il punto debole delle argomentazioni di Gadamer ha a che fare con quell' «insostenibile nichilismo ermeneutico» da cui pure egli cerca in vari luoghi (a esempio Gadamer 1960, pp. 312-319) di difendersi. In effetti, all'interno della sua impostazione, il problema della correttezza della interpretazione resta sostanzialmente irrisolto. Per quanto egli parli di una «resistenza» offerta dal testo, di questo non sembra possibile alcuna interpretazione giusta o, almeno, come forse è più opportuno dire, più adeguata. Ogni interpretazione consapevole di sé (e quindi disposta a «uscire dal cerchio delle private pre-supposizioni» dell 'interprete, evidentemente - ma non del tutto chiaramente - distinte dalla indispensabile precomprensione) sembra egualmente legittima; e comunque non viene mai definito alcun criterio rigoroso di verifica. Il fatto è che, per Gadamer, come per Derrida, l'interpretazione non è conoscenza e si risolve sostanzialmente in un fatto privato e metastorico (cfr. Cambiano 1985, p. 262). La storicità dell'interpretazione si riduce alla sua frantumazione caso per caso: la fusione di orizzonti, già fortemente sbilanciata in senso soggettivistico dalla precomprensione che la fonda, congiunge (e anche sovrappone e confonde) due esperienze di per sé,già assimilate dal flusso comune della tradizione, con la conseguenza di un totale relativismo che destoricizza non solo il testo privandolo della sua alterità storica ma l'operazione stessa dell'interprete. Tutto viene risolto in interiore homine, nella purezza di un'esperienza assoluta, meramente spirituale, magica persino, mai sociale. Leggasi Gadamer, (1960, pp. 201-202): «Nulla come lo scritto ha il carattere di pura traccia dello spirito, e nulla però come esso è rimandato allo spirito comprendente. Nella sua decifrazione e interpretazione accade un miracolo: la trasformazione di un oggetto estraneo e morto in qualcosa che ha·per eccellenza il carattere della vicinanza e della familiarità [... ] Perciò la capacità di leggere, di int~ndersi mediante lo scritto, è come un'arte segreta, anzi come una magia che ci libera e ci lega. Nello scritto, tempo e spazio sembrano soppressi. Chi sa leggere ciò che è tramandato per iscritto attesta e insieme realizza la pura presenzialità del passato». Il momento oggettivo della produzione (sia del testo, sia dell'opera che lo interpreta) non viene ritenuto degno di considerazione (esattamente come accadeva nell'idealismo crociano). Gadamer trascura nel modo più assoluto la differenza tra il momento della lettura interiore e quello della interpretazione resa pubblica dalla scrittura critica e dalla pubblicazione. Egli non vede che «procedere alla scrittura di una interpretazione comporta anche la mobilitazione di tecniche argomentative» (Cambiano 1985, p. 261) e che - dall'interpretazione dei testi sacri a quella dei testi letterari e dall'antichità a oggi - la funzione dell'interprete è anche quella, suasoria, di chi svolge un preciso compito sociale. Contro Gadamer, Hirsch pone al centro della propria indagine appunto la questione della validità della interpretazione. Ma la sua distinzione fra meaning (significato) di un testo e significance (significatività) di tale significato in rapporto alla situazione attuale dell'interprete, fra il «significato testuale» garantito dalla immutabile base semantica e il senso mutevole (significatività o significanza) che esso viene ad assumere per interpreti di volta in volta diversi (Hirsch 1967, pp. 17-18), si scontra. con una serie di obiezioni: 1) sul piano della significance, viene allargata smisuratamente l'ampiezza e la liceità delle interpretazioni possibili (anche se poi ciò permette di delegittimarle più facilmente); 2) sul piano del meaning, tale ventaglio di possibilità viene rigidamente ristretto al significato unico su cui si misurerebbe la validità dell'interpretazione e che sarebbe sancito dalla intenzionalità e dalla volontà, razionalmente consapevole e rettilineamente espressa, dell'autore, l'una e l'altra, in realtà, assai problematiche e comunque difficilmente accertabili; 3) sul piano del rapporto fra meaning e significance, Hirsch sembra ignorare che ogni testo letterario gioca costitutivamente sullo spazio che intercorre fra l'uno e l'altro rendendoli di fatto inseparabili: la significatività è già inscritta nel significato. Se Gadamer non si cura della semantica per privilegiare il momento soggettivo della interpretazione, Hirsch compie una forzatura speculare e opposta concentrando la propria attenzione sulla volontà dell'autore e sul meaning che ne sarebbe l'unica espressione e trascurando così il momento interpretativo. In conclusione, tanto prospettiva