Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

vo i propri giudizi, perseguendo, per quanto è possibile, anche su quotidiani e rotocalchi (e non solo su riviste specializzate) metodologie e linguaggi che rendono il critico veramente tale, la sua funzione unica e, infine, radicalmente diversa da quella del giornalista tuttofare che, da che mondo è mondo, è il prediletto dei padroni e dei direttori dei giornali, e oggi anche della TV. Forse, per capire meglio i fenomeni di sempre in una società caratterizzata dallo. spettacolo come è l'attuale, si dovrebbe fare un passo indietro e ripensare a ieri, per trarne qualche conclusione utilizzabile oggi. Chi scorra ad esempio il catalogo dei grandi editori degli anni trenta o quaranta, non ancora industrializzati come oggi ma già su quella via, scoprirebbe forse con sorpresa, che il grosso della loro produzione più redditizia (e del relativo catalogo) si basava su narratori come Brocchi, Gotta, Beltramelli, D' Amtra, Fracchia, Fraccaroli, Milanesi, Calzini, Annie Vivanti, Liala e via discorrenIl Tornare a leggere ad oc- '' chi nudi quel che è in lui il meglio ed esige severità di interpretazione: la sua poesia», senza perdersi nelle mistificazioni della «parte emersa· della sua biografia intellettuale», rappresentata ora anche dal primo volume dell'epistolario. Questo è il giudizio di Fortini su Pasolini ancor oggi: nel quale Roversi vede il pericolo di un congelamento accademico dell'opera pasoliniana, di una depurazione della «vitalissima e irritante vischiosità» biografica ed extral~tteraria che quella stessa opera rende così imprevedibile, complessa, sfuggente, non catalogabile. Tra l'uno e l'altro giudizio dei due autorevoli e antichi sodali di Pasolini, il secondo sembra confermare quella che appare ormai da tempo la direzione critica più producente, a proposito di un intellettuale e scrittore nel quale veramente (come egli stesso scrive, in una lettera del 1952 a Silvana Mauri) la «biografia finisce sempre con l'identificarsi con la letteratura» (p. 513). La poesia di Pasolini in sostanza, si realizza proprio attraverso la sua esperienza altra, privata e pubblica, ritenendone sempre inevitabilmente qualcosa: non come scoria caduca ma come parte intrinseca (ma quanto si dirà qui della sua poesia, si riferirà implicitamente un po' a tutta la sua produzione). Le lettere 1940-1947e le pagine di diario 1946-1947 (citate da Naldini nella sua Cronologia), edite e inedite, svelano anzitutto le prime radici biografiche di quel mito o eresia del peccato innocente, che vien prendendo forma dall'interno stesso del mito o eresia originaria dell'innocenza e purezza giovanile e materna, e che verrà dominando la poesia pasoliniana almeno a partire dal 1946 (nell'Usignolo della Chiesa Cattolica). Più precisamente, si assiste alla progressiva trasformazione di .un trauma biografico in una eresia religiosa e mito letterario che di quello stesso trauma resterà sempre intriso: se è vero che un'analisi critica della specifica diversità pasoliniana riconduce costantemente a un viluppo oscuro di motivi viscerali, esistenziali, sessual-affettivi, e di scelte intellettuali, letterarie, linguistiche. do, e su poeti da salotto come Ada Negri o Pastonchi, oggi completamente dimenticati, che si affiancavano ai veri scrittori di allora, a D'Annunzio, a Fogazzaro, a Borgese, a Pirandello, a Moretti, a Bacchelli, a Tozzi, a Svevo, a Cardarelli, a Saba, a Ungaretti, a Montale, che cominciavano ad affacciarsi. I critici e i giornalisti commerciali che collaborarono al lancio di quegli scrittori inesistenti o scomparsi, sono oggi più scomparsi di loro, mentre i nomi di critici che in sedi più ristrette e specialistiche, ma non necessariamente, hanno svolto il loro compito con rigore e con metodo, da Cecchi, a Pancrazi, a Gargiulo, a De Robertis, a Praz, a Solmi, a Debenedetti, per ricordarne solo alcuni, sono rimasti nelle nostre menti e nelle nostre biblioteche, esattamente come quelli degli scrittori veri che, insieme a loro, sono divenuti strutture portanti della nuova letteratura del secolo e della sua storia letteraria. Cosa dedurne? Che ogni stagione ed ogni epoca ha un suo regime, e che è parte dell'inventività di critici e scrittori il saperne eludere le maglie, e di avere una forza etica sufficiente - come ha ricordato Spinella sempre su «Alfabeta» - per svolgere il proprio compito. Non siamo così fuori dal mondo né tanto masochisti da proporre ai critici militanti regimi di intollerabile stoicismo nei confronti di giornali e di televisioni, e implicitamente di editori di cui si trovano a dover parlare. N on sarebbe tuttavia difficile riconoscere in molti degli autori ultrapresenti e magnificati dai supplementi e dalle terze pagine dei grandi quotidiani, dalle rubriche librarie dei settimanali, e dalle televisioni, l'equivalente odierno degli autori pompieri e di intrattenimento di cui si sono dimenticati volutamente i nomi per il passato. I loro equivalenti di oggi passeranno fulmineamente di memoria e verranno dimenticati insieme a Pippo Baudo, alla Carrà e a chi gonfia il loro lavoro inutile e inesistente sulla stampa e in telev1s1one. Ai critici spetterebbe di riconoscerli, e più che di stroncarli, di tenerli fuori del proprio sistema di riferimenti. Se poi la grande stampa potrà non essere la sede più accogliente per i loro esercizi cnt1c1 diversamente indirizzati, che si contentino di buone riviste letterarie o specializzate, spesso più accoglie.nti