Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

qualora non corrisponda, o non corrisponda più, al modello richiesto. Appare quindi impossibile - o mistificante - prendere in considerazione separatamente le due parti della L. 663. In questo modo, progressivamente, la sanzione penale perde ogni carattere di certezza ed ogni valenza retributiva, per modellarsi sul singolo condannato e sul suo atteggiamento extraprocessuale. Si potrebbe dire: a ciascuno la «sua» pena; e ci si chiede quale potrà essere il significato di una condanna ad un tempo definito di detenzione, comminata da un organo giudicante, il quale teoricamente commisurerà l'entità della sanzione alla gravità del fatto commesso, ma saprà che, in un momento successivo e separato, la pena verrà ridefinita sulla base di parametri, che con il reato nulla avranno a che vedere. È stato introdotto così, in qualche modo surrettiziamente, un nuovo tipo di pena, senza mai averne posti in discussione il fondamento teorico e glr obbiettivi. Che, d'altronde, questo modello disciplinare della sanzione penale sia sostenuto anche dalla sinistra, sembra corrispondere ad una fase in cui, abbandonati i progetti di trasformazione, si cerca di modificare l'individuo per adattarlo a strutture sociali considerate, nei loro fondamenti, immutabili, mentre in altri ambiti si elaborano dotte analisi sulla velocità del cambiamento nelle società computerizzate. Il problema, in conclusione, non sarà, probabilmente, quello di contrastare la legge - che pure, -nella sua applicazione concreta, aprirà anche spazi di libertà - ma di coglierne il senso complessivo di strategia di massima differenziazione tra i detenuti (e proprio di differenziazione si parla esplicitamente nella relazione alla proposta), e di seguire con molta attenzione il definirsi, nella pratica, della sua parte negativa, per poterne porre seriamente in discussione i fondamenti e la validità. Tenendo presente, per chi sostiene la necessità di trasparenza del carcere, che sicuramente il modellarsi dell'istituzione in maniera diversa per ciascun detenuto renderà questo processo molto più difficoltoso. E che, infine, per quanto riguarda la parte di normativa suscettibile di ridurre l'intervento della pena detentiva, la previsione di misure alternative al carcere, in mancanza di strutture esterne che le rendano effettivamente concedibili - collegate come sono, ad esempio, alla possibilità, da parte del detenuto, di reperire un lavoro od alla necessità di disporre di una dimora stabile - rischia di rimanere, in buona parte dei casi, lettera morta. Ma soprattutto, sarebbe opportuno rivalutare la necessità di elaborazione di una cultura alternativa della pena e del carcere, per non permettere che l'Amministrazione penitenziaria (vedi Niccolò Amato in «Corriere della sera», art. cit.) addebiti in anticipo ogni fallimento, interpretazione involutiva o controriforma, ad una fantomatica opinione pubblica che in preda a reazioni eccessive, chieda «tutto ed il contrario di tutto, a volte la garanzia ed a volte la difesa sociale». Ma in che senso la difesa sociale è il contrario della garanzia? li li ro elltlmapieraviglie Manlio Brusatin L'artedellameraviglia Torino, Einaudi, 1986 pp. 176, lire 28.000 11 senso storico, che ufi tempo si concentrava sugli avvenimenti pubblici, le questioni di stato, gli avvicendamenti dinastici, sta spostandosi sempre di più verso il privato: sia nelle microstorie che rappresentano l'estremo aggancio di sicurezza fra la storia e la verità del reale, sia nel tentativo di ricostruire la storia delle mentalità - e, se delle mentalità, perché non delle sensazioni degli abitanti del passato? Per capire la mentalità di un abitante di Firenze nel Quattrocento, ho bisogno di sapere, o di fingere di