Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

I- •nevrosi dell'Occidente, non è dovuta proprio alla mancanza di reciprocità fra natura e individuo, tra la spontaneità dei processi della natura e la sovrapposizione della volontà dominante della tecnologia? Anche l'uomo fa parte della natura, è natura in gran parte anche lui, anzi è natura anche lui e quindi esercita questa costrizione contro se stesso, contro l'individuo; e i fenomeni eruttivi che ogni tanto subiamo sono in parte frutto delle offese arrecate, sono una sorta di vendetta della natura. Quindi l'uomo subisce i contraccolpi delle offese che fa alla natura, anche alla propria natura. La liberazione della scienza da questo pregiudizio, non solo suo mà anche suo, di dover essere utile a non si sa mai chi, sarebbe di capitale importanza. La sua conversione alla gratuità del conoscere e alla supremazia dell'avventura intellettiva e immaginativa dèi processi di conoscenza, io credo che potrebbe maturare proprio nell'amicizia restaurata con i poeti, con coloro che non essendo scienziati beneficiano di questo nome: poeti. D'altra parte la poesia ha certo registrato tutto quello che la scienza ci ha permesso di vedere come mutamento avvenuto e in corso; la poesia non è stata a occhi chiusi, ma se c'è qualcuno attento a cogliere i segni, a vigilare, qualcuno con le antenne, si potrebbe dire che questi è proprio il poeta, per le ragioni che ho cercato di dire. Forse proprio così la scienza eviterebbe errori e colpe in cui, per osservanza a supposti fini che le competono, è caduta, facendosi profondamente usare come fornitrice di tecniche indiscriminate. Questo non vuol dire che la scienza diventi poi avara, si chiuda in sé, ma che appunto decida in prima persona le cose e scelga le tecniche che possono essere veramente di aiuto e costituiscono uno sviluppo per l'uomo. Certo decisioni difficili non mancheranno, mi ha colpito molto quella del bambino che potrebbe nascere mongoloide; ma, appunto, nel calcolo delle probabilità, ci sono delle scelte già perdenti in principio, e sappiamo quali sono e quali sono state; ci sono invece quelle che giocano nel grande gioco dell'universo, di cui tutti facciamo parte, e a queste noi . chiediamo che la scienza collabori con grande generosità. Una culturanuova Pietro Ingrao Se ho capito bene il discorso di Moravia e anche il tema a cui lui ci ha chiamati, mi pare che ne emerga un problema centrale, rispetto a cui non solo scienza e poesia, ma più in generale la comunità, l'umano, si trova a misurarsi in una maniera del tutto inedita rispetto al passato; parlo della questione, a cui forse dobbiamo cercare una risposta, se è vero che è avvenuto un fatto, anzi, un seguito di fatti che sono connessi alla scoperta della bomba atomica e che segnano, vogliamo adoperare una parola solenne, una svolta di epoca, per cui, rispetto alla storia come l'abbiamo conosciuta finora, starebbe per aprirsene o se ne sarebbe già aperta un'altra, appunto quella dell'era atomica. Mi pare che la novità non sta solo, se leggo bene· la premessa che ci viene da Moravia, nella micidialità della bomba, ma nel fatto che essa dà tutto un altro carattere e tutta un'altra portata, una portata catastrofica, alla pratica di uno strumento millenario dell'uomo, uno strumento millenario di regolazione di rapporti tra gli uomini e dei rapporti con la natura, cioè il ricorso alla guerra e all'uso di quella che diciamo la forza distruttiva della guerra, sia per definire le forme di produzione e di possesso, sia per la spartizione dei territori, sia per la definizione dei rapporti di gerarchia tra gli uomini e le strutture degli stati. Mi pare che ci sia una globalità dell'atto, non solo nel senso che la bomba atomica scavalca i confini, del resto questo è un ragionamento che è stato fatto anche per l'episodio di Chernobyl, e non solo perché rischia oramai di proiettarci oltre i confini stessi del pianeta, negli spazi stellari, ma perché l'uso di questo strumento armato giunto a questa dimensione, colpisce, mi sembra questa la tesi di Moravia, radicalmente anche il vincitore. Non esistono più vincitori e vinti e può cambiare addirittura la condizione d'esistenza di tutto il pianeta, quindi le regole della vivibilità, per cui persino la famosa antitesi schmidtiana, che ricordiamo tutti, «amico-nemico» perde di senso, si svuota, diventano impqssibili 1~due categorie e la sorte di queste due categorie. L'altro elemento che mi pare ci parli di questa svolta d'epoca sta nel fatto che la stessa concezione della bomba come deterrenza, come pura minaccia, ingaggia, ha ingaggiato, ha sviluppato e alimentato una corsa allo sviluppo di tecnologie che giunge quasi fino all'automatismo, alla possibilità dell'atto automatico, dove· il rischio dell'errore è tanto forte e gravido di conseguenze, da arrivare forse, oggi, domani, dopodomani, quando può essere, alla impraticabilità di un controllo politico dello strumento. Terzo aspetto: questo nuovo tipo di rapporto sul pianeta e la nuova forma che assume lo strumento della guerra, dell'atto armato, non solo sta