Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

ormai da vari anni nella mia coscienza e nelle mie abitudini e non è più un Altro dentro di me». A Silvana Mauri, 1950: «[... ] il male era ormai inoculato, cronico e inguaribile» pp. 342 e 390), Pasolini sembra interrompere la confessione, teorizzazione, analisi. D'ora in poi non potrà fare altro che cercare fuori di ~é e dal Friuli, in altri paesaggi naturali, realtà sociali e figure umane, l'ormai definita (e sempre minacciata, condannata, bandita) eresia religiosa e mito letterario del peccato innocente. La sua intera poesia e produzione ne sarà profondamente segnata. Certo, proprio perché il processo è tutt'altro che lineare, le reincarnazioni di questa eresia trasgressiva cominciano già prima, con evidenti riflessi nelle lettere e nel diario. La stessa scelta di un dialetto friulano vergine e incontaminato, può assumere talora il valore di una rottura còntro la lingua adulta, cui si dovrà alla fine comunque cedere. Il fratello Guido, partigiano ucciso da partigiani, diventa il simbolo dolce-funereo di una trasgressione resistenziale innocente, stroncata sul nascere. Ma è dopo la crisi del microcosmo friulano che quell'eresia e mito trova la sua prima fondamentale reincarnazione e nuova sconfitta, nel sottoproletariato delle borgate romane (e nel suo gergo). Una delle ultime lettere (a Garzanti, 1954) così spiega Ragazzi di vita: «È un arco ben preciso che corrisponde col passaggio del protagonista e dei suoi compagni (il Riccetto, Alduccio ecc.) dall'età dell'infanzia alla prima giovinezza: ossia (e qui la coincidenza è perfetta) dall'età eroica e ·amorale all'età già prosaica e immorale. A rendere 'prosaica e immorale' la vita di questi ragazzi (che la guerra fascista ha fatto crescere come selL a recente pubblicazione delle ultime poesie di Wallace Stevens, raccolte per la prima volta con il titolo Il mondo come meditazione, ci offre l'occasione di rimetterci in viaggio per tentare di riattraversare il territorio di quella poesia che abbiamo definito «moderna». Di fatto Wallace Stevens è considerato uno dei maggiori poeti americani del secolo e il suo periodo di lavoro finale (che viene qui delimitato tra l'ottobre 1949 e il 2 agosto 1955, gior.. no della sua morte) permette di indicare alcune possibili, e molto probabili, tappe conclusive di un discorso poetico che ha cercato di mettere a fuoco le problematiche del «lavoro della mente» nell'ambito di un linguaggio che si è a volte tentati di definire «irrazionale», quello della poesia, appunto. Non credo si possano nutrire dubbi sull'intervento di una «ragione» in quel «lavoro della mente» che in Stevens traduce il «mondo» in meditazione. Il poeta è ancora un «maestro del conoscere», e il suo antico, e sempre nuovo, modello rimane Ulisse, l'Ulisse, per esempio, di una poesia intitolata «Presenza di un maestro esteino del conoscere» (Presence of an External Master of Knowledge). Come aveva concluso William Wordsworth (1770-1850), per un poeta si pone una sola alternativa: «or teacher or nothing». Siamo dunque nel solco di una fondamentale tradizione inglese in cui Stevens introduce un'accentuazione tipicamente americana, di cui vaggi: analfabeti e delinquenti) è la società che al loro vitalismo reagisce ancora una volta autoritaristicamente: imponendo la sua ideologia morale» (p. 704). L'esperienza di «traditore» della classe borghese e della Chiesa ufficiale, che in origine era tutta risolta dentro il trauma di una privata diversità e dentro il rifiuto di un mondo adulto colpevole, si viene proiettando ora sulla società. La trasgressiva eresia del peccato innocente, perciò, si scontrerà d'ora in poi con tutte le istituzioni e sistemi autoritari e repressivi, o falsamente e insidiosamente permissivi, che troverà sul suo ter- • reno. Tutto questo processo di impietoso disvelamento e di fermentante problematicità, si può seguire soprattutto nei diari e nelle lettere, spesso molto belle, agli amici degli esordi, a Silvana Mauri, Contini, Betocchi, Sereni; ma in generale, a partire dal 1950, con la «fuga» a Roma, vengono prevalendo le lettere di routine editorial-letteraria. Il Pasolini affannosamente involto in un giro vorticoso di notizie, richieste, ringraziamenti, apprensioni, relative a progetti editoriali, recensioni, occupazioni, premi, tra tatticismi e risentimenti, e talora anche ingenerosità e prevaricazioni; questo Pasolini dunque, dopo le oggettive ragioni di gravi difficoltà e necessità iniziali, configura via via una significativa variante della miseria del letterato novecentesco, con i primi contraddittori tratti di piccolo protagonismo (si