schauung semitica, antitetica a una originaria unitaria indoèuro-· pea, a seguito della prima traduzione dal sanscrito delle Upanishad. Sia il monoteismo personale trascendente privilegiato dalle culture semitiche, sia il panteismo impersonale immanente prevalente in quella indiana, appaiono piuttosto aspetti complementari, se si preferisce ciclici, di una concezione orientale della realtà. Se ne accorsero i grandi sufi, che primi si posero il problema, scoprendo che un monoteismo perseguito con rigore si rovescia in panteismo, assorbendo le singole individualità psichiche. Non casualmen° te dalla condanna di Schopenhauer si salva proprio il sufismo. Parallelamente la speculazione ellenizzante, ampiamente diffusa in ambienti semitici, sfociò nel «monopsichismo» aristotelico di Averroè-Ibn Rushd da una parte e nel «panpsichismo» neoplatonico di . Avicenna-Ibn Sina dall'altra, prima di essere bandita dall'ortodossia religiosa ma continuare a svilupparsi in Iran o nella Scolastica e nel Rinascimento europei. Tanto la poesia colta quanto il pensiero arabo classico si presentano pertanto segnati da un 'azione di rigetto o neutralizzazione del concetto indigesto di anima individuale (come accadde d'altro canto per il buddhismo rispetto ali'induismo). Ciò sia detto ancora una volta a sostegno della tendenziale universalità della ragione, e a conferma della tradizionale funzione di ponte o vaso comunicante svolta dalla civiltà del Vicino e Medio Oriente. Nel componimento Il ponte scriveva il libanese Khalil S. Hawi, biografo ·di Jibran, prima di suicidarsi nel 1982 durante l'invasione israeliana del Libano: «Agilmente attraversano il ponte al mattino:/per essi le mie costole/si sono stirate in un ponte robusto/fuori dalle caverne dell'Oriente,/verso un nuovo Oriente;/per essi le mie costole/si sono stirate in un ponte robusto». Ma nel poemetto Il marinaio e il derviscio (trad. P. Blasone, su «Oceano Atlantico» n. 4), non senza chiamare in causa A.L. Huxley, egli oppone al mito ulisside occidentale la figura orientale dei sufi o dello yogin, versione estensiva del profeta di Jibran. Alla resa dei conti, il discorso è simile a quello del maestro, né è assente l'eco de La crise du monde moderne del franco-egiziano R. Guénon, per certi aspetti epigono di Schopenhauer (non a caso sarà di origine egiziana il critico letterario Ihab Hassan, tra i fondatori del postmodernismo negli USA). L'esempio di Jibran - e di altri siro-libanesi immigrati nelle Americhe - eserciterà una notevole suggestione nella rinascita e rinnovamento delle lettere arabe. Parte del carteggio intercorso fra l'autore e la prima scrittrice araba moderna di rilievo, la palestinese di origine libanese Maryam Ziyada, femminista e ammiratrice peraltro di D'Annunzio, è stata tradotta in italiano da Maria Amalia De Luca (Palermo, 1981). La generazione. successiva di al-Sayyab, Hawi, Jabra, Adonis, del palestinese Tawfiq Sayigh o dell'irachena Nazik al-Mala'ika, svincolatasi dalla metrica convenzionale e passata dalla lettura di Holderlin o Rilke alla traduzione di T.S. Eliot, percorrerà un itinerario poetico ancora oscillante fra rivisitazione dei miti ancestrali e impatto con la modernità, travagliata ricerca di un'identità dell'arabismo tendenzialmente laica ma non disgiunta dalle radici (quale preconizzata da F. Antun, che raggiunse Jibran nell'ormai sua New York - «O(falese»). Con un occhio a Neruda, Brecht, Aragon, Hikmet, un'apertura sociale si ha particolarmente nella poetica dell'egiziano Muhammad al-Fayturi: «Come l'elemento dello spirito realizza la sua esistenza nell'esistenza dell'elemento della materia, così è del vero poeta e del pubblico» (trad. Wahib Marzouk, La caduta di Dabscialì,p il Re, Roma, 1978). Sul versante del pensiero, qmmanentismo naturalistico sarà sviluppato dall'egiziano 'Abd al-Rahman Badawi con le