portando -a figure del tutto nuove, quelle delle superpotenze, ma muta radicalmente la struttura del potere, poiché è fondato, vorrei dire connaturalmente, sul massimo di segreto e sulla concentrazione massima del comando. Ho detto sino quasi all'automatismo delle decisioni, per cui si presenta, direi per la prima volta così aspramente, la domanda: chi decide? Chi è il sovrano? E ci si interroga anche sul tipo stesso di legittimità di un tale potere, rispetto non solo al presente, a noi che ci siamo adesso, ma alle generazioni future e più in generale al dato millenario del rapporto fra uomo e pianeta. Quindi, toccando queste grandi domande (chi comanda, chi è il sovrano, chi decide, dove sta la legittimità di un tale potere) si incide sulla possibilità stessa di una norma legittima e legittimata in cui riconoscersi, e mette in crisi valori costitutivi (ve» gliamo chiamarli democratici?) del mondo moderno, del mondo in cui siamo cresciuti. - Ora, io non credo assolutamente che da un'analisi di questo tipo, ammesso che sia esatta, possa derivare e discendere un atto d'accusa, come dire, al lato materialedella bomba, alla scienza moderna o alla scienza in sé. Condivido pienamente quello che diceva su questo punto Bernardini. Del resto ci sono pagine famose, angosdanti, sul dilemma che allora si pose, su cosa furono quei mesi dell'estate 1945 e come subito si aprì il conflitto dentro le coscienze degli scienziati, (ci sono cose molto belle di Oppenheimer su questo tema, ma non solo sue) e sul rapporto fra gli scienziati e il potere; sono anche molto d'accordo con Toraldo quando ci ricorda, rispetto ad ogni visione distruttiva della scienza, il suo carattere invece continuamente dilemmatico, l'elemento di continua invenzione e di immaginazione che richiede, per cui lo stesso richiamo etico che si fa agli scienziati è scoperta di ogni giorno per lo scienziato stesso. Non credo nemmeno che spetti ai poeti, in quanto tali, la capacità illuminante e redentrice, non credo insomma al poeta come suscitatore di emozioni, di mobilitazione delle passioni degli animi, per cui si contrapporrebbe al freddo logos degli scienziati la forza emotiva e trascinante della musica poetica. Per quel poco che riesco a pensare alla poesia, non riesco a sfuggire a una nozione dell'atto poetico, pure esso come atto cognitivo, che identifica, scopre, svela atti e procedimenti del reale, certo ron i suoi propri strumenti, che definirei ellittici, capaci di cogliere, di svelare le relazioni proprio per le forme di accostamenti che sono peculiari della poesia e diversi rispetto al cammino scientifico. Del resto ha ragione Porta, non credo che i poeti abbiano le «mani nette», e vedo anch'io, se cerco nella storia il procedere poetico, come spesso sia largamente segnato da una visione e lettura di dominio, di possesso, di ,assoggettamento dell'altro; non ci sono innocenti, non è questo il punto, non c'è una scienza che pecca e una poesia in- _nocente, ma si tratta di vedere come ora noi fronteggiamo questa domanda inedita: è possibile, di fronte a questa stretta, a questo bivio rappresentato dalla condizione atomica, (è quello che Leo- • netti diceva «introdurre un'autocorrezione») spostare il crinale delle cose verso un altro orizzonte, che non sia di possesso, ma di comunicazione fra esseri umani e natura, verso quello che Scalia, citando Holderlin, chiamava «abitare poeticamente»? Questa è la grande domanda a cui non possono sottrarsi né gli uni né gli altri, e questo tocca i limiti del sapere attuale. A me sembra impensabile la nascita di una nuova cognizione delle cose, di una nuova lettura delle condizioni dell'uono sul pianeta, senza porsi i problemi delle strutture, cioè delle istituzioni e dei soggetti, dei protagonisti di questa mutazione, cioè del modo con cui e del rapporto che si può creare con i soggetti probabili, insicuri ma probabili, di questa risposta alla svolta d'epoca. Quindi il grande tema è quello di una nuova cultura e di una nuova pratica, cioè quale sia la via per una mutazione culturale che investa i sei miliardi di uomini del 2.000 •di cui abbiamo parlato qui oggi, se l'asse del rapporto resta la guerra giunta a questo esito. Qui vedo una difficoltà proprio tra cognizione, sapere e pratica vivente e la guerra atomica, perché la definirei inimmaginabile; per quanto noi cerchiamo di circoscriverla, di definirla, non riusciamo nemmeno a misurarne i possibili cortorni. È l'evento che non è mai accaduto, di cui non c'è esperienza. Ora, a me sembra che la penetrazione, l'avvento di culture nuove, di sistemi di convivenza e di regole di vita, sino ad ora, cioè sino alla storia che conosciamo, abbia proceduto invece tutto attraverso un nesso fra _laproposta, la questione da affrontare, il progetto e l'esperienza quotidiana del singolo. Vediamo per esempio come ha camminato il solidarismo operaio, che è stato protagonista di questo secolo: è nato molto dal vissuto individuale dell'esperienza, dal rapporto fra il soggetto e l'esperito, ora per ora, paese per paese, singolo per singolo, con peculiarità e differenze