Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

V i è un passo, nello sterminato «schedario» di Benjamin, sul museo ottocentesco concepito come luogo di una ambigua dialettica tra ricerca scientifica e connotazione emblematica di epoca trasognata del cattivo gusto, Infatti, quasi ogni epoca sembra aver sviluppato, in base alla propria disposizione interna - un determinato problema architettonico - ed è proprio l'Ottocento (con la sua inclinazione rivolta all'indietro a lasciarsi permeare dal passato) che si riveste di travPstimenti storicistici, comprimendo le nuove possibilità costruttive dentro scenari di pietra. Nel periodo più recente, la trasparenza e la porosità del movimento moderno sembravano aver definitivamente messo fuori causa la monumentalità fatale e ereditaria: anche nei nuovi musei (il Guggenheim, i musei di Oakland e di Berkeley, la National-Galerie a Berlino ... ) si imponeva una ben differente e organizzata spazialità sottratta al brivido storico. Oggi lo scenario è alquanto cambiato (ammesso poi che mai -sia stata eretta una diga di vetrocemento a salvaguardia della trasparente porosità modernista). Anche senza fare esclusivo riferimento al dibattito in corso sulla museografia o a quello del riuso delle strutture del passato, il progetto di architettura viene, di norma, fondato (anche come utopia del nuovo) con rinnovato accesso al brivido della memoria storica e al culto delle «rovine». Oggi le «rovine» del passato sono ovunque nel presente: anche nei gusci-cattedrali della Fiat, dove, perduto il senso della motivazione originale, si promuove la ri-costruzione di una specificità del luogo perlomeno come emblema celebrativo e propagandistico (concorso del Lingotto); mediante il disotterramento dalle rovine di strati consistenti di significato - con aggiornamento successivo - e allegoria del nuovo; ma il nuovo «o non c'è o sta altrove» (nel robot alla catena di montaggio). Infine questa invocazione del nuovo come ultima spiaggia (proprio in base alla disposizione interna - della nostra epoca - di raccogliere e custodire tracce ... ) viene praticata, nei grandi interventi del restauro di architettura e della conservazione di un ambiente, come l'ultimo travestimento di uno spazio (più nel senso di intérieur) che sta per indossare, come un essere tentatore, i costumi degli stati d'animo. Due sono gli episodi - rilevanti - dell'ultimo periodo, dentro questo scenario progettuale: - l'annessione al paesaggio museografico parigino di una «rovina» (la Gare d'Orsay) riplasmata da Gae Aulenti con sofisticato specialismo; - il progetto fiorentino (di larga intenzione e per ora sussurrato appena) di riuso di un'area periferica di proprietà Fiat di un ambientalista americano come Laurence Alprin con ipotesi innovativa e di totale trasformazio_ne; questi opera nella linea di una nuova frontiera del paesaggio (degradato e privo di connotazione) come una California possibile; non senza rischi, però, di un travestimento della natura garbatamente risarcitivo. Due situazioni antitetiche e con matrici culturali affatto diverse. Ma in qualche modo sincrone al filo epocale (tra raziocinio e sogno) del progetto urbano - oggi - Scenarimuseali dentro la cultura delle rovine, dei resti, dentro i modi attuali di una certa teatralizzazione del mondo con sceneggiature urbane ad usum delphini (lo spazio e il potere più che il potere della spazialità). Entrambi i progettisti hanno partecipato al concorso per la sistemazione dell'area del Lingotto. Le stazioni e, in genere, tutte le architetture del ferro (mercati coperti, palazzi delle esposizioni, ecc.), hanno rappresentato per tutto il XIX secolo il simbolico ruolo di dimore oniriche del collettivo. Esse si associavano ai momenti funzionali della vita economica - fondati suile nuove conquiste della tecnica - e non erano certamente prive di «artisticità» se, proprio a proposito della Gare d'Orsay appena inaugurata nell'anno 1900, qualcuno aveva voluto asserire che «assomigliava a un Palais des Beaux Arts» e, ·ironicamente, la proponeva per questa destinazione d'uso. In realtà