sue teorie dell'esistenzialismo gnostico e dell'umanismo arabo, influenzate da Sartre e dal primo Heidegger. Il profeta di Jibran vi diviene un emblematico «saggio», in problematico equilibrio «su una corda tesa tra due infiniti: l'Essere assoluto e l'assoluto Nulla». Logicas.ociala~tte~espllaozio L o spazio come dimensione intrinseca al progetto sociale dell'uomo è al centro di: un testo, The Socia! Logie of Space, (Londra, 1984), dovuto a due studiosi inglesi, Bill Hillier e Julienne Hanson, di formazione filosofica, ma insegnanti presso la Bartlett School of Architecture and Planning dell'University College di Londra. La motivazione dello studio è indicata nella constatazione della impotenza delle moderne discipline dello spazio a costruire ambienti di vita soddisfacenti dal punto di vista di chi ne deve fruire. Impotenza che Hillier e Hanson attribuiscono alla scorrettezza dei presupposti epistemologici dell'architettura e dell'urbanistica e alla scarsa scientificità dei loro procedimenti metodologici. Per tali discipline, infatti, la specificità degli edifici di essere non solo dei manufatti ( con una loro forma apparente) ma anche, e principalmente, degli strumenti per la creazione di rapporti sociali, «viene accettata come dato, ma non diventa oggetto specifico di riflessione; così che il discorso sull'architettura, necessario corollario alla pratica risulta come handicappato: nella difficoltà a parlare degli edifici dal punto di vista del loro funzionamento sociale, ci si riduce a fondare considerazioni di natura sociale sulla loro apparenza e sul loro stile» (p. 2). Con un atteggiamento che è proprio alla tradizione empirica e induttiva della cultura anglosassone, Hillier e Hanson affrontano però questo problema non solo attraverso proposJZJoni teoriche, ma anche attraverso l'analisi comparata della configurazione fisica di numerosi insediamenti urbani più o meno recenti. La forma spaziale di un villaggio o di una città, infatti, non è semplicemente, secondo gli autori, il prodotto collaterale di regole economiche e sociali: queste restano infatti realtà astratte se non sono spazializzate, colte cioè nell'unica dimensione che sia in grado di esprimerle e di rappresentarle pienamente, cioè lo spazio. La precisa definizione dell'oggetto di studio (lo spazio costruito) e del modo in cui viene affrontato, costituisce così una premessa importante dello studio, nella quale Hillier e Hanson chiariscono ciò che distingue il loro approccio da quello di altre discipline che si sono parimenti occupate del rapporto tra spazio e società; come la sociologia o l'antropologia. Così vengono confutati il concetto di territorialità, o corrispondenza tra gruppi sociali definiti e loro ambito di vita, «che colloca l'origine dell'ordine spaziale nelle caratteristiche biologiche dei soggetti», e quello di percettività, «che colloca invece l'origine di tale ordine nella mente dei soggetti stessi». Così come viene ritenuta inadeguata la relazione funzionalista, che connette causalisticamente le forme dello spazio al loro uso, o l'approccio semiologico, interessato soprattutto a mostrare in che modo gli insediamenti umani - attraverso segni e simboli - rappresentano la società (e non già come la costituiscono); analogo in ciò ali'antropologia strutturale che, studiando lo spazio come una proiezione esterna dei processi mentali e sociali (processi che, per definizione, possono essere descritti indipendentemente dalla loro dimensione spaziale) non colgono lo spazio «come problema in sé e come un tutto» (pp. 5-7). Che è invece proprio il postulato-obiettivo di Hillier e Hanson. Se, dunque, lo spazio costruito ha una sua autonomia formale e genetica, sarà possibile individuare le leggi della sua conformazione. Tali leggi: quelle dell'oggetto in sé (a), quelle secondo cui la società utilizza e adatta le