sapere, come funzionavano i suoi cinque sensi nella pratica della vita quotidiana. Che cosa vedeva, udiva, annusava, toccava, gustava il mercante di campane fiorentino di cinquecento anni fa? In che cosa costituiva la sua maraviglia (perché anche la meraviglia, come il sogno, la fantasia, il gusto, la facoltà di trascegliere certi segni o certi suoni nella generai congerie, è storica)? Il recente libro di Manlio Brusatin, imbastendo un percorso a zig zag tra alcuni punti nella «galassia della meraviglia» fra il XV e il XVIII secolo, rappresenta un contributo alla nostra conoscenza storica della evoluzione non del concetto bensì del senso della meraviglia in quei secoli (almeno così il recensore interpreta il progetto del libro, che è oscuro e compiaciuto della propria esotericità). Mariano da Genazzano, frate predicatore ricordato dal Poliziano, «nel massimo momento del dramma visivo del sermone gettava verso gli uditori, con le mani a scodella, le abbondanti lagrime che gli sgorgavano dagli occhi». L'aneddoto è meraviglioso per noi, che apparteniamo a una civiltà visiva per cui il ridicolo degli spruzzi ha la meglio sul patetico della causa di quella fonte di pianto; ma probabilmente non lo era per i fedeli di Fra Mariano, ancora immersi in quelli che Brusatin chiama i discorsi della megafonia predicatoria, perché per loro il patetico della voce prevaleva sul comico-drammatico del gesto. Al contrario, la scatoletta che per-· metteva al Brunelleschi la visione prospettica del Battistero, o un qualsiasi meccanismo analogo, non è più per noi fonte di meraviglia perché il nostro occhio «è del tutto allenato a considerare dietro qualsiasi apparecchio una visione al posto della realtà che appare al suo esterno». Il poeta che sottoscrive al detto «è del poeta il fin la meraviglia» rischia di avere corta vita; mentre la meraviglia del filosofo («è proprio del filosofo essere pieno di meraviglia», Platone nel Teeteto) deve essere rivolto a quei fenomeni che hanno una capacità di meraviglia duratura. Ed è a questa meraviglia duratura, duratura nel tempo personale dell'individuo e nel tempo storico della società, che si appunta l'attenzione di Brusatin. Non all'architettura obliqua dei paradossi manieristi, come a Bomarzo, «per cui gli architetti del principe Orsini costruiranno alcune angosciose e inabitabili stanze oblique» (se le stanze sono inabitabili, la nostra meraviglia avrà l'effimera vita di una visita passeggera), ma alla chiesa di Sant' Ambrogio a Vigevano, di Juan Caramuel di Lobkowicz, in cui l'esecuzione architettonica interviene a ogni punto sotto il segno dell'obliquo. Non al trompe l'oeil, «che è una prospettiva stimata per vera ma che rivela immediatamente nella propria piattezza il trucco, dove cioè la meraviglia brucia in un attimo», . ma semmai all'anamorfosi «che invece cova nel misterioso e nel complicato», e che non esaurisce la sua carica di sorpresa nel giro di uno sguardo (qui l'influenza del pensiero di Roger Caillois su Brusatin è evidente). Perché l'anamorfosi, cioè la rappresentazione di una scena in deforma:?ioneprospettica, così come la caricatura, o il gioco di parole, non sono soltanto scherzi visuali o verbali ma ipotesi concettuali. Quando io guardo Craxi o Andreotti nella realtà o sullo schermo televisivo, il mio occhio addestrato dalle vignette legge già l'ipotesi del gobbetto a sventola forattiniano o del tronfismo mussoliniano in quello che vede. Robert Louis Stevenson accusa appunto gli amici di Dottor Jekyll, come l'avvocato Utterson e il dottor Lanfield, di essere incapaci di vedere nei segni esteriori del rispettabile Dottor Jekyll l'ombra della sua variante anamorfica, cioè il signor Hyde. Quando Gesù Cristo dà a Simone il nome Pietro, egli vede in quel nome la possibilità