che, disgiungendo coerentemente e definitivamente semantica e interpretazione, approda conseguentemente alla tesi dell'illeggibilità del testo. In un certo senso, il destino del pensiero contemporaneo, nelle sue principali varianti, viene svelato e mostrato nel suo necessario punto di arrivo, vale a dire nel suo sostanziale nichilismo. Che occorra mettere in causa qualsiasi possibilità di incontro fra poetica ed ermeneutica, fra grammatica e significato, fra simbolo e ciò che è simbolizzato è punto d'onore di de Man che infatti dedica a questo impegno, pochi mesi prima della morte, anche la conclusiva delle sue lezioni a Cornell, quella dedicata a Il compito del traduttore di Benjamin. Il saggio benjaminiano è qui usato come supporto alla tesi demaniana per cui «Quello che io significo è sovvertito dal modo con cui io significo» (de Man 1986, p. 87), problema, que- .sto, che può essere esposto anche nella seguente forma teorica: «Tale disgiunzione è meglio compresa in termini di difficoltà di relazione fra l'ermeneutica e la poetica della letteratura. Quando si fa dell'ermeneutica si ha a che fare con il significato dell'opera; senso lato». Dunque il tentativo di controllare e chiarire il significato procede per via grammaticale, ma «nessuna decodificazione grammaticale [... ] è in grado di cogliere le specifiche dimensioni figurali di un testo», cosicché la lettura è «un processo negativo, in cui la conoscenza grammaticale viene continuamente dissolta dalla retorica» (de Man 1986, pp. 15-17). Ed è conseguenza della disgiunzione fra il tropo in quanto tale e il significato come potere totalizzante delle sostituzioni tropologiche. De Man lavora in due direzioni: da un lato apre, all'interno della semantica, una frattura fra grammatica e retorica e fra simbolo e simbolizzato che dimostri l'inconciliabilità dei due termini e per far ciò deve considerarli nella loro reciproca separatezza e nella loro astrattezza, non solo divisi fra loro ma senza correlazione con il contesto pragmatico della comunicazione. Dall'altro, all'interno della interpretazione, apre un'altra frattura fra Reading ed ermeneutica, intendendo il primo come «processo negativo» in cui risulta indecidibile il significato di un testo, e la seconda come rinvenimento di un significato e dunque di una verità nel testo (ovviamente - osserCollage a colori, 1957, olio e collage su tavola, 35,5 x 42,5 cm l'uno quanto l'altro separano semantica e interpretazione. B. È illeggibile l'allegoria? Tornando (da de Man) a Benjamin 1. Siamo forse arrivati a un punto cruciale. Se disgiungere struttura semantica e attività interpretativa attraverso il privilegiamento del primo elemento induce a uno scientismo che, strappando l'opera dal suo contesto pragmatico, tutto riduce all'oggettività del testo e nulla concede al punto di vista del lettore; separarle privilegiando il secondo elemento conduce invece a un nichilismo che, analogamente dimenticando le condizioni storiche di produzione e le qualità peculiari del testo,. ne distrugge qualsiasi possibile identità. La ricerca recente del più rigoroso fra i decostruzionisti americani merita interesse proprio per questo: Paul de Man ha il coraggio di portare alle estreme conseguenze i procedimenti dei due opposti filoni di pensiero qui indicati, e cioè il formalismo che quello scientis~o aveva prodotto e il relativismo implicito in qualsiasi ermeneutica privilegiante il punto di vista del lettore: e li unifica in una quando si fa della poetica, si ha a che fare con la stilistica o con la descrizione del modo in cui un'opera significa. Il problema è se queste due attività sono complementari, se si può dare conto dell'opera nella sua interezza facendo ermeneutica e poetica nello stesso tempo. L'esperienza di questo tentativo dimostra che non è il caso d'insistervi. Quando si cerca di raggiungere tale complementarietà, la poetica dà sempre congedo e ciò che in realtà si fa è sempre dell'ermeneutica. Si è così attratti dal probrema del significato che è impossibile fare poetica ed ermeneutica allo stesso tempo. Dal momento in cui si comincia a occuparsi di problemi di significazione la poetica ce la possiamo dimenticare. Le due attività non sono complementari, e possono essere mutualmente esclusive» (pp. 8788). La disgiunzione fra poetica ed ermeneutica non è, d'altronde, che logica conseguenza di quella fra struttura grammaticale e struttura retorica: così de Man: «la decodificazione grammaticale di un testo lascia un residuo di indeterminazione che dovrebbe, ma che non può, essere risolto con mezzi grammaticali, anche se intesi in va de Man in polemica con Jauss - anche nel lavoro ermeneutico interviene la lettura, ma