leggi dell'oggetto per dare una diversa configurazione spaziale ai diversi tipi di relazioni sociali ( b) e quelle sul modo in cui la forma urbana produce a sua volta degli effetti sulla società (e), fanno capo al seguente principio o tesi generale: «le società umane imprimono un ordine al contesto spaziale al fine di costruire una cultura spaziale, cioè un modo specifico di modellare lo spazio in modo da produrre e riprodurre non le relazioni sociali reali (I'errore del determinismo architettonico modernista), ma i principi che le regolano. Lo spazio è così usato per generare e per restringere il campo degli incontri degli esseri umani e dei loro simboli. Le modalità con cui questo si verifica dipendono dalle specifiche forme di solidarietà sociale che entrano in gioco. In ogni caso, lo spazio non può essere semplicemente copsiderato funzione dei principi di solidarietà sociale: è invece un aspetto intrinseco ad essa, parte necessaria della morfologia sociale». Q uesta tesi, esposta da Hillier al Convegno su Morfologia urbana e leggi dell'oggetto, tenutosi nel maggio 1986 presso la Facoltà di Architettura di Milano, viene sviluppata nel testo attraverso la successiva esposizione, dimostrazione e verifica delle diverse leggi, fondate, come s'è detto, sull'analisi della forma fisica di numerosi insediamenti o parti di città e del loro uso sociale. Vengono così definite: a. regole morfogenetiche, determinate dall'alternanza di spazi aperti e chiusi, collegati attraverso il posizionamento degli ingressi (principio di contiguità) e strutturati secondo la forma beady-ring, neologismo indicante, una conformazione «a rosario», caratterizzata dal succedersi di spazi stretti e larghi. Tali regole si presentano costanti e sempre leggibili al di sotto delle formazioni spaziali concrete, risultanti dai vincoli (geografici o topografici) propri ai diversi contesti; b. regole genotipiche (spaziali e sociali) che determinano la strutturazione globale degli insediamenti e che sono deducibili dalla configurazione dello spazio libero determinato dalla disposizione degli edifici. Tale configurazione appare simile a una rete deformata, sia bidimensionalmente (a formare spazi convessi estesi in larghezza o in lunghezza sui quali si aprono gli ingressi degli edifici, disposti in modo tale per cui ogni ingresso è direttamente visibile e accessibile - quindi controllabile - da ogni altro), sia unidimensionalmente (o assolutamente), con la formazione di assi visivi, o di percorrerrza, continui. Tali assi attraversano tutti gli spazi convessi e assicurano il passaggio da una esperienza a scala locale (spazi convessi) a una esperienza parziale a scala globale. È proprio l'insieme di queste due esperienze (locale e globale) che caratterizza l'essenza dello spazio urbano. Il modo in cui i diversi assi si strutturano all'interno dell'intero insediamento caratterizza il valore di integrazione dei singoli assi in relazione a tutti gli altri (esprimibile matematicamente attraverso un grafo). Al valore di integrazione sono riconducibili gli indici di leggibilità e orientamento nel, e del, sistema, che ne costituiscono l'interfaccia sociale, poiché definìscono la maggiore o minore disponibilità dell'insediamento a favorire incontri tra gli estranei e gli abitanti. La «ruota deformata» che è spesso la matrice formale .sottesa agli insediamenti a carattere produttivo (poiché altro è lo schema sotteso alle città a carattere cerimoniale e simbolico, cioè prevalentemente atte alla riproduzione dell'ordine sociale), mostra per esempio chiaramente una sorta di fulcro molto integrato, collegato direttamente alla periferia attraverso assi, o raggi, tra i quali hanno sede gli ambiti più segregati (o meno integrati) a funzione residenziale. Si giunge così al terzo tipo di leggi (e) quelle dallo spazio alla società. Tale rapporto