lucida della possente metafora («sopra questa pietra edificherò la mia chiesa»). La cultura è anche capacità di intuire l'anamorfosi in una immagine o in una parola «corretta», e di leggere il significato della deviazione dalla'lnorma in una immagine o in una parola «distorta». Come il pun, il gioco di parole, sta al centro e non alla periferia della lingua, così l'anamorfosi non è curiosità da eruditi morbosi e perversi, ma fenomeno centrale della visualità. Il Il sangue dei sogni è ver- '' de», scrive il poeta visivo cecoslovacco Jiri Kolar, citato da Brusatin. A parte questo riferimento, Brusatin presta poca attenzione all'elemento onirico delle sue fabbriche di meraviglia. Pure il traffico che esiste fra veglia e sogno è intenso, sia nei resoconti che l'autore fa di cose stupefacenti e spettacolari, sia nel repertorio illustrativo che vorrebbe rappresentare quasi un percorso parallelo a quello del testo (con effetto, a mio avviso, dirottante: il lettore non sa più dove si trova, e si perde nel doppio labirinto della scritturi(l' e della figura). Si prenda una cele~ bre fabbrica della meraviglia barocca, Il sogno del Giudizio Universale di Quevedo. L'autore legge la sera «un discorso sulla fine del mondo», il sognatore trasferisce questo residuo dell'esperienza diurna e inventa una scena di giudizio universale di cui è, a un tempo, autore giudice scenografo ·usciere regista giurato attore avvocato coreografo stage-manager trovarobe e spettatore. Ma da dove proveniva quel non specificato discorso sulla fine del mondo che Quevedo stava leggendo se non dal mondo dei sogni? Chi può inventare una leggenda così orrenda, insensata, crudele, illogica e perversa come quella del Giorno del Giudizio se non il Dio Sogno, o uno dei suoi sicari? A sua volta il lettore del sogno di Quevedo, o Quevedo stesso che trascrive il suo sogno, ritrasferisce il materiale onirico nella realtà. E non è detto che il lettore a sua volta, dopo aver letto il Sogno del Giudizio Universale di Quevedo, non decida di dedicare il suo prossimo sogno a quel soggetto;-e così via. Il movimento pendolare fra i due mondi ci sembra irrefutabile, sia nel sogno di Quevedo, sia in quelle altre visioni su un secondo diluvio che Brusatin commenta e illustra. Il diluvio è una metafora forte (anzi, torrenziale); e l'attesa di un secondo diluvio profetizzato per il 1524 su cui Brusatin ricama le sue fantasie e inserisce le sue preziose illustrazioni crea per l'appunto una ragnatela di possibili significati di tipo onirico. Infatti, quando l'anno passa e gabbato è il diavolo del diluvio, ci si affanna a spiegare la mancata pioggia con una sostituzione di pretta marca onirica: non si trattava di un diluvio letterale bensì di un diluvio metaforico, un diluvio di benedizioni e di conversioni che si stava abbattendo sulla Cristianità. E anche l'episodio di Noè nella Bibbia sembra un sogno sognato da Dio, magari un Dio un po' intimorito come il protagonista del nuovo romanzo di Franco Ferrucci, Il mondo creato, durante una notte di tempesta. Brusatin pretende viaggiare verAlmansailmen.o.. D evo confessare che facendo questo libro avevo messo apposta alcune trappole nel bosco. Una era per Guido Almansi, l'attesa è stata mortale ma finalmente c'è. Mi pare che lui dica molto bene qual è il percorso dell'Arte dell~ meraviglia che ho tentato di raccontare nel mio libro. In questo senso ha ragione di dire che non mi sono occupato del sogno perché ho le sue stesse incertezze: i sogni con i sognatori non invecchiano mai bene. La meraviglia è soltanto il guscio del sogno, come un uovo·che non è né si fa senza scorza. Ma ha ancora ragione Almansi, Manlio Brusatin • ~ io non mi occupo effettivamente di «scrittura», amo piuttosto - questo l'avevo dichiarato - parole e immagini messe insieme che fermentano o vanno a male, ma diventano altre cose come spiriti, gas, odori e colori... Altra cosa che mi rimprovera è lo stile «sussiegoso e accademico». Devo dire che per l'argomento della meraviglia seicentesca ho preso deliberatamente uno stile curiale e da accademia a commento di alcuni testi sacri o meno sacri, perché ritenevo che lo stile da settimanale o da Fantastico fosse poco adatto. 