Alfabeta - anno IX - n. 94 - marzo 1987

gerci nulla: né un tentativo di spiegazione del successo della scienza, né il voler garantire (magari tramite una «teoria della referenza») che Bohr parlava delle stesse cose a cui si riferiva Da/ton, né una teoria pragmatica della verità. Fine concorda con Davidson nel considerare il «vero» come una nozione primitiva che non richiede spiegazioni, e nell'escludere l'idea per cui le frasi sono «rese» vere (da oggetti, pratiche umane o da qualsiasi altra cosa)." Nella sua prospettiva «l'anti-realismo espresso nella idea della verità come consenso è altrettanto metafisico che il realismo espresso da una teoria della verità come corrispondenza».11 Nella contesa fra realisti e anti-realisti, Fine si pone al di sopra della mischia allo stesso modo che Heidegger nella contesa fra Platone e Nietzsche. Ritiene che gli antagonisti si equivalgano. Fine, per esempio, scrive: «L'istanza dell'empirismo [p. es. van Fraassen], al pari di quella dei negoziatori di verità [p. es. Putnam e Rorty] è (in parte) una istanza morale. Ambo le parti guardano alla metafisica, specie a quella del realismo, come a una colpa, e orientano il loro anti-realismo in modo da evitarla. Ma il comportamentismo verso cui inclinano i negoziatori di verità, come si è visto, li inchioda a un balletto comico con il realismo, a un pas de deux più grevemente metafisico che mai. L'empirismo, credo, comporta una tara analoga. Perché quando tallona la scienza e entra nel suo tribunale per emettere sentenze su che cosa credere o che cosa aborrire, evita la metafisica solo per ricadere nel peccato della epistemologia». 11 Questo brano ? simmetrico ali'affermazione heideggeriana secondo cui «il pensiero di Nietzsche era ed è ovunque un singolare e talora molto discorde dialogo con Platone»14 e «la teoria di Nietzsche si adatta talmente bene alla teoria platonica delle idee da esserne una inversione particolarmente ingegnosa».15 Heidegger pensa che Nietzsche accetti l'interrogativo platonico «Che cos'è la verità?», rifiuti la risposta di Platone «la conformità al nostro ricordo di oggetti immutabili», e vi sostituisca la risposta «la capacità di servire la volontà di potenza». Fine pensa che Putnam e io accettiamo la medesima domanda, rifiutiamo la risposta realista «la corrispondenza alla realtà» e la sostituiamo con risposte tipo «la verificabilità ideale» o «il consenso».16 Pensa che van Fraassen accetti l'interrogativo «Che cosa è realmente il reale», rifiuti sia la risposta realista («Ciò che dice la scienza»), sia la risposta pragmatista («Ciò che è utile dire»), e dia una risposta strumentalista («L'osservabile»). Sia Heidegger sia Fine pensano che bisognava rifiutare l'interrogativo. Ma che cos'è secondo Fine l'errore comune a realismo e anti-realismo? Non basta dire che essi pongono interrogativi da non porre, bisogna anche specificare che tipo di falsa immagine del mondo comportino le loro domande mal poste. E neanche questo basterà, fintantoché non si dica come dovrebbe essere una buona immagine del mondo. Ma ovviamente una simile indicazione costruttiva parrà ancora più ignominiosa, metafisica e/o epistemologica. Così Fine deve fare il finto ingenuo. Per esempio dire: «La via più breve per farsi un'idea del NOA /natural ontologica! attitude: disposizione ontologica naturale], è capire che non ha nulla a che fare con l'idea di interpretazione, e con l'idea correlativa di invarianza (o essenza). La tipica disposizione NOA è semplicemente: cerca di prendere la scienza nei suoi termini e non cercare di leggervi altre cose. Se si assume questo atteggiamento, gli 'ismi' delle filosofie della scienza appaiono come futili paraventi: non necessari, non sicuri, e in fin dei conti probabilmente neppure intellegibili».17 • • Concepire le idee di interpretazione e di essenza come sicuramente superflue e probabilmente incomprensibili è, ancora una volta, comune sia a Fine sia a Davidson. La versione davidsoniana della distinzione fra interpretazione e invariante come interpretandum è il «dualismo schema-contenuto» - che per Davidson è l'elemento cruciale di una sbagliata immagine del mondo che ha ispirato falsi problemi filosofici. 