Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

mo del 90% su base annua, in cui l'operaio non qualificato guadagna l'equivalente di duecentomila lire al mese1 il docente universitario non supera le seicentomila e lo stesso Presidente della Repubblica gode di un appannaggio inferiore al milione, l'inesistenza di una sinistra forte e organizzata, capace di rappresentare politicamente gli interessi e i bisogni delle classi più svantaggiate, rischia di abbandonare all'avventurismo dei professionisti dell'anarchia sociale masse ingenti di lavoratori tenuti in condizioni di intollerabile sfruttamento. I peronisti e gli intellettuali Umberto Curi Il I peronisti? Vuoi che ti '' parli de las bestias?» mi dice Horacio Boneo, direttore del Centro de Estudios de Estados y Sociedad, al quale chiedo di spiegarmi le ragioni dell'ostilità e del vero e proprio disprezzo con cui gli intellettuali argentini guardano al partito che si ispira alla figura di Per6n. «Non è facile spiegare ad un europeo le caratteristiche di un movimento così composito e internamente diversificato e, soprattutto, così irriducibile al lessico e alla geografia politica del mondo occidentale. Basti pensare che, all'interno del partito giustizialista, convivono, anche se in maniera fortemente conflittuale, tendenze di chiara matrice nazi-fascista, con orientamenti di tipo guevarista, gruppi anarchici e consistenti spezzoni delle più forti organizzazioni sindacali, cattolici intransigenti e socialisti riformisti. La base sociale del movimento è sicuramente popolare, prevalentemente costituita da operai, disoccupati e lavoratori marginali; ma non mancano esponenti di classi più abbienti, animati da un forte spirito nazionalista, e neppure taluni settori intellettuali, convinti che il peronismo possa rappresentare la risposta più adeguata alle esigenze di un paese che sta tuttora cercando una fisionomia più definita, do.po l'allucinante periodo S i è molto parlato di futurismo in questi ultimi mesi: con la mostra di Palazzo Grassi e l'ampia eco della stampa si può ben dire che il movimento generatore di tutte le avanguardie sia uscito allo scoperto, fuori dal recinto degli addetti ai lavori. Di molti aspetti si è discusso, in convegni o sui giornali (anche «Alfabeto» ha contribuito a creare un momento di riflessione sul tema). Non tutti possono essere d'accordo nel giudicare una materia tanto incandescente, ma almeno su un punto si è raggiunta una certa uniformità: nel valutare come sorpassato il vecchio pregiudizio che vedeva il futurismo come effetto del provincialismo culturale italiano. Al contrario, sono emersi con assoluta evidenza proprio i legami internazionali di questo movimento, l'anima cosmopolita nonostante il conclamato nazionalismo, e soprattutto la funzione di anticipazione rispetto allo sperimentalismo successivo, a largo raggio nel mondo. Stupisce, dunque, che nel recensire il recente libro di Sebastiano Vassalii, L'alcova elettrica ( Editore Einaudi), Enrico Baj («Corriere della Sera»», 3 dicembre 1986) abbia giudicato ancora una volta il futurismo come fenomeno ineluttabilmente minato da «provincialismo», da «angustia culturale e della dittatura militare. Il fatto è che questa pluralità multicolore di posizioni è tenuta insieme non da un programma politico preciso, né da scelte di carattere strategico, ma da opzioni sentimentali, da una sorta di irrazionalismo prepolitico, fondato sul culto fanatico della figura di Per6n, su rivendicazioni genericamente populistiche e su una velleitaria vocazione antimperialistica. Il risultato di tutto ciò è che in una fase, come è quella attuale, in cui la giovane democrazia argentina è ancora esposta ai rischi di golpe militari, il giustizialismo funziona come un fattore di persistente logoramento, anziché di definitivo consolidamento, di istituzioni