o rigorose di tante sedi apparentemente prestigiose. In futuro, esse potranno risultare l'equivalente odierno di riviste come «La Voce», o «La Ronda», o «Solaria», o «Letteratura» - e ormai, venendo avanti nel tempo, come «Il Politecnico», o «Officina», o «Il Verri» - che sono state parte integrante e indelebile del nostro patrimonio culturale, mentre si sono ben volentieri dimenticati i nomi dei grandi quotidiani che furono loro contemporanei e dei relativi direttori, e degli scrittori di intrattenimento, di consumo, o protervamente commerciali che vi dilagavano. La critica, come la storia in una famosa poesia di Montale, andrà cercata negli interstizi che, nonostante tutto, si formano e resistono fra il grandeggiare troppo prestabilito e a comando degli avvenimenti letterari. Sarà nell'ostinazione di chi saprà seguire strade impreviste, sottopassaggi, cripte, buche, nascondigli che, nonostante tutto, lasciano spazio a chi, fortunosamente, sa trovare uno strappo nella reté dei condi?ionamenti di massa e liberarsene. Potranno sembrare movimenti minimi, ma è proprio a questo punto che si istituisce spesso la durata poetica, l'attimo o l'istante che si legano ad altri istanti ed attimi, fino a istituire lo spessore entro cui si forma il pensiero, la lingua stessa della poesia e, con essa, il metalinguaggio della critica, che ha il fine di smontarne e rimontarne i meccanismi, svelarne il senso, le motivazioni e la forma. Fino a darne infine a vedere l'essenza in tutti i suoi possibili aspetti: dai più lenticolari, interni e ravvicinati ai più astrattivi e lontani, fino a coglierne insieme alla durata, alla diacronia, l'essenza, e, insieme al vero, la metafora. erediPierPaolo È significativo che la primissima traccia affiori da certi versi giovanili, trascritti e commentati in lettere agli amici, quasi a esplicitare quella stessa interazione tra autobiografia e poesia. In una lettera del 1941 infatti, Pasolini parla del «passaggio, segreto, dall'ingenuità • ' \ I -' • ., - t ·.' ~- "' ('>- ~# 4 . .. Gian Carlo Ferrett 29-31), la presa di coscienza del- !' «essere differente» ( che ha il suo aurorale e inconsapevole antecedente di un'esperienza fanciullesca: «teta veleta») reca già i segni di un corrompimento dell'innocenza che non si può dissimulare più, e che sembra compromettere t signolo, tra tenerezze evangelicoviscerali e crudeltà mistico-sensuali, si presenta allora come la prima formulazione del mito o eresia in cui si risolverà il processo biografico-letterario degli esordi. Ma c'è ancora, in tutto ciò, qualcosa che preesiste e presiede ( .. I dal primo momento minacciato dal mondo adulto della consapevolezza, corruzione e «vergogna». La morte del fanciullo diventa l'unica possibilità di preservarlo dalla corruzione, e al tempo stesso l'assoluto impedimento a completare il ciclo della sua purezza. Le lettere accompagnano ed esplicitano, in questo, le poesie in dialetto e in lingua dei primi anni quaranta, documentando anche il progressivo passaggio all'altro e più complesso mito pasoliniano. Scriverà nel 1947 a Contini: «Quanto all'Usignolo, sento per lui una certa tenerezza, poiché rappresenta quel me stesso ventunenne e ancora vergine, che ritornato a Casarsa dopo molto tempo, si era lasciato suggestionare da una specie di cristianesimo paesano, non senza trovare però nel suo Eros esasperato dolci ed equivoche fonti d'eresia» (p. 283). Nel diario appunto, alla vera e propria «perdita della sua verginità» (1943) succede una presa dicoscienza del peccato come ormai irreversibile «perdita della purità» (1944), e come constatata impossibilità di una trasgressione nell'innocenza (p. LXX). Ne viene così infettato e corrotto anche il microcosmo friulano, matrice originaria e sede privilegiata di quei miti: «[... ] quella cancrena che nata nel mio corpo, non so, nei miei occhi, si era lentamente diffusa su tutto il paesaggio e su tutta la gente di Versuta» (p. LXXXI). Il pubblico scandalo della sua omosessualità e la condanna da parte dei compagni comunisti, gli renderanno quel mondo addirittura invivibile, mettendone anche irrimediabilmente ( in crisi la centralità poetica. Senza titolo, s.d., inchiostro su carta, 53,3 x 45, 7 cm "·• 11 terrore di non poter essere più «eternamente ragazzo»; il disagio di un apparente candore e giovinezza, che nasconde precoce vecchiezza e malizia; un disperato desiderio di non maturare: sono i motivi che tornano nelle lettere successive e nel diario, riconducendo al comune motivo della alla malizia, dall'impubertà all'adolescenza», a proposito di un componimento che in realtà va anche oltre. Nei versi «Vergini impubi, e voi nel viso guardarmi non ardite:/l'impudico segreto della mia adulta vita si vergogna!» (pp. sul nascere la possibilità di una trasgressione nella purezza. L'ambiguo «Gesù soave, peccatrice innocente» di un altro componimento epistolare dello stesso anno (p. 74), nell'anticipare trasparentemente un motivo centrale dell'Ual trauma incipiente della diversità: la dolorosa scoperta che la ricerca e il vagheggiamento di un mito dell'innocenza dentro il microcosmo friulano-materno e cristiano-contadino (le albe, le campane, i fanciulli, il dialetto) è fin consapevolezza (e condanna, riprovazione) adulta, la fine dell'innocenza e l'impossibilità di una innocente diversità. Finché, accettato e interiorizzato quel trauma e quella scoperta (a Farolfi, 1948: «La mia omosessualità è entrata

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