18 Si può concepire l'«interpretazione» come l'imposizione di uno schema su un che di invariante, e la si può concepire come capace, debole, o costitutivamente incapace di cogliere l'essenza di ciò su cui si sovrappone. Lasciar cadere questo «terzo e forse ultimo dogma dell'empirismo» ci affrancherà da gran parte dei peccati éondannati da Fine - p. es. dal pec.catoepistemologico di scegliere fra le nostre categorie di oggetti intenzionali, decidendo quali siano credibili, quali analizzabili, quali quantificabili, e quali ancora esaminabili altri'!'lenti.Ma dicendo che si tratta sicuramente di un dogma superfluo, Davidson cade a sua volta nell'ingenuità. Ritiene che accantonare le fantasie dei filosofi ci ponga immediatamente in contatto con il pre-filosofico: «Disfandoci del dualismo fra schema e mondo non ci disfiamo del mondo, ma ripristiniamo un rapporto immediato con gli oggetti familiari che rendono vere o false le nostre frasi e opinioni». 19 Però, come nel caso di Fine, vien voglia di chiedere a Davidson quale immagine del mondo ritenga sostituire al dualismo schema-contenuto. Come dobbiamo pensare non dualisticamente ma sistematicamente a proposito di verità, conoscenza e mondo? Qui che significato avrebbe essere ingenui? Davidson vuol dire che noi non pensiamo affatto rispetto a questi argomenti? Che non abbiamo vedute filosofiche? Che semplicemente buttiamo a mare "tutta la questione? Parendo poto verosimile che sia proprio _questociò che vuole Davidson o che lui e Fine vogliano essere così ingenui, molti critici sono tentati di insinuare che si tratta semplicemente di anti-realisti travestiti - che ciò che sta di là dal realismo e dall'anti-realismo è semplicemente un ulteriore anti-realismo.10 Agli occhi dei realisti, porsi al di sopra della mischia è fare i finti ingenui. Secondo i realisti, Fine getta la maschera quando spiega il «naturale» atteggiamento nei confronti del vero dicendo: «Che cos'è accettare l'evidenza dei propri sensi e, allo stesso modo, accettare verificate teorie scientifiche? È assumerle nella propria vita come vere, con quel che ne segue nel conformare i propri comportamenti, pratici e teoretici, a queste verità». Sembra la visione (semi-nietzscheana) di Peirce, secondo cui le credenze sono regole per l'azione piuttosto che tentativi di corrispondenza con la realtà. Anche Davidson sarebbe definito dai realisti come un ennesimo antirealista quando denuncia l'idea secondo cui le proposizioni sono inverate dalla realtà.11 Per loro, Davidson non può cavarsela dicendo che il «consenso» non invera le proposizioni più di quanto non le inveri «il mondo». Perché il punto per i realisti è stabilire se nella ricerca della verità vi sia qualcosa di più che semplici discussioni tra esseri umani intorno alle parole da usare e alle proposizioni adatte. 22 Davidson chiaramente non pensa che vi sia qualcosa di più, e tanto basta per i realisti a dimostrare che la sua immagine del mondo è antirealista. Il vicolo cieco in cui si infilano Fine e Davidson quando protestano che, malgrado le apparenze, non prendono posizione con Nietzsche contro Platone, sarebbe insuperabile qualora l'unica via propriamente razionale per disfare una immagine del mondo fosse proporne un'immagine alternativa, che esponga le solite vecchie cose - p. es. verità e conoscenza - in una nuova prospettiva. Se così fosse, vi sarebbe un unico dizionario possibile per chi vuol prendere posizione nella battaglia fra realisti e antirealisti, e per chi vuole porsi al di sopra della mischia. Ma questa assunzione presuppone la dottrina platonica secondo cui la verità è già in noi - e per cui noi usiamo già il linguaggio con il quale discutere i massimi problemi. È una assunzione rivolta contro i nietzscheani che pensano che, con dei nuovi dizionari, entrerebbero nel mondo nuoSenza titolo, s.d., inchiostro