democratiche ancora complessivamente molto fragili». È facile capire, sulla base di queste premesse, per quali ragioni l'intellettualità democratica, anche quella più sensibile ad istanze di rinnovamento politico e di progresso sociale, si dimostri lealmente solidale con la linea seguita dal Presidente Alfonsin, nonostante il carattere fin troppo prudentemente riformistico della politica perseguita dall'attuale capo del governo. «Bisogna riconoscere - mi spiega Osvaldo Guariglia, Presidente del Centro de lnvestigaciones Filos6ficas, una delle massime autorità della vivace filosofia argentina - che non vi è alcuna alternativa praticabile, anche e soprattutto per la totale inaffidabilità, o la vera e propria pericolosità del movimento peronista, sicché non resta che collaborare, col massimo impegno e magari anche con qualche forzatura, al programma di sviluppo democratico sostenuto dal partito radicale. Al di fuori dei due grandi raggruppamenti capitanati da Alfonsfn e dai dirigenti peronisti, i quali insieme totalizzano quasi 1'80% dei consensi elettorali, troviamo solo un'insignificante miriade di piccole formazioni politiche, incapaci di costituirsi come punto di riferimento per scelte più avanzate e più coraggiose, in campo economico e sociale». Ancora più convinta, per motivi del tutto ovvi, è l'adesione alla presidenza Alforisfn dichiarata da Eduardo Rabossi, Direttore della Sociedad Argentina de Analisis Politica, e sottosegretario nell'attuale governo radicale, un intellettuale di spicco, direttamente impegnato nel nuovo corso della politica argentina: «Il recente viaggio di Alfonsfn in URSS e a Cuba e la partecipazione alla riunione dei paesi non allineati, stanno a dimostrare in tutta evidenza l'orientamento a cui si intende riferirsi in politica estera: un superamento di fatto della logica dei blocchi contrapposti, senza fanatismi antiyankee, ma anche senza cedimenti filosovietici, coltivando, come obiettivo di medio o lungo periodo, l'ipotesi di una più stretta unità fra i paesi del!'America Latina». Di parere nettamente diverso,, nel coro pressoché unanimemente favorevole ad Alfonsfn, è l'opinione di Ana Maria Fernandez, un 'intellettuale attiva e battagliera, che dirige il Dipartimento di Psicologia nell'Università di Buenos Aires: «Certo, la politica estera del governo radicale è pienamente condivisibile, soprattutto se paragonata con il folle avventurismo che ci ha portato alla guerra delle Malvinas, o allo stolto nazionalismo del periodo di Per6n. Ma la politica economica di Alfonsin è del tutto inadeguata alle attuali esigenze di un paese in cui l'instabilità delle istituzioni politiche dipende, in larga misura, dall'estrema fragilità della situazione economica. Quanto può reggere un sistema democratico, in cui gli stipendi dei dipendenti dello stato variano da un minimo di 200mila lire mensili, fino al massimo di meno di un milione (è, appunto, l'appannaggio del capo del governo), mentre i salari dei lavoratori toccano, al massimo, le cinquecentomila lire al mese? Tutto ciò, tenendo conto del fatto che i beni strumentali, o comunque quelli di non primissima necessità, come gli elettrodomestici 9 le automobili, raggiungono prezzi superiori a quelli italiani, pur essendo di qualità più scadente, e senza dimenticare che anche il 1986 si chiuderà con un tasso di inflazione che sfiorerà il 100%. Insomma, pur essendo minoritario e attestato su posizioni ideologicamente discutibili, se dovessi votare oggi credo che la mia scelta sarebbe per il Partito Comunista». È difficile non concordare con la denuncia dei limiti presenti nell'azione di governo intrapresa da Alfonsfn, soprattutto per quanto riguarda le misure adottate per garantire la ripresa economica. Il famoso piano austral ha indubbiamente abbattuto i precedenti, vertiginosi tassi di iperinflazione (qualcosa come il 90% su base mensile, vale a dire un incremento dei prezzi al consumo misurabile quotidianamente, al ritmo di oltre il 3%), senza tuttavia ridurre il preoccupante indebitamento con l'estero e, soprattutto, senza modificare adeguatamei:ite i principali meccanismi economici del paese. Al contrario, l'austerità imposta sul piano interno ha ulteriormente allargato la forbice fra i ceti più abbienti (ex latifondisti riconvertitisi come grandi speculatori finanziari, liberi professionisti, soprattutto avvocati e ingegneri, commerciant(e imprenditori) e gli strati più svantaggiati, costituiti l'alcova di provincia Claudia Salaris bigotta», un «piccolo mondo antico, carico di strapaese e frustrazioni», insomma. Vero è che Vassalli ha ricostruito il clima d'una Firenze antica, poco sfiorata dal moderno, una Firenze in cui si muovono Papini, Soffici, Tavolato, Palaueschi e Marinetti di tanto in tanto, tra beffe, livori, provocazioni. Vassalii opera a metà tra storia e finzione: messe le mani sulla documentazione che riguarda il processo per oltraggio al pudore subito da « Lacerba» per certe irriverenze immoraliste di Tavolato in «elogio della prostituzione», ci ha ricamato intorno, facendo supposizioni, ricostruendo e inventando dialoghi in puro fiorentino becero. Credo che Vassalli non abbia voluto andare al di là della descrizione del clima d'un episodio tanto marginale quanto divertente. Certo, dal libro Papini risulta un improbabile teppista (difficile immaginarselo così: con quegli occhiali a fondo di bottiglia... ), Soffici appare un cinico troppo incline alla beffa di paese, Tavolato emerge come una specie di marionetta pilotata dai più maturi e scaltri sodali. Tutta la simpatia dell'autore va ovviamente a Campana, incompreso e dileggiato da una simile congrega di volponi (proprio a Campana infatti il Vassalii ha dedicato il suo precedente saggio romanzato). Ma da qui a dare un giudizio su « Lacerba» in quanto tale, o sul futurismo, ce ne corre. Il problema è complesso .. Non si può negare che esistano elementi di strapaese nel gruppo fiorentino, tanto diverso per formazione e retroterra social-culturale dal futurismo milanese: qietro al primo c'è il mondo agrario toscano, dietro al secondo è fin troppo scontato ricordare che c'è il clima della Milano operosa e industriale con le sue tensioni sociali. E senza dubbio Marinetti è più avanti di tutti nel concepire un'avanguardia culturale modernamente organizzata, ali'altezza della ..società tecnologica. Le differenze tra i due gruppi vengono al pettine nel momento della rottura tra fiorentini sedicenti futuristi e marinettisti. Ma è pur vero che in quel rapido giro di anni Soffici è . stato l'interlocutore principe di Apollinaire in Italia, ha fatto conoscere il cubismo e s'è cimentato come raffinato autore di «chimismi lirici», mentre «Lacerba» è diventata la più bella testata del mondo, la prima vera e propria rivista d'avanguardia, sul cui modello si formeranno altri fogli successivi, con collaborazioni d'eccezione: Apollinaire, Diiubler, Max Jacob, Roch Grey, ecc., Picasso, Archipenko, Ferat, Larionov, ecc. Se poi ci fu un intellettuale italiano di cultura davvero poco strapaesana e provinciale, questi è stato Marinetti, francese di formazione, gran conoscitore e propagandista della poesia simbolista europea e del verso libero negli anni dell'apprendistato prefuturista: la sua rivista « Poesia» era orgogliosamente presentata come «Rassegna Internazionale» in più lingue. Nella storia dei suoi contatti con la cultura francese non va ignorato il legame con Jarry, di cui acquistò ad un certo punto i diritti letterari (fatto che aiuta a capire i gusti di Marinetti). È abbastanza sintomatico che per diversi anni dopo la nascita del futurismo Marinetti abbia continuato a pubblicare i suoi libri in doppia