ridurle a cultura» (G.B. Vico, La Scienza nuova, cit. a p . 187). Di qui, il primato della poesia, poiché «l'intento di Vico è di stabilire il prevalere dell'ingenium e dell'immaginazione rispetto alla deduzione logica» (p. 48). Sembra, tuttavia, che tale «prevalere», in Vico, abbia un senso cronologico, più che ontologico; il precedere dell'immaginazione sulla ratio, se ha un valore fondante nei confronti del pensiero logicodeduttivo, non ha in sé alcun potere disvelante, non ha capacità veridittica: e quindi va distinto dal pensiero «filosofico». Vico in ciò è esplicito: «Per la qual discoverta de principi della poesia si è dileguata l'oppenione della sapienza inarrivabile degli antichi, cotanto disiderata da scuoprirsi da Platone infin a Bacone da Verulamio, De sapientia veterum, la quale fu sapienza volgare di legislatori che fondarono il gener umano, non già sapienza riposta di sommi e rari filosofi. Onde, come si è incominciato quinci a fare da Giove, si truoveranno tanto importuni tutti i sensi mistici d'altissima filosofia dati dai dotti alle greche favole ed a' geroglifici egizi, quanto naturali usciranno i sensi storici che quelle e questi naturalmente dovevano contenere» (G.B. Vico, Principi di Scienza Nuova, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, Tomo 2, p. 144). Questo svuotamento della «sapienza antica» di ogni rilevanza «filosofica» è in palese, contrasto con l'essenza stessa del pensiero heideggeriano, il quale rovescia il rapporto tra antico e moderno, considerando - come è noto - i presocratici come gli autentici pensatori (Anassimandro), presso i quali non esiste distinzione tra soggetto e oggetto, ma l'Origine indivisa assume immediatamente l'aspetto del luogo ove l'Essere «lascia» che il mondo «venga alla luce». La «sapienza» degli antichi produce talmente poco il «senso storico» dell'Occidente, che la nascita di quest'ultimo, mette a tacere, fa cadere nell'oblio la differenza ontologica. Vico, screditando filosoficamente l'immaginazione poetica, ma rivalutandola miticamente si presenta come il portatore di un'ideologia antropocentrica che getta le basi per quel «primato della poesia» (deprivata di qualunque potere conoscitivo e filosofico) che avrebbe trovato piena conferma nell'estetica idealistica e romantica. Heidegger, in effetti, non parla mai di «primato della poesia». La poesia come Dichtung è un luogo «Cahiers~ di Valéry a cura di Maria Teresa Giaveri in «Nuova Corrente» XXXII, n. 96 luglio-dicembre 1985 Una preghiera del signor Teste: Signore, io ero nel nulla; infinitamente nessuno e tranquillo. Sono stato disturbato in quella situazio- <::! ~ ne per venire immesso in uno stra- -~ no . carnevale... e, a cura vostra, :::, venni dotato di tutto il necessario ~ per soffrire, godere, capire ed in- -. ~ gannarmi; doni ineguali. ·i:: Vi considero il padrone di que- §- ~ ~ ~ sto nero che io guardo quando penso, in cui verrà scritto l'ultimo pensiero. Datemi, o Nero, il supremo l pensiero ... c:i Paul Valéry, Monsieur Teste che non può rivendicare un «primato», per il semplice fatto che essa si trova al di là di ogni contrapposizione di valori. È solo la Poesia, in quanto «ornamento» che può pretendere, irrazionalisticamente, un «primato» sulla ratio, costituendo quindi quell'alternanza fra intuizione e razionalità che domina la tradizione filosofica dell'Occidente. L'assunzione della poesia (Dichtung) come pensiero ( Denken), e non già come evasione estetica (Poesie), è possibile nell'epoca dell'oblio dell'Essere, proprio perché tale assunzione fa parte del cammino della storia dell'Essere: «Se ci incammineremo per questo cammino, esso condurrà il pensare a un dialogo [... ] storico-ontologico col