondo, nel secondo romanzo, la Vita standard di un venditore provvisorio di collant, era come se il protagonista intellettuale avesse deciso di misurarsi con gli altri, con i nonintellettuali, a cominciare dalla straordinaria figura, sanguigna e iper-attiva, di Celestino Lometto. Qui invece si stenta a rintracciare una superstite presenza di protagonista intellettuale, provvisto di un distacco critico e autocritico rispetto ai fatti, capace di inserire un lievito di commento, di sottolineatura ironica nei confronti di certi eccessi. O forse una simile presenza è da ritrovare in Teodora, che poi in sostanza corrisponde alla «delfina bizantina» del titolo, la figlia tanto amata da Anastasia, a sua volta da vedere come la continuatrice al femminile del Lometto: una perfetta, meravigliosa campionessa di quella smodata bramosia di vita, di successo, di affermazione cui il nostro autore sa erigere monumenti colossali . Solo che, in questo terzo romanzo, anche il controcanto ironico-critico, ovvero la dimensione di freno intellettuale, sceglie di calarsi a sua volta in panni fisicamente corpulenti. La «delfina» Teodora, destinata in pectore ad essere l'erede del dinamismo e dell'intraprendenza materna, tradisce queste fiducie e aspettative decidendo di essere grassa, adiposa come una balena, lenta di riflessi, intorpidita nell'azione. È come se Giorgina Washington, la figlia in cui Celestino Lometto aveva riposto, anche lui, ogni speranza di successo e di posterità, arrivando a supporre di poter fare di lei un futuro presidente degli Stati Uniti, ma che le leggi imperscrutabili dell'ereditarietà avevano fatto nascere nelle condizioni di una mongoloide, fosse sopravvissuta, a irrisione, a sconfessione immanente della voglia di vivere paterna. Ecco allora che le due si dividono le parti: Anastasia ordisce instancabilmente, con estro, suprema Ìnsensibilità a tutti i codici morali, sessuali, dell'onore, del deco-. ro, mentre Teodora, man mano «decostruisce», disgrega dall 'interno, manda in rovina. Ovvero il lievito critico e censorio che appartiene agli intellettuali si è trasferito anch'esso a livello di fatti corposi, pronti a prendere la strada dell'eccesso, anzi, dell'iperbole, onde poter competere con la grandiosità già per se stessa iperbolica delle potenze del male, o soltanto della vita, di cui la madre è meravigliosa rappresentante. Ciò significa che il dramma si svolge per intero in un ambito di cose, azioni, operazioni poçlerosamente dense, sanguigne, pronte a innescarsi le une di seguito alle altre, ma anche a contraddirsi, precedute talora dal segno più, talaltra dal meno. La partita del valore e del disvalore è giocata allo stesso tavolo, da giocatrici che si muovono con lo stesso grado di imponenza, di furbizia istintiva, l'una contro l'altra armata: come uno scontro di elefantesse, cui noi spettatori assistiamo nell'angolo atterntl, sgomenti, affascinati, intrigati anche per la difficoltà di comprendere le mosse delle due contendenti, pronte a mutare tattiche, a inseguire fini oscuri, o espliciti solo alle lunghe distanze. Viene di qui una giustificazione a quella chiave eccessiva, gonfiata, enfatica di cui Busi fa uso, in questo terzo romanzo ancor più che nei precedenti, e che pure molti lettori si ostinano a imputargli a difetto: come appunto accusare uno scontro tragico, all'ultimo sangue, di balene o di elefanti di mancare di grazia, di leggerezza. Quella dell'iperbole, della stilizzazione grottesca è la dimensione congenita del nostro autore, prendere o lasciare; egli ha bisogno di grandi spazi per spiccare la sua corsa, per caricarsi e disegnare le sue vaste acrobazie. E viene anche la giustificazione a quel tanto di oscurità che accompagna gli intrecci, IO questo terzo romanzo più che nei precedenti. Busi sceglie, per