co, non sarebbe una deplorevole appendice di un fenomeno ben altrimenti sostanziale, ma l'inevitabile versante politico del modo di essere nazionale, il quale oscilla tra le vette della poesia e le valli della chiacchiera, senza mai potere, non dico lambire, ma nemmeno immaginare il territorio del fare, dell'effettuale, del pratico. Il genio (o il «gene») nazionale dovrebbe insomma essere individuato in un linguaggio che è assolutamente escluso dalla realtà e dall'azione! Gli italiani possono muoversi - secondo tale prospettiva - solo nell'ambito della parola - sublime o infima che sia - così come i pesci possono stare solo nell'acqua: chi pretendesse di uscirne cesserebbe di essere «laico»! Di questo regno della parola ognuno poi si crede padrone, re, e perfino Dio: «che il Canzoniere sia la creazione di un uomo che nel suo ambito si crede Dio non dovrebbe essere difficile avvertirlo» (p. 118). Ora l'idea che il rapporto tra l'uomo e il linguaggio sia un rapporto di assoluta ed incondizionata signoria è quanto di più antiheideggeriano si possa concepire. Tutta la meditazione di Heidegger sul linguaggio va in direzione opposta: proprio perché il linguaggio è l'essere, l'uomo è nei suoi confronti in atteggiamento di ascolto. La potenza della poesia implica la modestia del poeta: non siamo noi che abbiamo il linguaggio, ma è il linguaggio che ha noi. Non vi è dubbio che su questo punto tutta la parte più importante della riflessione poetica contemporanea, da Mallarmé a Blanchot, da Rilke a Derrida, sta dalla parte di Heidegger, non dalla parte dell'umanismo che vuole trasformare l'uomo nel dio di un mondo di chiacchiere! Il saggio di Asor Rosa d'altra parte sollecita indirettamente a rivedere qualche luogo comune storiografico: per esempio, è opinione assai diffusa che il divorzio tra il sapiente e la società, tra l'uomo di lettere e l'hic et mine storico sarebbe nato in Italia nell'età barocca. A questo proposito pare molto illuminante un passo del Petrarca, citato da Asor Rosa, da cui risulta che tale divorzio affonda le sue radici in una scelta esistenziale, in una attitudine psichica che nulla ha che fare con il barocco e che anzi è antitetica ad esso: «Nelle cose umane - scrive Petrarca - sempre ciò che è presente è più odioso; anche il passato, quando fu presente, fu odioso; e il futuro, come sarà giunto, sarà odioso. Le cose, ricordarle soltanto - e sperarle è dolce; e quanto valga ciò che, se non manca, non piace, puoi facilmente capire». L'odio del presente in quanto tale, indipendentemente dai suoi aspetti concreti, unito al privilegiamento del passato e del futuro, della memoria e dell'utopia, costituirebbe perciò la premessa su cui si sviluppa la «civiltà del discorso» laico-umanistica. Ora questa fuga dell'effettuale in nome della nostalgia e del sogno è proprio il contrario dell'atteggiamento stoico, che afferma il primato del presente in quahto tale: sull'accettazione-appropriazione del presente si fonda il neostoicismo cinquecentesco e secentesco per il quale il mondo presente è, nonostante tutto, sempre preferibile al sogno e all'utopia, almeno per il fatto che c'è. Se la fuga nella nostalgia e nel vagheggiamento di mondi futuri, è l'essenza del laico, come vogliamo chiamare l'atteggiamento che privilegia il presente, l'effettuale, il reale? Io proporrei di chiamarlo più-che-laico. Se il laico è l'inveozione trecentesca dei tre sommi, il più-che-laico sembra inseparabile dalla saggezza pratica ~ dall'operosità incessante di decine di generazioni di italiani per i quali il dire è stato un aspetto, anzi l'aspetto più importante del fare, per i quali il linguaggio è stato il filo di cui è intessuto il processo storico, per i quali infine la trasmissione del sapere, delle conoscenze e degli usi del vivere civile non è stata incompatibile con l'esercizio della più sottile ingegnosità e dell'arguzia più dilettosa. L'esperienza più-che-laica, che risale all'antichità classica, ha trovato una compiuta articolazione ed un pieno