su carta, 30,5 x 22,2 cm vi temi e problemi. Se si nega la dottrina platonica, si e facilmente considerati inintellegibili, o si è accusati di far valere la retorica e la metafora piuttosto che un serio argomentare. Ma se si dice questo, allora bisogna anche dire che ogni vecchio problema - p. es. realismo e antirealismo - può essere riformulato e reso perspicuo, e che non se ne può scartare alcuno. Si dovrebbe avere una teoria costruttiva per ogni problema - p. es. la verità, la conoscenza, la mente - rispetto a cui in passato ci sono state delle teorie. Questa impasse dialettica dovrebbe suonare familiare, perché è la medesima impasse in cui, secondo Kuhn, vengono a trovarsi gli scienziati quando le loro discipline fanno un balzo in avanti. La filosofia positivista della scienza criticata da Kuhn assumeva che ogni rivoluzione scientifica risistemasse~lementi familiari, senza che quegli elementi mutassero, perché erano (o potevano «in linea di principio» essere) declinati in una lingua neutrale rispetto alle varie immagini del mondo. Questa pretesa era, ancorq.una volta, un corollario della assunzione platonica per cui, nella scienza come nella filosofia, noi possediamo già la verità - perché disponiamo già del linguaggio che permette di formulare le domande giuste. e di descrivere i dati rilevanti. Se questa assunzione fosse giusta, allora dovrebbero sempre bastare le asserzioni e le argomentazioni letterali; non ci sarebbe bisogno né di usare metafore, né di escludere argomenti usuali considerandoli vuoti. Si potrebbero scartare entrambi questi atteggiamenti come sintomi di impazienza, nel migliore dei casi, o di irrazionalismo, nel peggiore. Ma se Kuhn ha ragione, noi progrediamo soltanto attraverso la semplice esclusione di vecchi problemi. Certo, la riflessione sullo stato attuale del dibattito intorno alla posizione di Kuhn suggerisce un modo per superare questa impasse: bisogna distinguere tra due problemi: 1) è legittimo introdurre un nuovo gergo senza sapere se con esso si può spiegare il vecchio gergo? 2) Sarà mai possibile produrre argomentazioni simili? Supponiamo di rispondere «sì» a entrambi gli interrogativi. Ciò equivale a dire che il bilinguismo (tra vecchi e nuovi gerghi) è una eventualità sempre possibile, ma che se stiamo ad aspettarlo non ci saranno mai rivoluzioni scientifiche. Il bilinguismo emerge solo quando, per così dire, la battaglia è finita, quando cala la sera sul campo di battaglia, e la storia delle idee prende a confrontare le posizioni ormai sfumate. Ci vuol tempo per riuscire a figurarsi il modo di esprimere i vecchi cattivi problemi nell'eccellente nuovo gergo, proprio perché (con buona pace di Platone e del positivismo) non esiste una matrice neutra da usare come termine di confronto. Da questo punto di vista, l'incommensurabilità è vera e importante, ma temporanea. Se accettiamo questa argomentazione semi-kuhniana, possiamo rispondere al problema metafilosofico che ho sollevato dicendo che, per quanto un giorno gli storici ci spiegheranno che cosa significassero tutti quei falsi problemi filosofici intorno alla natura della verità e della conoscenza, che tipo di falsa visione del mondo racchiudessero - non c'è fretta. Non è irrazionale rimettere questi problemi agli storici futuri, e intanto procedere nella ridescrizione del mondo nei termini che ci paiono più fecondi. Analogamente, qualsiasi metafora, per ardita che fosse all'origine,_può venire parafrasata, una volta che abbia incominciato a cadere nella ovvietà semi-letterale. Ma si tradirebbe il ruolo della metafora, se ogni nuova metafora dovesse presentarsi munita di parafrasi. 