poetare» (M. Heidegger, Holzwege, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 2~2). La rivendicazione heideggeriana del linguaggio poetico come luogo privilegiato per l'esercizio del pensiero, non sembra dunque avere nulla in coL, incremento progressivo della distanza favorisce l'esplorazione del «pianeta» Valéry, e tuttavia la figura di questo savant polimorfo rischia - come avviene anche dinanzi a Wittgenstein - di suscitare un effetto di straniamento, tanto l'immagine si frantuma fino a venirne deformata. Nel caso, singolare, di Valéry si produce in sovrappiù un mutamento nell'ordine delle competenze: il poeta e il letterato si tramuta in effetto di superficie, insieme «artificiale» e «impuro», del pensatore aurorale e sommerso dei Cahiers ( come già ricordava - con felice precognizione - Stefano Agosti in Pensiero e linguaggio in Paul Valéry, in Varietà, a cura di S. Agosti, Milano, Rizzoli, 1971, pp. 15-25). I 28 volumi infac-simimune con la tradizione estetica e . retorica della tradizione umanistica, che, come si è detto, sfocerà nell'esaltazione irrazionalistica del «primato della poesia» e nella mitizzazione «aureolata» dell'opera d'arte. C'è inoltre da aggiungere che l'apparire residuale di° una «rimemorazione» negli scrittori della tradizione umanistica occidentale non scalfisce in alcun modo l'impostazione heideggeriana che lavora sulla «medietà» e dunque sul- !' «innanzitutto e per lo più», sul fenomeno «nella sua quotidianità media». P iuttosto che in Vico sembra che la ricerca di una poesia come pensiero, distinta da una «poesia per immagini», si annunci in uno scrittore come Giacomo Leopardi, di cui escono ora, in edizione nuova a cura di Cesare Galimberti, le Operette Morali. L'Introduzione, in gran parte le dei Cahiers (C.N.R.S., 1957-61; è m preparazione un'edizione completa sotto la direzione di Ni-. cole Celeyrette-Pietri e Judith Robinson-Valéry) non appaiono soltanto come il monumento postumo che il rigore parossistico di Valéry ha elevato alla gloria futura, ma si pongono con prepotenza ai vertici del pensiero contemporaneo. Inoltre, con il moltiplicarsi delle traduzioni in lingua italiana 1 cresce parallelamente l'attenzione critica: il recente Convegno milanese2 e il fascicolo monografico di «Nuova Corrente» ne sono gli esempi più recenti e significativi. Disarmato dinanzi alla duplicazione delle conoscenze, mi limito a fornire - muovendo soprattutto dal fascicolo di «Nuova Corrente» - qualche ragguaglio intorno a due rinnovata, rappresenta un contributo di straordinario interesse per accostare uno dei nodi più spinosi della poetica leopardiana, e preci- ·samente la questione del rapporto tra poesia e pensiero, che ancor oggi appare irriducibi_lead una sistemazione definitiva in sede critica. In Leopardi è presente la consapevolezza radicale che la «rimemorazione» dell'Origine ha a che fare con le tracce, e nessuna restaurazione dell'àQXTI è quindi possibile qualora essa tenti di imHemingway vid Levine (1981) y Studio Marconi porsi in forma positiva e propositiva. La critica alla spiritualizzazione del mondo introdotta dal platonismo (Cfr. il Dialogo di Plotino e di Porfirio), è pensabile solo in forma residuale attraverso un linguaggio poetico capace di illuminare, per via negativa, una «condizione ignara non soltanto della ostilità della ragione alla natura, ma della distinzione stessa tra vero e falso, estranea persino alla possibilità del costituirsi di nozioni contrapposte o anche solo distinte; a uno stato, in definitiva, totalmennuclei tematici di immediata fruizione: l'indagine sulle forme della conoscenza (che sollecita gli studiosi di ermeneutica, euristica e intelligenza artificiale) e gli interrogativi sullo spessore della temporalità. La più recente critica genetica ha esaltato, con acribia e formalismi crescenti, l'interna complessità ricorsiva della scrittura dei Cahiers e la sua inerenza germinale rispetto alle opere in versi da un lato («ginnastica verbale e mentale») e ali' écriture sur commande dall'altro (cfr. l'Introduzione di Maria Teresa Giaveri, in «Nuova Corrente» pp. 261-266 e l'Introduzione della stessa a La caccia magica, cit., p. 10). 