Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

cesso che una data specie influiva sull'ambiente e lo cambiava, lo faceva a vantaggio di alcune specie e a svantaggio di altre. Quando diciamo che distruggiamo l'ambiente, dobbiamo renderci conto che è una visione assolutamente antropomorfa. Diceva Goethe: «L'uomo non sa quanto sia antropomorfo». Facciamo un esempio, il più semplice: tutti hanno sentito dire delle famose alghe eutrofiche che invadono i mari quando questi sono inquinati. Quando noi distruggiamo il mare perché lo inquiniamo, allora certe alghe prendono il sopravvento, consumano tutto l'ossigeno e i pesci muoiono. Ecco quindi una distruzione chiarissima dell'ambiente. Certo distruzione dell'ambiente dal punto di vista dei pesci, dal punto di vista nostro che mangiamo i pesci, ma per le alghe è una pacchia e lo è anche per i batteri che distruggono le alghe. Tutte le volte che una cosa non va bene per una specie, va bene per un'altra, la natura si adatta subito. Quindi, diciamocelo chiaramente, noi vogliamo salvare noi stessi, salvare l'ambiente vuol dire salvare quell'ambiente nel quale noi prosperiamo, nel quale stiamo bene. Di questo si tratta e non di una nobile aspirazione, quasi altruistica, di salvare l'ambiente: vogliamo salvare noi stessi. Ma che cosa deve sopravvivere, che uomo deve sopravvivere? Ecco i problemi gravissimi che si pongono oggi, i problemi veramente attuali. È l'uomo del lavoro o l'uomo del tempo libero che vogliamo che sopravviva? È l'uomo che soffre o quello che ha tutti i suoi desideri appagati? È l'uomo che ha stimoli o l'uomo che è assolutamente senza stimoli (e guardate che qualunque stimolo è anche una sofferenza)? Vogliamo che sia un uomo con forte individualità o che sia un'umanità collettiva, collettivizzata? Tutti diranno: individualità. Andiamoci piano. Uno dei grandi salti che ha fatto la natura è stato quando dal protozoo si è passati al metazoo, cioè quando da un animale unicellulare si è passati a quello pluricellulare, in cui ciascuna cellula aveva indubbiamente una sua individualità, ma era in funzione di tutte le altre, dell'animale totale. Guardate che il pianeta, oggi, sta diventando un metazoo: i mezzi di comunicazione non sono altro che i nervi, i mezzi di trasporto non sono altro che i vasi sanguigni, linfatici e così via. Noi stiamo diventando un metazoo, cioè un animale pluricellulare. Io mi limito a descrivere quello che a qualcuno può sembrare mostruoso. Va bene, se è·mostruoso, allora vediamo di capirlo, di capire se c'è qualcosa da fare contro, oppure se invece la cosa va bene. Insomma, quello che ho tentato di dire con queste poche parole è quello che ha detto tanto bene Sartre: «L'homme est à inventer chaque jour». Questa è una cosa per me bellissima. È vero, ed è vero oggi molto più di una volta. «L'uomo va inventato ogni giorno.» È inutile credere che noi abbiamo l'uomo, che è quello che è, e che lo vogliamo preservare. Altro che preservarlo! Noi dobbiamo sapere che cosa dobbiamo inventare, ecco il contatto fra i due emisferi, fra le culture, fra gli uomini che operano in maniera diversa nell'ambiente culturale. Che cosa possono dire i poeti, che cosa possono dire gli scienziati su questo? Ricordo che Pavese una volta disse: «Si può fare poesia soltanto di quello che si ricorda, non con delle cose nuove». Allora, a questo punto, si potrebbe pensare che i poeti non hanno niente a che fare con questa costruzione del mondo. No, vi consolo subito. Mi ricordo anche di Cocteau che dice: «Le poète se souvient de l'avenir». È vero, le poète se souvient de l' avenir, è qui che noi dobbiamo collaborare e farla finita con questo uomo spaccato in due. Dire: questo lo devono far~ gli scienziati, a tavolino, in laboratorio, è sbagliato, non lo possono fare. Al più potranno dare i mezzi per farlo, ma, ripeto, non esistono gli scienziati da una parte, i poeti dall'altra. Esiste l'uomo che m certe situazioni, in certi momenti, esercita certe facoltà, in certi momenti ne esercita certe altre; esercita le facoltà logiche, ma esercita anche quelle immaginative. Come può esistere uno scienziato se non si esercitano le facoltà immaginative? Ma per carità. Oggi molta gente della filosofia della scienza si occupa di quelli che si chiamano i «mondi possibili», di quelli che Leibniz chiamava i «mondi possibili». Noi continuamente ci creiamo dei mondi possibili e su questi lavoriamo, in maniera da vedere quale di