vedano, per contrasto, le schiette e limpide lettere dell'amico Tonuti Spagnol). Ma l'interesse di questa seconda parte non si esaurisce su un terreno meramente sociologico. Si ha anzi l'impressione che queste lettere siano in definitiva il risvolto cogliamo l'essenza in questi due versi di una poesia pure dedicata a Ulisse (The Sai/ of Ulysses): «Come potrà allora la mente essere men che libera / Perché solo conoscere è essere liberi?» (How then shall the mind be less than free I Since only to know is to be free?). Conoscenza e libertà sono frutti che maturano sull'albero della ragione; ma occorre pure chiedersi, in concreto, cioè nel corpo stesso della poesia di Stevens, a che cosa mira il suo «lavoro della mente», qual è lei scopo della meditazione, prima in fase di «poetica», cioè di progettualità in senso lato, e subito dopo al traguardo raggiunto del linguaggio poetico. Una risposta netta arriva da questi due versi: «Il poema della mente nell'atto di trovare / Ciò che è sufficiente», che definiscono la poesia moderna ( Of modem poetry, 1940) secondo Wallace Stevens. Massimo Bacigalupo ci fa notare, nell'eccellente introduzione alla raccolta indicata, che la definizione contiene in sé una tripartizione che apparirà poi nelle Notes toward a supreme fiction, del 1942, vale a dire: astrazione (the poem of mind) mutamento (in the act of finding) piacere (what will suffice). Tale tripartizione articola la poetica del moderno; ma non basta, in una lettera del 1942 Stevens dice di aver da tempo sentito la necessità di aggiungere alle Notes del 1940 almeno un'altra sezione intitolata Deve essere umana, la poesia, naturalmente. Ma facciamo un piccolo passo superficiale e minore, e in parte anche deteriore, delle altre. A ben vedere infatti, l'esperienza complessiva che si dichiara nell'epistolario, appare tutta chiusa in se stessa, sostanzialmente sorda ai fatti sociali e politici esterni (nell'insieme poco presenti), quando non siano rivissuti nelle varie forme e manifestazioni di quella diversità ed eresia. C'è una sorta di costante egotismo e narcisismo di fondo, talora anche esplicitato, che si esprime appunto sia nella feconda confessione del proprio trauma e affermazione del proprio mito, sia nella angusta ossessione della vita letteraria di relazione di un esibito produttivismo. ... Sembra ritrovarsi qui allora, la conferma di una sostanziale continuità del processo biografico e del discorso poetico pasoliniano, e altresì di una sostanziale continuità interna di quest'ultimo (rivelata comunque e già da un'attenta lettura speculare della poesia friulana in dialetto e in lingua e delle Ceneri di Gramsci): nel senso che tutta l'estroversione e proiezione verso il mondo esterno (la soci.età, la città, il partito) sottintenda in fondo la ricerca inesausta di quella eresia del peccato innocente, trasgressione nella purezza, diversità eversiva, e l'inesausto tentativo di misurarla con la realtà e con la storia. Una eresia e mito che riemerge sempre dalle sue sconfitte, e che trova la sua vera forza e il suo vero limite in una assoluta e inviolabile immutabilità. «La mia malattia consiste nel non mutare», scrive a Silvana Mauri nel 1949 (p. 352). Del resto, un raffronto tra alcune lettere del 1943-1946e altre del 1954 illumina in modo inequivoco come il «'caso' psicologico (sensuale e morale)» degli esordi traindietro, per osservare i termm1 della questione dentro una cornice di carattere più generale. Se «Compito della poesia è mediare tra due termini», cioè l'uomo e il reale, come scrive Bacigalupo, «con una suprema finzione tutta passi nel «rapporto [... ] col mondo storico» (tra l'altro subordinando a queste esperienze il problema della poesia), con turbamenti e conflitti appunto, ma senza intimamente mutare. Dopo aver riaffermato più volte il costante «senso dell'infinità che è in lui, e della sproporzione tra la sua esperienza ed ogni altra cosa del mondo» (p. 222), Pasolini scrive a Giovanna Bemporad: «[... ] l'altro è sempre infinitamente meno importante dell'io. Ma sono gli altri che fanno la storia» (p. 281). Non c'è dunque vera soluzione di continuità, ma nuove necessità con cui misurarsi. Scriverà a Sereni: «[... ] temo di essere costretto a certe scelte, costretto da un eccesso, da una violenza costanti nella mia psicologia: sia quando mi interessavo soprattutto delle mie vicende interne, sia ora che sono gettato fuori, a cercare di conoscere più che posso tutto questo non io che mi è così caro [... ]» (p. 635). Il passaggio viene compiuto, ma con le stesse motivazioni originarie di fondo. Proprio per la sua intrinseca immutabilità, inalterabilità, estraneità