Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

borazione con l'ente pubblico, le amministrazioni e le istituzioni (famose, la sistemazione con riuso di una fabbrica di cioccolato, nota a San Francisco come Ghirardelli Square e, qua e là per gli States, una serie di cascate-paesaggio manufatte secondo gli indirizzi del movimento organico). Alprin è personaggio carismatico, noto anche per la sua azione politica a Berkeley negli anni sessanta-settanta assieme alla moglie danzatrice che con lui collabora. A Firenze, introdotto da Zevi sotto le ali paterne di un sempre vivacissimo Michelucci, la sua proposta non è piaciuta: bocciata da ecologi, giornalisti-sociologi, professionisti conservatori (del genere «nel paesaggio toscano il semplice poggiarsi di un ulivo ritrova una sua cadenza»), professionisti avanzati e, in genere, da quanti privi di chiamata Fiat o Zevi. Ma a Firenze è noto come ben altre aree, più vaste di questa Fiat di Novoli, siano occasione di bagarre di competenze e di agudezas della ricomposizione politica delle commesse più che di quella dell'ambiente. Un ambiente e una periferia (a scapito dei rigori puristi del toscanismo dell'intangibilità per supervalori storico-culturali) tra i degradati e polverizzati che vi siano in Europa. Ora al di là della dichiarazione di intenti di Alprin traboccante di «moralità», quasi ovvia e - tentante - come nel «sogno» democratico americano di un film di Altman; al di là della sua concreta apparizione nella rissa di un dibattito italiano con dignità di proposte innovative, sarei anch'io a chiedermi cosa sta dietro a Alprin e a mamma Fiat, i giuochi, ovviamente, non essendo ancora chiariti. Forse, siamo soltanto alle prime fumate di una pentola, con ingredienti di teatrino in bollitura ... coi politici alle porte, la caccia alla commesse e gli ecologi che, in realtà, hanno sempre ragione. Ma un progetto alla Alprin, così come quello sul quale ha voluto intrattenerci a Firenze, a me in fondo andrebbe bene. Un progetto che, nella sua "'«ingenua» trasparenza .. modernista, rappresenta in realtà la negazione assoluta di tutte le premesse - oggi - nel dibattito (italiano e europeo) del progetto di una ricomposizione urbana, omologata al computer e che vagheggia il sogno della città di Speer a misura di una periferia - precotta - nell'orpello neo-monumentale. Che si avveri pure dunque, in quel di Firenze, questa ipotesi dei Changing Places recinto «radicale» del pellirossa-novolese liberato, con recita dello stesso dentro uno scenario (con emblema del soggetto) di un parco territoriale di nuova promozione: un ridente tribunale qui, gli uffici ai bordi del laghetto, il laghetto pedonale più in là, tanti parcheggi ventilati e magari l'ulivo - centenario - museificato come nella plaça de Catalùnya a Barcellona ... con tanti visitatori che possano sciamare dalle altre periferie prive di significato. Quanto ai rischi eventuali di un travestimento della natura, non vedo quali essi siano, trattandosi di un tassello di una vasta area urbana conclusa - desertificata - da qualsivoglia riferimento al naturale: l'unico valore emergente essendo il cemento. Quindi ben vengano gli ulivi californiani (concessa l'ipotesi di una santità Fiat) e-un museo del landscape come pausa consentita, lembo onirico di territorio riconoscibile nel tumulto dell'inferno di una periferia urbana. Laregola B!ottil modello Françoise Choay La règle et le modèle Paris, Seui!, 1980 Tr. it., La regola e il modello Roma, Officina, 1986 pp. 390, lire 30.000 I n un saggio recentemente uscito in Italia, Françoise Choay propone una verifica delle proposizioni teoriche sottese alle discipline dello spazio attraverso una analisi strutturale e linguistica di quei testi che, a partire dal Rinascimento, hanno accompagnato l'evolversi della riflessione sull'architettura e sulla città nell'ambito della culturà europea. Perché dal Rinascimento? Perché è in tale periodo che ha luogo, secondo la Choay, la laicizzazione e la emancipazione dei vari saperi da ogni presupposto mitico-religioso e l'uomo si costituisce come attore, volontario e responsabile, che impone le proprie leggi e il proprio dominio sulla natura. Il