è posto in termini non deterministici, ma probabilistici. La forma spaziale crea infatti il contesto degli incontri probabili cioè della comunità virtuale. La comunità virtuale è il prodotto diretto della forma spaziale e può avere una struttura densa o rarefatta. Applicando l'analisi sintattica dello spazio, associata a tecniche di rilevazione della posizione delle persone nello spazio e delle loro modalità di spostamento, viene dimostrato come gli indici di incontro delle persone sono statisticamente deducibili dalle proprietà morfologiche degli spazi. Troppo lunghe per una recensione seppure troppo brevi per restituirne convenientemente i contenuti, queste note hanno forse almeno suggerito la latitudine degli interessi sollecitati dalla lettura del testo citato, interessi di natura teorica, ma con precise ricadute sul piano operativo. Va tuttavia segnalato come l'approccio alla progettazione dello spazio qui prefigurato non è presumibilmente destinato a trovare, nell'ambiente culturale italiano, accoglienze troppo benevole (e se ne è avuta una prima indicazione in occasione del menzionato convegno organizzato presso la Facoltà di Architettura di Milano). Cercherò di indicarne le ragioni, nella speranza di conribuire a dare al dibattito, necessario, su questi temi, una dimensione non immediatamente «ridotta» alla gelosa difesa dei campicelli disciplinari. Una prima ragione sta nella evidente svalutazione che, nella lettura dei fatti urbani, il metodo proposto (la space syntax) opera rispetto all'approccio tipo-morfo-· logico, in Italia dominante, che si appoggia da un lato sulla attenta ricostruzione storica delle trasformazioni spaziali degli insediamenti, dall'altro sulla rilevazione e riproposizione delle invarianze tipologiche degli edifici, assunte a modelli progettuali. Questo approccio, dobbiamo riconoscerlo, è però ben lontano dall'offrire, rispetto agli interventi progettM1 o realizzati, dei termini espliciti di verifica, aldifuori della stretta cerchia dei cosiddetti specialisti: mentre la costruzione di un discorso oggettivabile e comunicabile che sottenda la progettazione dello spazio è proprio tra i principali obiettivi dello studio inglese. Una seconda ragione sta nell'essere, la space syntax, costruita esclusivamente in riferimento alle proprietà distributive delle costruzioni (il livello della commoditas albertiana). Ciò viene del resto esplicitamente ammesso da Hillier e Hanson i quali, tuttavia, da un lato affermano essere nei loro intenti di ampliare il proprio metodo fino ad includere la terza dimensione così come quelle linguistica e della memoria, dall'altro di ritenere comunque di precipua rilevanza - in rapporto al concetto di «comunità virtuale» - già quanto rilevato attraverso l'analisi distributiva, sia in funzione gnoseologica che normativo-progettuale. Una terza ragione sta, credo, nel sospetto di scientismo che l'uso del computer e di tecniche matematiche sofisticate, ma ancor più il rigoroso costruirsi del ragionamento attraverso postulati, dimostrazioni e verifiche, ingenerano in una «comunità scientifica» (se così vogliamo chiamarla) che ha ultimamente assunto, di fronte ai gravissimi problemi dell'ambiente e della sua costruzione, posizioni sempre più aristocraticamente «disimpegnate» (come si diceva una volta) giustificate in personali poetiche o nella logica del «progetto debole» - con una utili00 taristica estrapolazione di concetti <"-I l::s filosofici ben altrimenti problema- .:; tici. Atteggiamento che contrasta violentemente, com'è ovvio, con la fresca franchezza con cui Hillier e Hanson ci ripropongono l'organica indissolubilità dei due termi- ~ ~ l'-... ~ ...... ~ ... §- ni: spazio e società e l'urgenza di ~ portarne alla luce una supposta, i::: intrinseca razionalità. ~ -c:i g l::s
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