essa qui è solo «un mezzo per un fine, un mezzo che alla fine dovrebbe diventare trasparente e superfluo», cosicché «lo scopo finale di una riuscita lettura ermeneutica è di liberarsi completamente della lettura», de Man 1986, p. 56). In entrambi i casi, viene recisa alla radice qualsiasi possibilità di senso e ci sarebbe da attendersi, come unico atto coerente, il silenzio, la sospensione stessa della critica: se infatti la scrittura critica, come ogni altra scrittura, non può che essere indecidibile, perché dovremmo credere alla sua possibilità di decidere circa l' «indecidibilità retorica» della letteratura? In Allegories of Reading de Man sembra tentare, di passaggio, una risposta a questo interrogativo nell'unico modo possibile, e cioè tirando in causa, in extremis, il mondo dell'etica, della prassi e dei bisogni: «Il linguaggio etico della persuasione deve agire su un mondo che non ,considera più strutturato come un sistema linguistico ma che consiste in un sistema di bisogni» (de Man 1979, p. 209). Il significato, insussistente sul piano epistemologico, può tuttavia farsi valere su quello pratico; sul quale torna a rivelare una sua efficacia quella allegoria di cui pure è dichiarata l'illeggibilità («Le narrative allegoriche raccontano la storia dell'incapacità di leggere», p. 205): «Dato che la mediazione epistemologica è riconosciuta còme inattendibile, e dato che la narrativa di questa scoperta non può essere lasciata sospesa n~lla contemplazione della sua propria gratificazione estetica, l'allegoria si fa valere con l'efficacia referenziale di una prassi» (p. 208). In Julie de Man sottolinea il fatto che i consigli morali, nonostante tutto, «devono essere espressi» (p. 207). È un'osservazione preziosa - e spregiudicata - che sconta tuttavia un'altra disgiunzione: quella fra dimensione epistemologica e dimensione etico-pratica (quasi non fosse possibile considerare, da un •punto di vista epistemologico, la natura pragmatica del linguaggio). In realtà tutta l'attenzione di de Man per il linguaggio riguarda il primo aspetto e non il secondo, e anzi si fonda sul presupposto della distanza e addirittura della inconciliabilità fra quello e questo. E si capisce: la stessa storia viene da lui considerata parte di una retoricità generale, cosicché il riferimento alla prassi rischia non solo di restare del tutto secondario ma di essere riassorbito nella «retorica della cecità», vale a dire nella indecidibilità di una storia ridotta a testo. E infatti, per tornare al saggio su Il compito del traduttore di Benjamin, de Man riprende la tensione argomentativa di un ragionamento teleologico a cui però egli intenderebbe sottrarre il telos. Così il linguaggio concreto viene visto, benjaminianamente, come frammento; ogni lingua sarebbe frammentata rispetto a una ipostatizzata reine Sprache che troppo da vicino ricorda la tesi di Friedrich Schlegel sull'origine divina del linguaggio, nato perfetto nel sanscrito e poi corrotto nelle varie lingue. Ci sarebbe stata, insomma, «an initial fragmentation» - con riferimento al vaso cui accenna Benjamin alla fine di Il compito del traduttore. Anche se de Man si affretta ad aggiungere che in realtà la «pura lingua» non esiste, né c'è «nessun vaso da nessuna parte», né patria per l'esiliato, si guarda bene poi dal valutare che la babele dei linguaggi rispecchi la babele dei bisogni contrastanti e delle contrastanti storie nazionali e sociali e la condanna (in parte ineliminabile) all'alienazione naturale (dovuta al condizionamento biologico e geografico) e sociale (il dominio di classe, e non solo questo), per concentrare invece tutta la sua attenzione sull'«erranza» del linguaggio, ontologicamente considerato. Anzi, invece di ricondurre il linguaggio alla storia, de Man compie il percorso inverso e riconduce la storia al linguaggio («la storia è puramente una complicazione linguistica», «la storia pertiene strettamente all'ordine del linguaggio», 1986, p. 92): il quale, dunque, anche per lui, è il primum ontologico di qualsiasi ragionamento. Presupporre «un'iniziale frammentazione» del linguaggio e poi negare la possibilità di una «reine Sprache» è una contraddizione interna di de Man - e non di Benjamin che a una redenzione finale e a una futura lingua pura invece credeva. De Man vorrebbe essere più radicale di Benjamin, ma, nella misura in cui lo legge in chiave esclusivamente nichilista e tuttavia decide d'inseguirlo sul terreno del sogno - per quanto consapevolmente denunciato come tale - di una «pura lingua», separandolo da quello dell'analisi della produzione sociale di senso, invece del tutto trascurata (eppure
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