costruttore-eroe, che Leon Battista Alberti fa protagonista del suo trattato De Re Aedificatoria, si distingue in ciò nettamente dai costruttori del passato. Non solo del passato più recente, quello dei liberi comuni medievali, cui pure la Choay attribuisce la capacità di fornire attraverso gli editti (testi «argomentatori» come li definisce) un supporto dialogico-di- _scorsivo che «fissa un equilibrio, in seguito mai più ritrovato, tra la città come realtà materiale e la città come insieme di istituzioni, tra le forze della tradizione e la potenza dell'innovazione, tra l'iniziativa degli individui e il consenso della società» (p. 43); ma anche dai costruttori dell'antichità, soprattutto romana, di cui pure l'Alberti aveva amorosamente studiato e minuziosamente ridisegnato i monumenti. Ciò che infatti, secondo la Choay, fa def De Re Aedificatoria un testo «instauratore» (assolutamente originale rispetto al trattato vitruviano De Architectura cui spesso è stato semplicisticamente avvicinato) è la coscienza della artificialità delle costruzioni umane, della loro impossibilità a fondare la propria verità/necessità al di I'-... c:s fuori della propria stessa implicita .:; razionalità. Una razionalità non ~ empiricamente ricavabile da una r-.... tradizione costruttiva già esisten- ~ te, secondo il metodo vitruviano, ma da costruire ex novo sulla base ~ di precisi «operatori» teorici e pratici. La Choay individua così cinque «assioni» e tre «principi» attraver- ~ so il cui lavoro incrociato si svilup- l pa la mirabile architettura del te- ~ sto instauratore dell' Alberti, e si fondano le sue regole per la costruzione della città e degli edifici. I cinque assioni sono i seguenti: 1. l'edificazione consiste di tre parti: necessità, comodità, piacere; 2. l'edificio è un corpo; 3. la diversità degli uomini e i loro desideri sono senza limiti; 4. l'edificazione consiste in sei operazioni: regione, area, divisione, muro, tetto, aperture; 5. la bellezza dell'edificio dipende dalle misure, dalle proporzioni e dalla localizzazione. I tre «principi» invece sono quelli di frugalità, di durata e dialogico. Nel sottolineare la caratteristica di unitarietà organica (di matrice aristotelica) di ogni costruzione e l'indissolubilità m essa dei tre na e si indigna di fronte ai costumi corrotti e al malgoverno della corte inglese; il viaggiatore-narratore, Raphael Hythloday, che riferisce della sua esperienza, e l'eroe Utopo che, attraverso il taglio di un istmo di 15.000 passi aveva isolato Utopia dal continente e poste le premesse pe! la crescita autosufficiente del nuovo stato. Questo artificio permette il dispiegarsi del discorso didascaliconormativo del testo attraverso la descrizione del funzionamento dello stato buono e bello per eccellenza e la implicita contrapposizione al suo omologo cattivo, l'isola· britannica. Ma ciò che caratterizza Utopia e la distingue, per esempio, da La Repubblica di Piaessenziale di mantenere immutata e immobile la figura originaria), il modello spaziale di Utopia viene ad assumere così, nella sua rassicurante e insieme inquietante, già data-per-sempre, perfezione, quel ruolo di farmakon che così spesso, successivamente, e soprattutto in epoca moderna, vedremo attribuito allo spazio. Il sistema di regole albertiane (i cui esiti restano aperti alle infinite possibilità del desiderio umano) e il modello utopiano (in cui lo spazio opera come difesa dal futuro ignoto attraverso un rigido controllo del comportamento sociale) instaurano così i due principali paradigmi che, impoveriti e distorti, sottostanno, secondo la Choay, al Senza titolo, 1957, olio su tela, 200,6 x 284,5 cm principi di necessità, di comodità e di piacere (il primo che richiama il fine essenzialmente pratico-tecnico del costruire, il secondo che ne sottolinea la necessità di adattamento alle molteplici funzioni umane, il terzo che ne riconosce la dimensione estetica o del desiderio: risposta a un bisogno secondo, ma ineludibile, dell'uomo), «l'Alberti pone così per la prima volta nella storia ciò che noi chiameremmo la semiologia dello spazio costruito» (p. 149). Ma la specificità del testo albertiano viene ulteriormente evidenziata dal confronto con