rispetto a tutto ciò che la circonda, quella eresia e mito, dalle Ceneri a Salò (con interazioni biografiche costanti), vive di una fondamentale contraddizione. Essa è capace ogni volta di seminare trasgressione, eversione e scandalo nei contesti istituzionali che attraversa, caricandosi così di _implicazioni culturali e letterarie, ideologiche e sociali, etiche e politiche, anche diverse e opposte rispetto alle sue radici evangelico-viscerali friulane; e riaffermando valori apparentemente pre-moderni e in realtà universalmente umani contro i guasti e gli orrori di un mondo che si dice moderno; ~d è capace altresì, soprattutto nella stagione «corsara», di proiettarsi al di Ezra Pound o a T.S. Eliot non tenta neppure il recupero di una certa tradizione, ritenuta valida più di altre, dove troverà una base di appoggio quel what will suffice indispensabile a far da ponte tra uomo e reale? Quale sarà il punto di rifeUn documento umano, storico, antropologico Gambe di Legno LA LUNGA MAROA VERSOL'ESILIO Menwrie di unguerrierocheyenne L'odissea di un popolo costretto a subire le sopraffazioni dei Bianchi e a vivere in esilio nella propria terra. sua in un'epoca in cui sono venute meno le finzioni collettive, religiose e sociali della tradizione» allora certamente il cammino del poeta moderno sarà «più arduo di quello affrontato dai poeti del passato». Se è vero, allora, che Wallace Stevens «dà per scontato il vuoto della tradizione» e contrariamente a • rimento per rispondere alla «necessità quotidiana di aggiustarsi col mondo» (in Opus posthumus, New York, 1957), se ~on il «lavoro della mente» proprio nel sllo poter funzionare e agire nella direzione del mutamento? Dire mutamento per riferirsi a quel in the act of finding, come fa fuori di questi contesti, contrapponendo a un presente perduto un futuro possibile, per alzare la postà, ipotizzare alti obiettivi, in una prospettiva produttivamente utopistica. Ma quella eresia e mito, al tempo stesso, è oggettivamente negata a un vero confronto critico con l'altro da sé, identificato pur sempre alla fine con un mondo adulto corruttore e nemico (nucleo segreto di _queglistessi contesti), portatore della «coscienza» e maturità che è stata poi la vera e inevitabile ragione delle sconfitte originarie («Sono tutto coscienza», è un grido disperato del diario, p. XCIII). Anche l'adesione tendenziale e problematica al Partito comunista, entra in crisi ogni volta che in esso il volto adulto prevale su quello di una trasgressiva purezza. C'è verosimilmente (e contraddittoriamente, appunto) in tutto questo una ragione non secondaria e non sempre consapevole del fascino esercitato da Pasolini (sui giovani, anzitutto, ma non soltanto). Da cui la necessità di una lettura della sua intera opera ed esperienza (e quindi del suo intero processo biografico-poetico) che, nel coglierne la carica attivamente extraistituzionale, anticonformista, disinteressata, liberatoria, sappia anche evitare ogni pericolosa consonanza con quel rifiuto acritico dell'altro da sé e con quella tenace resistenza a entrare nel mondo degli adulti, che è poi anche il mondo della maturità. Pier Paolo Pasolini Lettere 1940-1954 a cura di Nico Naldini Torino, Einaudi, 1986 pp. CXXXII-738, lire 42.000 Bacigalupo, è corretto se messo in relazione a quell'altro postulato del lavoro mentale che Stevens ha indicato in una lettera del 1950: «La mente come la poesia difficilmente si accontenta della stessa cosa due volte». Il what will suffice, invece, può essere riferito al «piacere» solo se si· presuppone che la «ragione» trova la propria intima e anche oggettiva soddisfazione nel suo stesso agire, senza altre pretese oltre quel fine di «aggiustarsi col mondo», quotidianamente. S i potrà notare che nella polarità uomo-reale, che nella poesia di Stevens pone il confronto costante tra «luce dell'immaginario» e la «cosa in sé», la ragione nel suo act of finding non tende alla «verità» bensì a quello che il poeta ha chiamato «aggiustamento», con la realtà. Non vi è aiuto possibile perché non vi è scopo possibile di verità finale nell'ambito della ragione moderna, dunque vale solo il suo esistere e agire ponendosi quale «cosa tra cose». Un punto fermo della «ragione» di Stevens è che la poesia, frutto del «lavoro della mente» tende a essere «parte della natura, parte di noi», è in sostanza «una natura creata dal poeta» e «non ha bisogno di avere un significato e come gran parte delle cose della natura spesso non ne ha». La mente «produce» poesia elaborando un rapporto possibile col mondo per mezzo di quel meccanismo ben

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