questi mondi possibili può diventare un mondo di realtà, che sono i mondi possibili su cui opera il poeta. Naturalmente quando si parla di mondi possibili bisogna dire con quali vincoli, con quali costrizioni un mondo è possibile, e quelli dello scienziato sono più stretti di quelli del .poeta, certamente. Il poeta opera su un insieme di mondi possibili, molto più largo, è indubbio; in questo insieme di mondi possibili stanno anche i mondi possibili dello scienziato, .e lo scienziato non può operare se non ha questa immaginazione dei mondi possibili. Pensate un po' che bellezza vedere le cose da questa angolazione, e vedere come veramente possiamo intenderci e possiamo collaborare. Noi siamo qui per immaginare un futuro, per immaginare un avvemre e per tentare di costruirlo. Le antennedella poesia Mario Luzi Parlare dopo una lezione così eccitante e scoraggiante di Toraldo è uno svantaggio ma cercherò di superarlo. Toraldo parlava di Leopardi, ha citato molto dallo Zibaldone che è una fonte inesauribile; lo ringrazio anche per questa sovrabbondanza di simpatia per Leopardi. Leopardi, -come voi sapete, era ostile alla scienza, intimamente e psichicamente, non intellettualmente, che sentiva trionfare appunto perché l'epoca moderna s1 stava affacciando e a lui non sfuggiva; il poeta è anche questo: è quello che non dorme mai, quello che coglie dei segni, coglie i segni del mutamento dei tempi. Leopardi ci viene rappresentato come reazionario, rivolto all'indietro, a rimpiangere i tempi passati. È invece il primo no, lucidissimamente pronunciato e con un coraggio morale inaudito. La scienza diventava la protagonista dell'epoca. E che cosa ci andava di mezzo? Ci andavano di mezzo le favole antiche, l'immaginazione dell'uomo, che sarebbero scomparse dall'orizzonte della cultura. Dobbiamo dire che Leopardi non ama questa svolta, ma l'accetta, si pone in una situazione dialettica, di antagonista se volete, ma dialettica con l'epoca, inaugurando così il senso moderno. Il senso moderno infatti non è seguire tutto ciò che il procedere della evoluzione ci presenta; il senso moderno è appunto prendere coscienza del mutamento, soffrirne magari e drammatizzare. Il senso della modernità è drammatico proprio perché il poeta è una creatura unitaria e tutti i tempi convivono nel suo presente; proprio per questo vede meglio di chiunque altro le lacerazioni e le vede anche alla luce della continuità dell'umano, permettetemi di dire, non per privilegiare il poeta al di sopra di tutto. Insomma se c'è qualcuno in cui la continuità dell'umano è percettibile, è sensibile ed è gelosa anche, è nel poeta, che non solo registra tutto ciò che accade nel senso del mutamento, ma lo soffre anche nelle lacerazioni che il procedere, che la progressione di necessità impone. La scienza nel suo periodo trionfalistico ha guardato la poesia come a un fatto del passato, quasi prendendo alla lettera la distinzione vichiana, per cui la poesia è l'infanzia dell'umanità, ma ora, in tempi maturi, la scienza è diventata tutto il linguaggio, il logos si sostituisce al mito. Ora, non credo che Leopardi, il quale si mise in una posizione solo psicologicamente avversa, ma intellettualmente dialettica come lo scientismo del suo tempo; proverebbe più quel senso di déception, di disinganno che aveva provato ai suoi tempi. Con questa scienza, con questa fase della scienza, credo che Leopardi, e nello Zibaldone ci sono tante tracce di questa attenzione, si sarebbe invece trovato in sintonia. Oggi la scienza non appare più come devastatrice o annullatrice del mistero ma una moltiplicatrice del mistero stesso, è una· fase del conoscere che procede su questo incremento del non sapere, cioè il sapere moltiplica il non sapere. Più noi sappiamo, più aumenta la quantità del non saputo e chissà se mai riusciremo a saperlo. Ora le favole, così care a Leopardi, possono essere defunte, ma l'immaginazione dell'uomo è mobilitata più che mai, e qui trovo proprio una rispondenza con quello che diceva poco fa Toraldo, che d'immaginazione c'è più che mai bisogno e non sono solo i poeti ad averne bisogno e tantomeno ad averne l'esclusiva ma ne hanno bisogno anche gli scienziati, e qualunque uomo debba in qualche modo progettare il suo domani da una condizione di non sapere, perché appunto, torno ancora a coincidere con Toraldo, l'uomo è prima di tutto oggi alla ricerca della sua identità. Questa identità non è immobile, ma è continuamente