così dire, una dimensione behavioristica, calata nei comportamenti. I giocatori non ragionano, non dichiarano i loro calcoli a priori: si muovono, con fiuto, con sesto senso, con mutamenti rapidi, per ingannare le attese degli avversari. E sta a noi capire, sciogliere i nodi, afferrare a volo passaggi, implicazioni, o insomma, decifrare i fatti, commentarli, magari piegarli a interpretazioni molteplici, dove ce ne sia la possibilità. Quali dunque i fatti, in questa terza prova? La serie al positivo, attraverso cui Anastasia tenta di costruire il suo impero, si assomma in una sfilata di colpi bassi: far fuori il marito per ereditare da lui un'impresa di pompe funebri; eliminare una vecchia bottegaia che nega spazio all'incremento dell'azienda; fondare presso Ravenna un residence di successo, la «delfina bizantina» appunto, quasi a celebrare il titolo ereditario che competerebbe alla figlia beneamata, se questa lo volesse accettare. Vendicarsi di una contessa che l'aveva maltrattata in gioventù, quando la nostra Anastasia era una trovatella senza fortuna (e allora le spettava il nome onomatopeico di «Antavléva», non ti volevo, mentre le tappe della sua ascesa sociale sono scandite dai cognomi assunti in seguito, il Cofani dell'impresa di pompe funebri, e infine un nobiliare Kuncewicz che sa di esotismo slavo da fumetti). Soddisfare le brame delle complici (l'anziana Adelaide Scontrino che si ciba di feti, e di neonati abbandonati), e perfino dei cani di custodia, cui essa provvede stagionalmente le femmine per accoppiamenti ferini; e non manca evidentemente un programma di soddisfacimento in proprio, per esempio obbligando i gemelli Farfarello, appena adolescenti, a tumultuosi e complicati amplessi. E beninteso, con lo stesso ritmo e la stessa tattica, la «delfina bizantina» decostruisce, fa in modo che gli exploit della madre falliscano miseramente; essa si pone al servizio di un impulso mortuario così come l'altra è un'instancabile sacerdotessa della vita. E poiché Anastasia resta vittima, verso la fine del romanzo, di una morte apparente, la figlia la dà addirittura in pasto alle voglie di un g~ppo di frequentatori di caffè, facendo loro credere che si tratti di una prostituta addormentata - così come in fondo la madre avrebbe voluto fare di lei stessa un corpo docile ai propri fini, uno strumento per sedurre i maschi che le servivano nella arrampicata sociale. Questi coiti reiterati e maldestri hanno il potere di riscuotere Anastasia dal coma, e di farla rientrare immediatamente nella sua parte di generalessa sicura di sé, dei propri fini e destini, pronta anche a riaffermare sulla figlia un completo dominio sia fisico che psichico. E allora a Teodora non resta che darsi la morte, per uscire una volta per tutte da quel controllo implacabile. Oppure non c'è suicidio, e le due riprendono in eterno a inseguirsi, a tessere-sciogliere la medesima orrida tela? Quello che conta,è che la tela ci sia, e che Busi si confermi un orditore di straordinaria potenza: se non unico in assoluto, entro l'intera narrativa italiana, come egli afferma nel risvolto di copertina, applicando anche lì le figure dell'iperbole e dell'eccesso, per lo meno il degno erede di Céline, di Gadda, di Volponi, sia nelle doti enormi di affabulazione che in quelle di polistilismo, di gigantesco incrocio di gerghi e dialetti. Con la differenza che, mentre i due colossi del postnaturalismo, Céline e Gadda, intervengono su un mondo ancora ottocentesco legato ai bisogni materiali, gli eroi postmoderni di Busi fanno commercio, scempio, uso astuto di ogni circostanza, di ogni bene di fortuna, materiale e immateriale. Perfino l'informatica entra nel crogiuolo, accompagnata dagli opportuni sberleffi e scongiuri.
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