Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

Polemicsaull'estetica Nel supplemento al n. 88 di «Alfabeta» (settembre 1986), Homo faber (Design, Ricerca), è apparsa una Conversazione sui fatti italiani tra Gilio Dorfles, Aldo Colonetti, Giovanni Anceschi e Gianni Sassi. È poi intervenuto con una lettera (nel n. 90 - novembre 1986) Stefano Zecchi, e sul n. 92 (gennaio 1987) sono apparse le repliche di Dorfles, Anceschi e Leonetti. Poiché l'argomento è risultato vivace e interessante, avviamo qui un dibattito sulla disciplina stessa, l'estetica. Dopo i due scritti di Givone e di Rella • attendiamo altri interventi. Quale differenza? Sergio Givone È bastata dunque una riunione di amici al caffè per accendere la polemica. Che sembra di buona qualità e quindi invoglia a intervenire. Il problema è davvero quello del riconoscimento o meno della legittimità di un'estetica «bassa», cioè applicata all'esperienza comune e quotidiana del bello piuttosto che a quella eccezionale e artistica, accanto a un'estetica «alta», quale si è costituita sulla base di opere canoniche, esemplari, inaugurali? A me pare che Zecchi, alluda a qualcos'altro. E siccome la disputa è nata da un velato rimprovero a quei docenti della materia che non alzano il naso dai sacri testi per guardarsi un po' intorno e riflettere sui luoghi e le cose del loro abitare, confesserò che non solo Milano, ma anche. l'altro polo industriale, Torino, per quel che mi riguarda è piuttosto silenzioso quanto a lezioni sul design, la progettazione industriale, il cosiddetto arredo urbano e così via. Questo non tanto perché anch'io sia convinto (lo sono, ahimè!) che tra un Van Gogh, magari neppure visto ma solo sentito raccontare da Heidegger, e un bel termosifone passi pur sempre una differenza che non è né superfluo né gratuito sottolineare, ma per altre ragioni. Il fatto è che diffido, magari non immotivatamente, di quella che possiamo chiamare la cultura o l'estetica dello styling. Diffido, per essere sincero, di quel tipo di estetica che ha avuto sì, come dice borfles, il merito di richiamare l'attenzione dei filosofi sui «settori marginali dell'arte», ma che spesso ha dimenticato e anzi irriso quanto non pochi filosofi (Heidegger, certo, ma non meno Benjamin o Hegel) avevano cercato di mostrare: cioè che nelle marginalità, nelle realtà minime, nelle cristallizzazioni della vita materiale è in gioco né più né meno che l'essere stesso (il senso dell'epoca, la sua intonazione e destinazione, ecc.), e non vedere questo significa condannarsi a rispecchiare l'immediato in forma banalizzata, °' apologetica e inconsapevolmente ~ caricaturale. Nessuna alternativa -5 tra una difficile, difficilissima on- l tologia (che non a caso !'«impero " della semiotica» e il «buldozer ~ marxista», come li chiama Zecchi, o negli anni appena trascorsi davano ~ per liquidata) e una sociologia ap- ~ piattita sull'esistente. ~ Mi riferisco, naturalmente, alla s:: scarpa della contadina di Heideg- ~ ger, ma anche al vecchio dagher- ;g, rotipo di Benjamin, che suscita «il ~ bisogno di cercare il luogo invisibi- • le [... ] in cui si annida ancora oggi il futuro», e prima ancora al «congegno» di Hegel, che potrebbe sembrare «soltanto piacevole o utile», ma in realtà «libera lo spirito». Ma penso soprattutto a Hermann Broch che, quanto al tentativo di decorare con oggetti d'ammiccante bellezza la desolazione urbanistica d'oggi, ha detto tutto quel che in proposito c'era da dire. È Kitsch, nient'altro che Kitsch, Kitsch da cima a fondo. E il Kitsch, secondo l'inattuale ma da rimeditare insegnamento brochiano, è il «male radicale». Cioè, è la surrogazione del mortale vuoto-di-valore (e quindi vuoto-di-verità, vuoto-di-stile) che tanto più riproduce il proprio contenuto negativo quanto più pretende di rimuoverlo o sublimarlo per via estetica. Da questo punto di vista, no sgrondandolo come una carcassa. Né Holderlin ci tranquillizza dicendoci che gli dei sono fuggiti ... Chissà, forse il fatto che oggi certe cattedre di estetica (accidenti, proprio quelle delle capitali dell'industria) commentino Baudelaire e Holderlin anziché prendere a oggetto di riflessione le raffinatezze del design o lo squallore un po' ridicolo dell'arredo urbano, ha un significato tutt'altro che rétro. Il sapere dell'arte Franco Rella Mi è capitato una volta di partecipare a un convegno di estetica, che aveva come oggetto, appunto, lo statuto disciplinare dell'estetica stessa. Le relazioni hanno via via esposto, con grande precisione e questo phronein che passa attraverso il pathein. È un vero e proprio pensiero. L'estetica, e qui oso una prima definizione, è lo studio del pensiero dell'arte. Questo pensiero, abbiamo visto, investe il soggetto nella sua complessità: nel suo amore della cosa, e nella riflessione razionale che fa di questo amore un sapere comunicabile, un'esperienza che a sua volta collega. Da questo punto di vista la filosofia, a cui l'estetica tradizionalmente è ricondotta, è cieca. Husserl, Heidegger, Koyré hanno lamentato che la rivoluzione cartesiana ha reciso il rapporto del pensiero con la vita, senza apparentemente rendersi conto che questo rapporto è fondamentale della grande arte narrativa che prende contemporaneamente le mosse con il Don Chisciotte di Senza titolo, s.d., inchiostro su carta, 23,5 x 30 cm l'intera vicenda delle avanguardie sta tutta sotto il segno dell'estetismo: dagli entusiasmi rivoluziona- .Tiper l'estetizzazione dei prodotti industriali alla post-moderna «arte della felicità», che per l'appunto trasforma positivamente il Kitsch in funzione giocosa e liberatoria. • Indubbiamente gli obelischi e i totem di gesso che da qualche mese biancheggiano furbeschi in alcuni angoli di Roma appartengono allo stesso universo stilistico che ha prodotto a suo tempo la Olivetti lettera 22 di Nizzoli e oggi l'elegante Alfa 33 di Pininfarina, non a caso fotografata sullo sfondo di quella scenografia romana con bella mossa promozionale. A questo universo si può guardare con simpatia, con complicità; ma si può anche guardare con una certa cautela e forse addirittura con un filo d'angoscia, pur riconoscendo d'appartenere inevitabilmente ad esso. Non sarà questa la «differenza» cui allude Zecchi, quando parla del termosifone e di Van Gogh ? Perfettamente a suo agio nella città moderna, animale metropolitano, il flaneur si aggira tra la folla e probabilmente osserva anche la segnaletica con occhio esperto. Come afferma Baudelaire, capita però che lo assalga questo strano pensiero: che un dio pianti lì dentro le sue unghie e sollevi il teatririgore, una serie di metodologie critiche - strutturalismo linguistico, approccio psicoanalitico, dimensione ermeneutica, poetologia ecc. - riferibili a grandi opzioni di tipo filosofico. Nessuna ·delle relazioni, come si preoccupavano di anticipare i relatori stessi, si avvicinava alla definizione dell'estetica e alla natura del suo insegnamento. Io credo che la dimensione estetica, a livello nucleare, sia il rapporto «affettivo» con la cosa. Se vogliamo sollevare questa semplice definizione, possiamo citare un frammento di Novalis: «Noi cerchiamo ovunque l'incondizionato, e troviamo solo sempre cose». Bateson va un po' più in là, e afferma che la dimensione estetica è un rapporto con la cosa in cui ci riconosciamo •affiniad essa. In questo rapporto dunque c'è un'attenzione specifica, ciò che collega noi e la cosa, le cose fra loro, noi e le cose. Si tratta di un rapporto acausale, che può poi trovare il suo fondamento in regole, regolarità, leggi e mutarsi in un approccio propriamente scientifico. Può svilupparsi però, anche senza questo spostamento di campo, in una conoscenza che, come diceva Eschilo, è legata al sentire, alle passioni. L'arte è lo sviluppo più alto di Cervantes. Ma questa caratteristica, messa in luce anche da Kundera nel suo recentissimo L'art du roman, non è sufficiente a spiegare il sapere dell'arte. L'arte, come aveva già capito Aristotele, non riguarda gli stati di fatto ma il possibile. Per questo pensiero il reale è, come dice