mobile. Il concetto ormai defunto di realtà, di realismo, di qualche anno fa, zoppicava proprio per questo, perché citava la realtà come un dato, invece la realtà è un punto da trovare volta per volta, da ,, aggiustare insomma; il poeta cerca la realtà ma non ce l'ha già pronta e così credo sia anche per lo scienziato. Ecco vedete quanti punti di coincidenza ci sono. Allora l'ipotesi è che, al posto delle assiderazioni della scienza di settanta, ottanta anni fa, l'elemento centrale sia proprio lo strumento del ragionare. Questo potrebbe ancora angosciare uno SP.iritonon fortificato dalla consape~olezza, e cioè che tutto sia ipotesi, che un'ipotesi generi un'altra ipotesi, e che non ci sia mai una certezza nel senso definitivo. Ma per riferirmi ancora a Leopardi, questi, se volete, rimpiangeva i poteri del mito, ma li rimpiangeva a mente lucida sapendo che erano irreversibili, e ciò denota ancora una volta questa unità creaturale che è il poeta per il quale nessun tempo è definitivamente morto, neanche quello che non tornerà più perché è irreversibile. Quindi Leopardi facendo questo non faceva un'opera reazionaria, come credevano quei superficiali ideologi romantici che lo lodavano come un uomo, un poeta del passato. Non credo che Leopardi si sarebbe rammaricato di questa perdita di certezze, anche di quelle certezze scientifiche a lui così poco congeniali, quando avesse saputo che proprio la continuità delle ipotesi è essa stessa una certezza illimitata come l'infinito che è appunto nell'universo, che è la dimensione dell'universo. Oggi la scienza è anche una fonte di molte meraviglie: le leggi generali, le conclusioni acquisite o che sembravano acquisite vengono rimesse in dubbio, ma intanto ci sono delle invenzioni prodigiose e indicano, a me pare, che l'universo è un'immensa officina, in cui elaborando e trasformando la sua propria composizione, si costruisce appunto l'universo; l'universo costruisce se stesso e questo contiene ciò che noi diciamo morte e ciò che noi diciamo vita, i buchi neri compresi; tutto questo è molto affascinante, ma poi nel piccolo, nel segreto, ci sarebbero infinite altre analogie. Noi siamo parte di questa costruzione che implica molti morti naturalmente, molte distruzioni, ci siamo implicati come materia o come spirito? Questo è un altro interrogativo che forse oggi più che mai è interrogativo. L'utilità dei fini della scienza non è più un assoluto, e. forse non dovrebbe neppure essere il criterio pilota del lavoro scientifico; solo la scienza dal suo interno, dalla sua, vorrei dire, ascesi conoscitiva, dovrebbe stabilire, a un certo suo grado di consapevolezza e di saggezza, quello che è utile. Stamane Bernardini vedeva come un miraggio la saggezza degli scienziati, ma io la vedo possibile, forse perché in me perdura il mito di Archimede, che rinunzia, che nasconde ciò che ritiene non proficuo all'uomo tra le sue scoperte. Ecco, la scienza non dovrebbe mai accettare di delegare ad altri il potere di stabilire quello che è utile e l'utile per il quale essa deve lavorare; è accaduto purtroppo, come sappiamo. Quindi il criterio di utilità: che cosa è utile? Penso che la scienza nella sua ispirazione debba dirlo, non può trincerarsi in un: «No, questo non può deciderlo la scienza», perché allora non si sa chi decide, nessuno decide niente; noi sappiamo che questo accade, è accaduto nei termini più nefasti. Che la scienza abbia, diciamo così, lasciato ad altri il compito di stabilire il criterio di utilità, a cui si disponeva a collaborare o che si disponeva a servire, che l'abbia delegato a chi non era scienziato e non era certamente un poeta, è certamente una macchia nella storia. Sul discorso del dominio della tecnica sulla natura stamattina ha fatto un discorso molto bello Leonetti; ho seguito con molto interesse proprio il tema come l'ha esposto; effettivamente è anche questa una scelta, forse non scelta (perché siamo sempre scelti e non si sceglie mai) dell'Occidente, della cultura occidentale. Il dominio della tecnica sulla natura, che ci sarà in qualche misura sempre stato, non è tutto a vantaggio di chi domina, del dominatore. Io penso che l'uomo da questo dominio che ha esercitato sulla natura, da questa violenza se vogliamo anche dire così, non abbia guadagnato niente. Avrà avuto dei vantaggi materiali, che però gli si ritorcono contro. E in quanta parte, questa ..... ,

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