3 L'intricatezza costitutiva dei Cahiers - sfuggiti di mano allo stesso artefice, che avete indifferenziato, alieno da qualsiasi distinzione: tra uomo e animale, tra mondo animale e mondo inanimato, tra soggetto e oggetto [...]» (p. XXIV). Questo orizzonte che trascende gli enti, ma che è visibile solo a partire dall'Esserci e dal dolore che ne costituisce la dimensione autentica, e che non è in nessun modo riducibile ad un'entità divina (cfr. la critica leopardiana del Cristianesimo e il suo gnosticismo «negativo» su cui a ragione insiste Galimberti), assume certamente assai più della «foresta primordiale» del Vico, i connotati dell'Essere al quale pensa Heidegger. Proprio nelle Operette morali sembra prender corpo il convincimento che la storia dell'Essere e la storia del pensiero si identificano, e dunque nessuna poesia o filosofia è possibile, se non a condizione di farsi carico del nihilismo attuale. Questa sembra la ragione che induce Leopardi a «seguire fino in fondo» il declino del pensiero occidentale e la sua manifestazione predominante, la metafisica: «Senza mai smentire i suoi iniziali convincimenti sul mondo cristiano e moderno come epoche di esistenza impoverita, non si limita ora al rimpianto, al lamento, alla protesta. Alla tattica, praticata nelle Canzoni e negli Idilli, di rimozione o di ribellione, sostituisce la paradossale strategia della messa in opera, fino alle conseguenze estreme, del metodo filosofico nuovo» (p. XV). L'Introduzione di Galimberti, che si avvale di un ormai trentennale esercizio di lettura dei testi leopardiani (del 1959 è quello straordinario saggio Linguaggio del vero in Leopardi, pubblicato da Olschki, che riusciva a cogliere, quando ancora la critica leopardiana era impaludata nelle risibili questioni del «progressismo», i nessi tra scelte stilistiche negative e orientamenti del pensiero) non esplicita questo rapporto tra i temi leopardiani delle Operette Morali e l'analitica esistenziale, ma sembra innestarsi in una tradizione esegetica, forse minoritaria, che rifiuta ogni ideologizzazione per cogliere la complessità delle scelte stilistiche- e speculative del Recanatese, assieme alla loro portata epocale. Ed è probabilmente proprio nell'attuale crisi irreversibile dei «valori»· umanistici che l' «inattualità» del pensiero leopardiano - ad onta di ogni «interpretazione» rassicurante: etica o politica, neoumanistica o neo-positiva - potrà cessare - come Galimberti auspica a conclusione del saggio - di essere tale. va accumulato con voluta pazienza i 258 quaderni in vista di un irrealizzabile ordinamento, tentato nel 1908 e dal 1921 in poi (cfr. la testimonianza del figlio Claude, Historique des «Cahiers» de Valéry (1894-1974), m «Nuova Corrente», p. 278) - ha favorito la proliferazione degli specialisti, a pàrtire dalla meritoria dedizione della Robinson-Valéry. Ora che l'edizione antologica della Pléiade si avvia a passare alla storia del testo è possibile moltiplicare il livello d'intervento critico: Gianfranco Gabetta ha saggiato con successo il rapporto tra i prelievi della Robinson-Valéry e l'edizione in facsimile offrendoci (in un ancora inedito Compas Cahiers) una felice rappresentazione grafica computerizzata che visualizza la para-
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