Diirrenmatt, «solo un caso particolare del possibile, e per questo è concepibile in modo diverso. Ne consegue èhe, per poterci addentrare nel possibile, dobbiamo trasformare il concetto del reale». Da questa osservazione conseguono alcuni corollari: 1. il pensiero dell'arte non risponde mai nettamente a una domanda. La sua risposta è ambigua: molto spesso è un intrigo che complica la domanda stessa; 2. nessuna risposta alla domanda, che ha dato origine a quel processo del pensiero dell'arte che è divenuto un'opera (un caso del possibile trattato come reale, e per questo .atopico e sconvolgente rispetto al reale stesso), può invalidare quel processo e quella risposta sui generis; 3. il pensiero dell'arte, proprio perché strutturato sui possibili, sull'eventualità, non può annientare nessuna possibilità, ma anzi la deve tendenzialmente far propria all'interno del suo arabesco. ,, Il pensiero in Occidente s1 e sempre misurato in termini di potere. La battaglia della verità ingaggiata da Platone nei confronti del sapere tragico ne è, per così dire, il momento inaugurale. Al di là sta la Repubblica e i viaggi a Siracusa che avrebbero dovuto legittimare il potere politico e normativo con il potere filosofico, che si pone come essenzialmente nometico. Il sapere tende a proporsi come potere o come icona del potere: la sua immagine sacra e intangibile. Il pensiero dell'arte è l'unico pensiero che non si pone come suo obiettivo il dominio sull'altro, ma propone piuttosto l'esperienza dell'altro. È un pensiero paradossale, dunque, che non può a priori rinunciare a nulla, nemmeno a uno scarafaggio, che può diventare il più grande «eroe» della letteratura del Novecento. Non può fare a meno neanche dei gelati, che in Proust diventano il momento di una straordinaria esperienza di forme e di colori. Che questo pensiero non si ponga in termini di potere, non significa che non abbia forza e che la sua forza non sia in qualche modo valutabile. Il campo di grano con corvi di Van Gogh esplora nel paesaggio la possibilità dell'inabissamento del paesaggio. Difficile che un termosifone ci dia una simile esperienza delle cose e del· mondo. Questo pensiero si mostra in opere, vale a dire in costellazioni di immagini e di significati. L'approccio allo specifico linguaggio, in cui queste immagini sono costellate, quello verbale, quello figurativo, ecc., comporta tecniche interpretative . che sono quelle esposte dai relatori a quel convegno da cui abbiamo preso le mosse. Di qui, non solo la legittimità, ma anche l'opportunità che intorno all'estetica si sviluppino insegnamenti e tecniche specifiche. Quando però una di queste tecniche si fa egemone, è il momento in cui il pensiero dell'arte viene affondato in una tana in cui diventa inafferrabile (l'inaferrabile dell'arte!). Sapere tutto delle tecniche esecutive, dei committenti, del pensiero coevo alla Flagellazione di Piero della Francesca, è utile, è necessario, ma non sostituisce mai, in nessun caso, l'esperienza vertiginosa del suo azzurro. L'insegnamento dell'estetica, come ogni buon insegnamento, ci ha spiegato N. Frye, è quello che tende_a «otte.nere che lo studente riconosca ciò che potenzialmente sa già, il che presuppone la sconfitta delle forze repressive presenti nella mente, che gli impediscono di sapere ciò che sa». In questo caso, le forze da sconfiggere sono quelle che hanno relegato l'estetica ad una affermazione della bellezza svincolata dal problema della verità, che è lasciata alla riflessione filosofica. L'accentuazione parossistica delle tecniche e delle discipline «estetico-dipendenti» (o meglio, l'inverso, da cui l'estetica dipenderebbe) è il dominio di queste forze che devono essere sconfitte. Il sapere dell'arte è atopico, rispetto al sapere filosofico e scientifico. Atopica e de-situante rispetto ai codici di questo sapere deve essere la dimensione che lo assume come suo oggetto, o meglio come sua ~<cosa»,luogo di un'esperienza paradossale, erotica e conoscitiva.

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