un secon- . do testo «instauratore», l'Utopia di Tommaso Moro, di pochi decenni più tardo. In Utopia, siamo di fronte a tre personaggi dialoganti a distanza: lo stesso Moro, il cancelliere inglese che si appassiotane, che certamente influenzò l'ideazione del trattato di Moro, è il fatto che il buon funzionamento dell'isola felice è assicurato essenzialmente attraverso il controllo del dispositivo spaziale. Le norme minuziose che regolano infatti le città di Utopia - tutte identiche tra loro in dimensioni e struttura - così come la loro distribuzione sul territorio e il loro rapporto con la campagna circostante, operano infatti nella direzione di stabilire un nesso implacabile tra spazio e comportamento sociale, al quale offrono una sorta di controforma rigidamente prefigurata. Annullata la dimensione del tempo (le continue e attente manutenzioni cui gli abitanti sottopongono i loro edifici hanno qui, infatti, molto diversamente che nel De Re Aedificatoria, lo scopo discorso teorico sulla architettura e sulla città fino ai nostri giorni. La «regola» albertiana giunge infàtti alla trattatistica neoclassicista, col suo «regresso vitruvizzante» il cui «effetto più spettacolare [... ] è rappresentato dalla rottu9,1dell'equilibrio, elaborato dall' Alberti, fra i tre livelli della necessità, comodità e bellezza, a profitto di quest'ultimo» (p. 244). Così, «all'organizzazione del quadro di vita urbano, all'architetto-eroe, succede l'architetto-artista: che non ha più alcuna trasgressione da scongiurare e può teorizzare in pace le regole della bellezza» (p. 247); mentre «il compito affidato al disegno [... ] sovverte il fine, tutto albertiano [... ] consistente nel far comprendere delle operazioni ed esporre dei progetti. [Riducendosi a) presentare degli oggetti [... ] il disegno finisce per soppiantare il discorso verbale [... ] Al posto dello scrittore, cioè, si installa un produttore di immagini» (p. 250). D'altro lato, il paradigma istituito dal modello spaziale di Utopia appare prepotentemente attivo soprattutto a partire dall'ottica di medicalizzazione secondo la quale, nell'Ottocento - attraverso il pensiero positivo - tutte le scienze umane, tra le quali quelle dello spazio, leggono la città come «malata» e ne propongono a rimedio la specializzazione e la istituzionalizzazione. E mentre il panottico bentamita, «edificio-macchina a finalità normativa dal quale è espulsa ogni ricerca di bellezza» (p. 296), diventa il modello di riferimento generalizzato, i testi panottici «concepiti per fini carcerari, pedagogici, ospedalieri, si presentano come tante utopie parcellizzate e monosemiche, private di una messinscena e di locutori-testimoni» (p. 297). Come si è accennato, pur attenendosi rigorosamente al proprio programma di una analisi strettamente linguistica dei testi instauratori e di quelli da questi derivati, l'interesse della Choay è mosso da un preciso coinvolgimento sui problemi concreti dell'architettura e dell'urbanistica contemporanea il cui stato di crisi e di involuzione essa già in un precedente studio di circa 15 anni addietro, La città. Utopie e realtà, Einaudi 1973, imputava in gran parte «all'impostura di una disciplina che, in un periodo di costruzione febbrile, imponeva la sua autorità senza condizioni» (p. 16). Oggi quella critica disvelante, di chiara matrice foucaultiana, appare marcata da una intenzione più propositiva. L'individuazione delle matrici ideologiche sottese alla moderna disciplina urbanistica «nuova figura testuale nata dalla destrutturazione del trattato di architettura e dalla dislocazione dell'utopia» (p. 303), mentre da un lato conferma, con pochi aggiustamenti, il giudizio dato in quel primo testo, suggerisce dall'altra parte, contemporaneamente, la necessità di risalire ai trattati instauratori (e in particolare a quello albertiano) per cogliere, nella loro complessità e ricchezza, quei principi teorici che conservano ancora oggi valenze non saturate, in riferimento soprattutto alla centralità con cui, in entrambi, la costruzione dello spazio è stata posta, indissolubilmente, come costruzione della (e per la) società degli uomim.

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