edizione, italiana e francese, perché sapeva bene a quali interlocutori rivolgersi. Ancora negli anni trenta Kandinskij impiegava nelle sue lezioni i manifesti del futurismo, ricevuti da Marinetti vent'anni prima, e ne faceva argomento di discussione con gli allievi. Anche Mondrian, Ivan Gol/, Ezra Pound non hanno mai negato l'importanza del futurismo come primo germe del nuovo. Intorno al 1940 Marinetti era ancora in rapporto epistolare con Matisse. Si tratta difatti e documenti per lo più inediti o poco noti, che certo servirebbero per la comprensione dai dipendenti dello stato e dagli operai. D'altra parte, alla pur insufficiente politica economica del governo radicale non sembra esistano alternative credibili: non lo è quella propugnata dal movimento peronista, che ha anzi la gravissima e primaria responsabilità di non aver saputo tradurre in strutture produttive funzionali e moderne, capaci di garantire uoo sviluppo non effimero, il periodo di grande prosperità economica successivo alla Seconda guerra mondiale; ma non lo è neppùre quella sostenuta dal Partito comunista, arroccato su posizioni settarie e infantilmente estremiste, e non alieno dall'avallare le scelte di lotta armata dei gruppi di trotzkisti e montoneros che ad esso fanno riferimento. Anche attraverso le lucide analisi di alcuni intellettuali argentini di spicco, il panorama offerto dall'attuale situazione politica del grande paese sudamericano appare essere tutt'altro che confortante. Il consenso di cui gode la 12olitica moderata di Alfonsin sembra, infatti, motivato dall'incubo di un ritorno della dittatura militare, o dal rifiuto del populismo peronista, più che da un'adesione convinta e sufficientemente radicale. Uinesistenza di una forza politica di sinistra, capace di raccogliere ed esprimere in termini coerentemente politici le inquietudini delle classi popolari e le impazienze di ampi settori intellettuali, è probabilmente l'aspetto di maggiore debolezza, e di intrinseca instabilità, della democrazia argentina. C'è solo da sperare che ai fattori di gracilità interna, non si aggiungano le speculazioni o gli intrighi di quanti, dall'esterno, guardano con sospetto all'indipendenza della politica estera praticata da Alfonsfn. Diversamente - e su ciò concordano pressoché tutti gli intellettuali con cui ho discusso di questi problemi - il fanatismo dissennato dei peronisti, e le nostalgie autoritarie di alcuni settori militari, potrebbero presto far precipitare nuovamente nel caos questo paese. d'un fenomeno di così vasta portata. Negare tutto questo con la motivazione dell'ossessivo nazionalismo di Marinetti conduce fuori strada. Marinetti fu un acceso nazionalista, certamente, ma non fu il solo ad avventurarsi in tale direzione. Il fior fiore della cultura italiana fu travolto da quella ventata: dal Pascoli, che al tempo dell'impresa tripolina cantava: «La grande proletaria si è mossa», agli intellettuali vociani, dal populistico amore per l'alpino di Jahier al patriottismo barricadero dei lacerbiani, ali'estetismo dannunziano, e via via in una varietà di motivazioni diverse, che Mario lsnenghi colse anni fa nel suo volume su Il mito della grande guerra. E ciò non solo in Italia, basti pensare ad Apollinaire g:,a Majakovskij in un primo momento, per non parlare dell'atteggiamento di molti partiti socialisti d'Europa nel 1914. Nazionalismo e imperialismo furono ideologie di massa che cementarono strati sociali differenti ed intellettuali di diversa estrazione. Oggi l'esaltazione della guerra non può non risultare odiosa ad ogni coscienza democratica. È una constatazione lapalissiana. Ma nel valutare quel passato denso di contraddizioni, l'accusa di provincialismo è un elemento improprio che poco serve a districarsi nella selva dei fatti.

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