la Valerio Morpurgo seali (soprattutto europei e in particolare tedeschi), sulle indicazioni di metodo e sulle coordinate museografiche a essi relative: meno labirintiche che a Parigi, con adeguamento a una scala più ragionevole e, talvolta, mediante aggiustamenti e sovrapposizioni al di sopra di istituzioni già funzionanti e riconoscibili. Se per il Musée d'Orsay è possibile una prima valutazione, ammetto che, nel mio riferimento personale, questa si precisa sull'onda di un impatto con la fantasmagoria di una profezia che si avvera. Più meditato e consapevole potrà essere un bilancio che si compie nel ragionevole rito dell-aconoscenza. Dunque per ora soltanto un emozionale rito di passaggio sul filo di una soglia finalmente varcata (e per i lunghi anni dei «lavori in corso» prefigurata in congetture e intrighi spaziali sottili attraverso gli addocchiamenti dal Lungosenna sulla rovfoa assopita). in salita - soltanto ai tecnici. Percorsi che qui a Orsay sono questi inediti delle «torri museali», delle gallerie degli impressionisti (con effetti «illuministici» che mi fanno ricordare la Dulwich Gallery di Soane) e i nuovi scorci di segnalazione urbana, sul Louvre e le Tuilleries, aperti come emozionanti momenti di pausa nella caffetteria e nelle sue terrazze. Il prim·o impatto per chi si affacci su di questo imponente labirinto museale è senz'altro quello di un attraversamento epocale (quella attuale che ha ancora qualche - ovvia - attinenza con la porosità e la trasparenza del XX secolo). Uno spazio che si realizza nella indubbia complessa modernità di un veramente nuovo che non è però quello che si rende percepibile per la prima volta con la sobrietà del primo mattino (a questo proposito si veda il mio intervento Sommossa dei disegni onirici sul n. 88 di «Alfabeta» ). Voglio a questo punSenza titolo, s.d., gouache su carta, 45 x 52,5 cm stazione non era piaciuta molto e, soltanto nell'epoca più recente, sarebbe risultata comprensibile e accettabile la metonimia del luogo funzionale che diviene luogo culturale e museale. Sono abbastanza noti gli accadimenti francesi che, verso la metà degli anni settanta, hanno promosso la trasformazione di questa «rovina» nella linea precisa di un cambio di destinazione d'uso: l'ipotesi di un risarcimento per l'abbattimento delle Halles attraverso la presa di coscienza dei valori dell'archeologia industriale; la vasta sensibilizzazione opera_ta nel 1980 come anno del patrimoine; il buon momento dell'economia produttiva e di mercato che susseguiva il trauma sessantottesco; l'effetto «grands travaux» conclamato nei progetti della grande scala pubblica e l'impatto .con il nuovo Palais Beaubourg per nuovi consumi culturali di massa - archiviati quelli politici. E ntrando in questo inedito Musée d'Orsay mi pare di poco ausilio un riferimento con i più recenti esperimenti muE ancora sarà necessaria, attenuata la grancassa degli effetti speciali e delle omologazioni imperiali, una conferma riferita alla nai"veté quotidiana del pubblico. Un pubblico che non dispiace rivedere (per un attimo e con lampo di paradosso fulmineo) sornionamente imparentato con le masse del «basso materialismo» di un Bataille (il Bataille di Documents che non piacque neppure a Breton); che definiva un museo, l'insieme delle sale e degli oggetti artistici, nient'altro che «un contenente il cui contenuto è formato dai visitatori [... ] i quadri non essendo altro che superfici morte, laddove è nella folla che si producono i giochi, gli scoppi, gli sfavillii luminosi descritti tecnicamente dai critici autorizzati». Un museo, questo d'Orsay, che realizza, inoltre, nell'originalità e nella «novità» di alcuni suoi percorsi, un'altra metafora di Benjamin-Giedion: quella dell'accesso al nuovo, al decisivo dello spazio, nei luoghi che per lungo tempo (prima dell'avvento delle architetture funzionali) erano accessibili - con percorsi to precisare - a chiare lettere - e a evitare qualche possibile fraintendimento, che risulta evidente per quale non agevole erta museografica si sarebbe inoltrato chi avesse voluto fare i conti con una