1n quanto al mio stato accademico, Almansi non si illuda, non esiste. I miei libri non mi hanno fatto guadagnare nessuna cattedra anzi fino a questo momento me le hanno fatte perdere tutte. Non so di quale terrorismo accademico parli. Se egli pensa che il linguaggio accademico serva agli accademici si sbaglia. Ormai gli accademici usano solo linguaggi da bottegai. In quanto ai pericoli di pensare «alla maniera» di qualcuno, sento un forte odore di zolfo, forse di naftalina. Ancora, questo libro avrebbe come proposito (perfido o prodigioso) di non giovare ad alcun lettore, tranne che a lui. Almansi però non ha l'aria di essere una vittima innocente, nemmeno quando si meraviglia. so alcuni punti anche molto distanti fra loro nel regno della meraviglia; ma la distanza è a misura urbana, come quella che separa l'Arsenale dall'Accademia. Venezia infatti è il grande sfondo su cui Brusatin racconta la sua esperienza di cultore dei passati cultori della meraviglia; e questo gli permette di riciclare in un libro composito materiale già sfruttato in una serie di saggi storici e accademici. Non si vede infatti come si leghino al tema della meraviglia le prime trenta pagine del capitolo sulla fabbrica dell'Arsenale, che è un ottimo esempio di ricostruzione storica ma spudoratamente fuori tema, come un cronista sportivo che volesse inserire un suo racconto di alta letteratura nelle cronache del Mundial (anche se nella parte finale del capitolo Brusatin ha una affascinante intuizione sul legame fra le Carceri di Piranesi e l'Arsenale di Venezia, in particolare per quanto riguarda l'ambiguo rapporto fra pietra e legno). E qui bisognerebbe aprire un discorso sul terrorismo linguistico del discorso italiano di tipo accademico e sul pericolo dello stile foucaultiano. Brusatin scrive sempre in maniera sussiegosa, come si addìce all'alto discorso accademico, e quasi sembra compiacersi là dove il suo. periodare è complesso e oscuro («Le arie gratulatorie a cui si dà fiato sono anch'esse infuocate nell'iperbole poetico-macchinica... »: a parte tutto il resto, perché «macchinica»?). Ma a questo difetto si aggiunge un'altra più grave tentazione: non soltanto scrivere ma pensare alla Foucault, con il lampo delle sue analogie, la possente concentrazione delle sue definizioni, il disinvolto svirgolare fra argomento e argomento. Il Foucault che mi è più familiare, diciamo quello di Les mots et les choses, ci ha offerto delle stupende metafore che oggi noi sfruttiamo, a volte ancora prima di incominciare a pensare (esempio, il suo uso dei concetti di eterogeneo e di eteroclito). Brusatin, che ha ricevuto da Foucault poco prima della sua scomparsa «suggerimenti muti e parlanti» (ma cosa mai saranno questi suggerimenti muti?), non ha niente di paragonabile da offrirci; ma si affanna a seguire le orme del maestro, facendo seguire ~ ai fulmini delle analogie «di quel o::s securo» i baleni delle sue formula- -5 ~ zioni. Il risultato non è soddisfa- Cl.. cente per nessun lettore, se non per quel lettore privilegiato delle sue opere che è Brusatin stesso. «L'invenzione circuitante che si rivendica come una teofania nel I'-... ~ ..... e ~ o::s E ~ corpus del trattato caramueliano è infatti perciò e soltanto l' architet- ~ tura obliqua»: a chi giova questo ~ .e) tipo di scrittura? ~ "'5

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