sviluppo a partire dal Cinquecento: Asor Rosa stesso è consapevole di una cesura rispetto all'umanismo (p. 19) ma la considera ripetendo il vecchio luogo comune storiografico, secondo cui la cosiddetta «età della Controriforma» avrebbe fatto prevalere prospettive contrarie al laicismo. A mio avviso semmai bisognerebbe individuare e studiare il duplice fenomeno per cui nel XVI e nel XVII secolo, all'interno della Chiesa come fuori di essa, si manifesta e si sviluppa da un lato il piùche-laico, dall'altro il più-che-refigioso: se il primo è all'insegna di una visione fredda e distaccata della realtà, il secondo è all'insegna della possessione, del furore, dell'eccesso. In queste due dimensioni, apparentemente opposte ed inconciliabili, penso che vada cercato ciò che altrove ho definito la «differenza italiana», Del resto lo stesso Asor Rosa sembra sapere benissimo che è questa differenza éiò che oggi importa, mentre l'identità italiana centrata sulla civiltà del discorso è in via di estinzione: «Ci si può chiedere - scrive malinconicamente - se non capiti proprio a noi, che ci sforziamo di cogliere ora le forme della genesi di questo storico-espressivo chiamato letteratura italiana, di assistere alla sua estinzione (cosa che forse conferisce al nostro punto di vista una qualche coloritura drammatica, che tuttavia ci sforziamo di reprimere)» (p. 19). Alberto Asor Rosa La fondazione del laico in AA. VV. Letteratura italiana voi. V, Le questioni Torino, Einaudi, 1986, pp. 17-124. Semanticea-i~!,rpretazione A. Lo spazio del problema: da Gadamer (e Derrida) a Hirsch 1. C'è un'ermeneutica filosofica che dalla dialettica risale alle strutture del dialogo in un estremo tentativo, ancora umanistico, di unire storicismo hegeliano e ambizione heideggeriana di oltrepassamento della metafisica; e c'è un'ermeneutica decostruzionistica (ma il sostantivo non è autorizzato dalla parte in causa) che mira a dissolvere l'unità di senso non nel colloquio e nella logica di domanda e risposta, ma nella trama dei rapporti di senso che sta alla base di ogni parlare. Nel delineare queste due diverse vie, Gadamer (1985, pp. 1-11) si riconosce ovviamente nella prima e attribuisce a Derrida la seconda. Che si tratti di due percorsi diversi, non vi è dubbio. Mentre Gadamer è sensibile alla storicità dei fenomeni, Derrida resta completamente estraneo a qualsiasi prospettiva diacronica. L'uno, allievo di Heidegger, crede alla «verità» che l'ermeneutica può rivelare; l'altro deriva da Nietzsche un radicale nichilismo, che investe la prospettiva stessa dell'ermeneutica, sino ad invalidarla alle radici. Quello serratamente discute e minutamente e poderosamente argomenta con dovizie di prove documentarie; questi suggerisce e ammicca e volutamente si sottrae a qualsiasi possibilità di verifica. E tuttavia si incontrano in un punto, ormai comune alla maggior parte delle diverse tendenze neoermeneutiche: la nozione di linguaggio come primum ontologico. Per Derrida l'écriture è il "luogo del senso sempre disseminato e differenziantesi, che disperde la possibilità dell'unità e dunque disgrega l'ambizione metafisica e la pretesa logocentrica: è la sede di una traccia, di un'essenza unica, di un significante senza significato che si pone in realtà come un ipersignificato originario. Per Gadamer l'istanza universalistica dell'ermeneutica si fonda su questo postulato: «Tutto ciò che è, è riflesso nello specchio del linguaggio» (Gadamer 1971, pp. 71-72). E in Verità e metodo si legge: «La linguisticità della nostra esperienza del mondo precede tutto ciò che è riconosciuto ed enunciato come essente. Il rapporto fondamentale tra linguaggio e mondo non significa perciò che il mondo divenga oggetto del linguaggio. Ciò che è oggetto di conoscenza e di discorso è invece già sempre compreso nell'orizzonte del linguaggio, che coincide col mondo. La linguisticità dell'espelinguaggio e la mancata considerazione della natura sociale e non naturale di quest'ultimo (cfr. Rossi-Landi 1968, pp. 7-50) - non ne vengono colte infatti l'origine e la dimensione pragmatica - dovrebbero risultare difficilmente accettabili non solo per chi si ponga in un'ottica materialistica ma anche (per quanto ciò possa apparire paradossale) per un lettore della Genealogia della morale, se è vero che Nietzsche lega strettamente concetto di «alienazione linguistica», elaborato da un marxista rigoroso come Rossi-Landi (1968, pp. 47-50), potrebbe trovare qui dei sorprendenti addentellati. 