preesistenza del genere (quasi un' «astuccio» premonitOFe e universale di tutto il tardo Ottocento); come l'inclinazione più facile sarebbe stata quella di lasciarsi irretire dalla polverosa fata morgana del giardino d'inverno, con la fosca prospettiva della stazione con l'altare della fortuna nel punto in cui si intersecano i binari [. ..] dalla principessa col viso di orologio che sbuffa e che fischia. (Sempre da Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, come le altre citazioni in questo testo riportate in corsivo), inclinazione che Gae Aulenti - senza mezzi termini - ha evitato con sovrapposizione di una sua lingua, a più voci, del proprio sofisticato lessico d'architettura. Riplasmando l'ingombrante astuccio, guerreggiando con esso in ogni sua connessura, di per sé già ripiegata e sagomata. Attraverso un'infinità di autonome congetture spaziali, funzionali a un percorso museale dal permanente intrigo tra contenente e. contenuto. Vi è inoltre, nel Musée d'Orsay, una risoluzione importante ed è quella di aver rimosso l'implicazione di intérieur (nel museo ottocentesco l'interno di un museo si precisava come intérieur elevato a potenza) che avanza verso l'esterno, riproponendo con la grande galerie una strada coperta (o passage) con due serie di facciate spazialmente complesse e con intersezione di percorsi. Il tema dell'architettura è stato sinora quello che ha sollevato un maggiore dibattito attorno a questo nuovo spazio museale (ben diverso dalla macchina «iperrealista» del planetario fieristico delle arti che è poi il Beaubourg dove, tra l'altro, proprio Gae Aulenti - nel Musée nationale d'art moderne - ha rimosso il XX secolo di Tati per una più attendibile fruizione dell'opera). Vi è poi - rilevante - la coordinata museologica (le opere e lo squarcio d'epoca da ritagliare sopra di esse). Sarà però lo storico a valutare se sia stato esemplare sezionare il XIX secolo: privilegiando il momento dell'apoteosi borghese (Baudelaire, Proust, la pittura di Manet, le Nouvel Opéra, ovviamente più congeniali alla traccia di Orsay) al sublime della borghesia «eroica» (Stendhal, il primo Ingres, i romantici tedeschi, la querelle romantica per una nuova concezione dell'antichità «molto diversa dalla fredda calma della libertà descritta da Winckelmann e dipinta da David» (Hugh Honour). Forse l'intento critico dei coordinatori francesi è stato quello di opporsi all'egemonia degli impressionisti su tutta l'arte figurativa del XIX secolo - consacrata - dalla cultura di massa anche per omologazione dei valori del mercato; annettendo taluni settori della cultura accademina o pompier, tra pittura e arti decorative, e altri ancora più pertinenti ai nuovi strumenti della riproducibilità, tra architettura, fotografia e le nuove tecniche dell'arredo seriale (Guimard, le sedie Thoner, ecc.). V enendo ora al progetto ambientalista dell'area Fiat a Novoli, è chiaro che rientra con più pertinenza nella utopia ricompositiva delle degradate periferie urbane prive di connotazione, con scontro più diretto tra effetto economico, politico e speculativo; la valenza museologica, un «effetto secondario» ma non completamente metaforico, sta dentro l'ipotesi di una museificazione territoriale. È di questi ultimi tempi, infatti, la tendenza della più avvertita imprenditoria privata (vincente sulle sabbie mobili della programmazione pubblica) di «risarcire» i propri utenti - per logica del Capitale - attraverso una vera e propria promozione museografico-celebrativa; proposte che arrivano sino al «travestimento» di imponenti operazioni speculative ~ (è il caso di Firenze), affidando a -5 un ambientalista come Alprin !'in- [ carico di individuare un'area-pae- r--... ~ saggio per il terziario «avanzato» e -. per un consumo sociale privilegia- o ~ to dentro un ambiente riqualifica- c:::s to e, in qualche modo, segnalato E come «museo di un ambiente». ~ Laurence Alprin è architet- ::: to-ambientalista assai noto in ~ Cl,) America e con prestigio di molti i progetti realizzati. Spesso in colla- ~

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