11 Applicando questa linea di pensiero al tentativo di Fine e di Davidson di collocarsi al di sopra della battaglia tra realismo e antirealismo, potremmo suggerire loro la seguente strategia. Devono garantirci che, nella pienezza dei tempi, emergerà una nuova immagine del mondo, una nuova mappa del territorio filosofico. Una mappa che non sarà né realista né anti-realista, ma che ci spiegherà che cosa siano davvero stati i fenomeni storici del realismo e dell'antirealismo (che cosa «realmente» stesse dietro le forò discussioni). Ma non hanno bisogno di disegnare una nuova mappa per giustificare il fatto che quella vecchia era sbagliata. Non hanno bisogno di offrirci un modo per parlare di verità, conoscenza e realtà, libero dal «dualismo di schema e contenuto». Possono limitarsi agli argomenti «puramente distruttivi», e osservare che da ambo le parti abbondano le anomalie, che le vie di uscita divengono sempre più solo verbali, che le rispettive assunzioni paiono ormai ugualmente arbitrarie, che le oscillazioni pendolari del!'opinione filosofica rispetto alle alternative tradizionali sono sempre più noiose. Possono sollecitarci a dimenticare per un po' le vecchie controversie, e a ritornarci su dopo qualche generazione o dopo qualche secolo. u L'invito a soprassedere mi pare la migliore risposta al problema metafilosofico sollevato da Heidegger: se sia possibile criticare un dizionario filosofico senza ricorrere a esso. Questo invito equivale a dire che, se vuoi evitare di discutere un punto controverso, devi astenerti rigorosamente, alla maniera di Wittgenstein, dal rispondere ricorrendo allo stesso dizionario con cui era stata formulata la domanda. Ma questo non significa ripetere l'errore di Heidegger in Essere e tempo: non si tratta di trovare un dizionario che «situi» e «distanzi» la vecchia controversia. Né significa invocare la retorica della «naturalezza» suggerita dai brani di Fine e di Davidson che ho citato. Non bisogna pensare al « ritorno alla natura», perché sarebbe l'ennesima espressione della idea platonica per cui la verità è già da sempre in noi. Bisogna ammettere che l'unica terapia per una controversia vecchia e sbagliata è un oblio temporaneo. Bisogna cioè proporsi di creare cause per dimenticare le vecchie controversie, e non dare ragioni per cui dimenticarle. Si tratta di trovare un dizionario che (per ora) sia incommensurabile con il vecchio, per distogliere l'attenzione dai problemi posti dal primo, e per aiutare la gente a dimenticarli. Ma questa causa di oblio non sarà una ragione di oblio a meno che - ma questo contraddirebbe il presupposto della incommensurabilità - non vi sia un metadizionario con cui tradurre quelle ragioni. Come osserva Davidson in Paradoxes of Irrationality: «L'agente ha delle ragioni per cambiare le proprie abitudini e il proprio carattere, che però provengono da un ambito di valori necessariamente estrinseco rispetto ai valori sottoposti al cambiamento. La causa di un simile cambiamento, se c'è, può quindi non essere una ragione per ciò di cui è causa. Una teoria che non è in grado di spiegare l'irrazionalità può anche non essere capace di spiegare i nostri sforzi salutari, e talora fecondi, di autocritica e di miglioramento personale».15 Ne consegue che l'autocritica a livello filosofico (p. es., il livello del tentativo di accantonare il dissidio tra Platone e Nietzsche) è necessariamente «irrazionalistica». Perché su questo piano gli unici «argomenti» sarebbero del tipo «Proviamo a risolvere le cose in questo modo», senza che venga esplicitata la natura di quelle «cose». L'ultimo stadio . evolutivo dell'antiplatonismo, lo sviluppo di ciò che Nietzsche definì «il più lungo e coraggioso auto-oltrepassamento del/'Europa»16 consisterebbe in una retrocessione della razionalità come attitudine a fornire ragioni che soddisfino criteri preformati - così da toglierle il primo posto nella lista delle virtù intellettuali. La razionalità andrebbe vista come la virtù caratteristica degli storici delle idee - gente che viene molto tempo dopo la rivoluzione e assegna posti e priorità ai vecchi problemi sulle nuove mappe - e non come la virtù dei filosofi. La virtù filosofica dovrebbe • t:: essere piuttosto, grosso modo, l'originalità, il saper forma- ] re nuovi sistemi di credenza e di desiderio capaci di causa- g l::s

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