2. L'assolutezza del linguaggio, il suo carattere originario e fondativo, la sua natura ontologica sono altrettanti presupposti delle tendenze neoermeneutiche dominanti. Il rapporto interpretativo non si pone come esperienza dell'altro, ma come un autoriconoscimento. Senza titolo, 1952, olio su cartone telato, 30 x 40 cm rienza umana del mondo non implica in sé l'oggettivazione del mondo» (Gadamer 1960, pp. 514515). Se la storia è linguaggio, anche il linguaggio è storia, ma in una mediazione totale e assoluta, inglobante in sé la materialità del mondo. L'esperienza storica viene così ontologizzata nel linguaggio in cui finitezza e assolutezza coincidono, esattamente come nell'écriture derridiana. Questa riduzione del mondo al nascita della morale, formazione sociale delle caste e origini del linguaggio: «Il diritto signorile d'imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l'origine stessa del linguaggio come un'estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono 'questo è questo e questo'' costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano». Il Il circolo ermeneutico procede da una precomprensione che supera qualsiasi possibilità di distinzione fra soggetto e oggetto: sia l'interprete che il te~to si presuppongono a vicenda, si possiedono mutualmente. Entrambi si muovono sullo stesso terreno: che è quello del linguaggio e della tradizione: il linguaggio è quello della tradizione, e la tradizione è la tradizione del linguaggio. La dialettica di domanda e risposta è una falsa dialettica, giacché, nel rapporto di familiarità e di estraneità il primo elemento ha un sopravvento costitutivo e fondativo rispetto al secondo. In realtà tutto avviene ael linguaggio e per il linguaggio, senza residuo alcuno, senza esteriorità fra io e mondo. È il linguaggio che si interroga e si risponde in una ricerca sostanzialmente tautologica: il linguaggio può trovare sempre e soltanto se stesso. Gli strumenti di conoscenza propri del metodo scientifico non avrebbero alcun yalore per le cosiddette scienze dello spirito (e dovrebbero limitarsi alle scienze naturali): il titolo gadameriano Verità e metodo presenta una congiunzione coordinativa là dove sarebbe più giusto leggerne una disgiuntiva: «verità» o «metodo». Ne derivano due problemi teorici che potremmo formulare così: 1) dato che la base semantica del linguaggio è accertabile scientificamente ed è stata in effetti studiata con procedure di tipo oggettivo non diverse da quelle impiegate per le scienze naturali, e l'ermeneutica è invece indagine soggettiva di tipo euristico, che rapporto c'è fra semanti~a ed ermeneutica, fra decodificazione e lettura, fra metodo e verità? L'interpretazione di un testo passa attraverso un processo di immedesimazione empatica in cui soggetto e oggetto si fondono ovvero presuppone una distanziazione analitica volta a cogliere l'alterità di una precisa sostanza semantica? oppure, ancora, c'è un rapporto dialettico fra due momenti diversi? 2) La preliminare accettazione della tradizione, come fondamento della precomprensione e del circolo ermeneutico, non preclude un giudizio su di essa? Il linguaggio della tradizione e la tradizione del linguaggio possono essere accettati come se non· avessero rapporti con la storia del dominio e della reificazione? La prima questione è posta soprattutto (ma non solo) da Hirsch; la seconda da Habe'rmas. 3. Come ben vede anche Emilio Bettini (1972, pp. 75-115) - et pour cause, date le sue premesse -
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