fra luogo e luogo, ma con un dato in comune per cui il singolo partiva direi dall'elemento più ovvio della sua quotidianLtà, e si legava a questo fatto generale. Qui invece il rapporto è con un evento che appare enormemente distante, l'evento atomico, quasi impossibile da immaginare sia nel suo aspetto di distruzione atomica, sia come ipotesi di un altro tipo di relazioni, cioè ·di un sistema di regole che non sia quello del do~ •minio armato, del possesso esclusivo e assoggettante gli altri, e sia anche della conquista di un rapporto con la natura che non sia di puro dominio. Pensate a come diventi determinante oggi una questione che, forse, ho sentito poco evocata nella discussione: il sistema formativo e informativo. Pensiamo, per esempio, a come la televisione sia permeata, nella formazione quotidiana dell'immaginario collettivo, dalla logica dell'atto armato, della forza armata, del fatto che chi vince vince proprio perché è armato e vittorioso, e come questo sia penetrato nella cultura comune. Ecco che io sento un grande compito inedito non solo di disvelamento, di studio, di scoperta della condizione possessiva in cui è organizzato oggi il mondo, sino al limite del rischio atomico; un compito di scoperte, invenzioni di un altro tipo possibile di relazioni che richiedono un'alta immaginazione e un grado forte di astrazione e di progettualità. Certo qui io ritrovo la politica nella sua specific~tà, ma la sento disarmata senza la formazione, la diffusione di una cultura altra che cominci à camminare nel mondo, di un nuovo rapporto fra masse e conoscenza e mondo del sapere. Non quindi questa nostra discussione come un appello retorico a scienziati e poeti, perché scuotano le anime e dicano la verità, ma la coscienza di una nuova e determinante funzione degli intellettuali e dell'innovazione culturale, vista non come pura invenzione tecnologica, ma come problematica che viene assumendo lo stare dell'uomo sul pianeta e il possibile rovesciamento di abitudini millenarie. Certo è difficile, perché si è dissolta dentro di noi l'immagine di un procedere lineare delle cose e dei soggetti e di una storia garantita a tappe. Questo passaggio forse è stato un mito. Alla credenza e all'idea dell'individuo univoco si è sostituito il senso e la coscienza del molteplice e del contraddittorio e le regole nuove, regole di un dominio non possessivo, della fine di un dominio possessivo, dovranno fare i conti con questa complessità, dico addirittura con questa ambiguità delle cose. Ma credo che solo cogliendo il peso nuovo che assume il dato di cultura e la ricchezza della complessità che ci troviamo di fronte, noi possiamo pensare e sperare di salvare così l'immagine e il desiderio di una comunicazione senza assoggettamento, di una pace colla natura, di una condizione umana in cui cessi quel dilemma di cui parlava Carlo Bernardini: «O il pugno di riso o la libertà». La bomba-mito Antonio Porta Volevo riallacciarmi a un'affermazione di Ingrao. Non so se sia vero che la guerra atomica sia veramente inimmaginabile o lontana. Ho l'impressione che sia il contrario, e, come ho detto prima, profondamente radicata come in un desiderio mitico. -Senoi ripercorriamo la storia dei miti dell'uomo, scopriamo le radici di questo mito che è la bomba H. Il nostro sgomento credo dipenda dal fatto che forse per la prima volta nella storia lo vediamo nella possibilità di realizzarsi, nell'imminenza di diventare vero. Questo è lo sgomento; allora, a questo punto, lo rimuoviamo, lo rimuoviamo perché arrivati al termine, alla situazione terminale come la chiamava stamattina Leonetti, recalcitriamo. Quindi un'autocorrezione è molto più difficile di quanto si creda, proprio perché questo mito che si è materializzato nella bomba ha radici antichissime. Pensiamo al mito dell'Apocalisse, di Atlantide, delle civiltà .scomparse, (la narrativa fantascientifica ha immaginato che il mito dell'Atlantide sia derivato da una immane esplosione nucleare che è stata poi dimenticata, la Terra è rinata, ma l'esplosione è rimasta nella memoria dell'uomo). C'è una pulsione verso una fiammata finale, e i poeti l'hanno sottolineata e anche colpevolmente accompagnata con canti. L'innocenzaperduta Henry Mathews Quando Porta ha detto, parlando di me, che sentiva nella parola désespérance il desiderio della bomba, io ero ancora più scandalizzato che offeso, poi, riflettendo, ho visto che aveva assolutamente ragione. C'è una ragione non di fantascienza, ma un fatto fondamentale nell'esperienza umana, che è la perdita della lingua-madre, della famiglia dove si abita; quando si nasce si impara una lingua che è tutto il mondo e questo mondo è tutto, è mio; arrivati all'età della scuola, quando si impara ·a scrivere e a leggere, questa è una moneta d'oro che diventa una moneta di carta, anzi, di carta straccia e l'effetto è sempre questo. Credo che ci sia un senso di perdita in quel momento che contribuisce a questo desiderio di buttar tutto fuori perché il mondo «dell'innocenza» è perduto e non ce n'è un altro.

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