Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

Questo ci serve per capire come i due programmi, il programma della poesia e quello della politica devÒno assolutamente rimanere separati, altrimenti può succedere che la poesia diventi propaganda e la politica, ahimè, diventi «poetica». È prnprio quello che i detentori del potere vogliono. Mi ha colpito stamattina Bernardini quando ha ricordato un passaggio essenziale per quanto riguarda le decisioni della politica. A Los Alamos i fisici erano disposti a non costruire più la bomba, perché la Germania non poteva averla. Allora i «decisori» hanno inventato l'immagine del Giappone da distruggere completamente, ma evidentemente non avevano in mente il Giappone, il loro obiettivo ormai era Stalin, con l'avanzata troppo rapida dell'Armata rossa in Europa; quindi dovevano assolutamente dare una dimostrazione «poetica» su un obiettivo falso. Questa è la falsa poesia, questa è la funzione metaforica e mitica che oggi viene rifiutata almeno da certa poesia. Insisto su questo punto perché per altri versi, assistiamo al ritorno o a una riproposta del mito in poesia; la poesia dovrebbe riconquistare i miti, riconquistare un principio d'ordine, e su questo punto credo che non si possa essere d'accordo. Credo che il disordine della poesia non sia soltanto una questione di mimesi, di rispecchiamento del disordine organico del caos reale, ma rifletta quella che ho chiamato «critica del linguaggio». Ma quando sento Mathews che parla di désespérance, nella quale lui si blocca, io dietro ci sento un «desiderio di bomba», molto forte, un desiderio di annientamento. Non credo che i poeti possano cambiare la «visione del mondo» possono però agire nel linguaggio; agire dentro il linguaggio e nella quotidianità vuol dire riprendere la sfida della comunicazione. Su questo punto sono perfettamente d'accordo con Moravia quando parla di terza via. È un problema molto complesso perché si rischia la banalità, l'ideologismo, si rischia di dire troppe cose che inficiano l'opera letteraria che rimane avventura, perché la scrittura è un'avventura. Quando uno scrittore o un poeta comincia non sa mai dove andrà a finire. Come ha fatto notare tempo fa Giuseppe Pontiggia, l'opera deve saperne di. più del suo autore. Questo significa che non poteva programmarla. Chiuderò questo mio intervento di conversazione con un esempio. Recentemente ho sentito Jean Bergeret, dell'università di Lione, psicoanalista, che tutti i giorni è in contatto con i tossicomani. Ora, Bergeret sosteneva, e credo che tutti siano d'accordo su questo punto, che l'idea che le droghe dilatino la coscienza è un mito moderno, un fa/so dal punto di vista scientifico. Eppure è stato avallato dai poeti. Oggi ci sono ancora dei ragazzi che credono che le droghe dilatino la coscienza, perché lo ha detto Baudelaire. Allora preferisco passare dalla parte delle prove scientifiche; se la scienza mi dice che le droghe diminuiscono il livello della coscienza, le responsabilità dei poeti diventano immense, proprio come dicevo all'inizio, proprio nella costruzione e nella divqlgazione di miti, cioè di indicatori esistenziali che non hanno nessuna base reale. Per salvare noi stessi G. Toraldo di Francia Non parlerò di bomba atomica. Voglio riprendere il tema generale, da un punto di vista generale. Questo incontro tra scienziati e poeti ha un senso, o no? Perché mettere insieme queste due categorie di operatori culturali? Si potranno parlare o no? È stato detto che la scienza sarebbe il dominio dell'applicazione del pensiero razionale-logico, mentre invece la poesia sarebbe quello dell'immaginazione. Sì, è vero che ci sono precedenti in questo senso, e ci sono alcuni che avrebbero escluso che si potesse parlare gli uni con gli altri in un incontro di questo genere. Io vorrei ricordarvi il nostro Leopar- . di nello Zibaldone il quale, parlando di un critico, dice: «Par che venga a conchiudere che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole e in proporzione coi lumi della nostra età. Ma se così è, ecco l'illusione sparita e se il poeta non può illudere non è più un poeta e una poesia ragionevole è lo stesso che dire una bestia ragionevole». Io però ricorderò che non tutti sono stati di questo parere; per esempio Goethe affermava: «Tutto ciò che è lirica deve in complesso essere molto ragionevole, ma in particolare un po' irragionevole». Poi mi pongo anche quest'altro problema: in che modo si possono parlare oggi, anche se una volta si parlavano, gli scienziati e i poeti? E ritorno allo Zibaldone di Leopardi. Leopardi ci dice: «Perdono se il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poiché esser contemporaneo a questo secolo è, o inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser poesia». Sembra di sentire lamentele che anche oggi, a volte, si ascoltano e lasciano perplessi. Dirò subito che non sono di questo parere, nonostante la mia grande ammirazione per Leopardi. Credo che il problema sia lo stesso oggi di quello dei tempi di Leopardi: è un problema mal posto, in quel modo. Quello che ci è necessario, oggi, è capire che l'uomo ha queste due facce, che non esistono i poeti e gli scienziati, esiste l'uomo che ha certe facoltà e a volte le sviluppa, sviluppa una faccia e un'altra volta sviluppa l'altra faccia di queste sue facoltà. Vorrei mettere la cosa in termini addirittura naturalistici, tanto per spiegarsi meglio. Oggi noi sappiamo che il cervello è fatto di due emisferi, il destro e il sinistro che non hanno la stessa funzione. Grosso modo, si può dire: l'emisfero sinistro è preposto alle facoltà del linguaggio, del pensiero logico, del calcolo e così via. Invece, l'emisfero destro, sempre grosso modo, è preposto alla facoltà del riconoscimento di forme, dell'immaginazione, della musica, dell'espressione pittorica e così via. I. due emisferi, però - e qui sta il punto - sono collegati, esiste quello che si chiama il corpo calloso, per cui non è che la destra non sappia quello che fa la sinistra, si mandano continuamente infCrmazioni. Ho l'impressione che a questa divisione parziale delle facoltà intellettive, cerebrali, umane, si sia sovrapposta una rigida separazione di carattere culturale, per cui, a un dato momento, è invalso il vezzo di dire: «Io sono un poeta. Sono un poeta, basta, non ho altro, questo mi caratterizza completamente». «Io sono un matematico, quindi, per carità, l'altro emisfero per me non esiste.» Ecco, questa è una deformazione culturale a cui oggi noi dobbiamo rinunciare, dobbiamo rinunciare all'uomo spaccato in due, e fare sì che l'uomo riacquisti e possa usare tutte le sue facoltà. Perché qual è il problema? Il problema è quello, ovviamente, che si sente tante volte dibattere e dire di una crisi d'identità, crisi di identità di tutto ma in particolare dell'uomo. L'uomo è quello che è in un dato ambiente, in certe condizioni di vita che sono naturali, che sono artificiali e così via; cambiate le condizioni e voi, in un certo modo, cambiate il soggetto che vive in queste condizioni. Ora, siccome le condizioni sono cambiate rapidamente e drammaticamente, ecco la crisi d'identità: l'uomo non sa più chi è, perché mentre si era adattato, aveva trovato un'immagine di se stesso dentro certe condizioni che potevano sembrare stabili, potevano sembrare fisse, oggi le cose sono talmente cambiate che l'uomo non sa più chi è. Cosa succede? Succede che noi dobbiamo però, in qualunque modo, come diceva, appunto, Moravia, trovare il sistema di convivere con queste condizioni .che sono certamente nuove e pongono una sfida terribile. Ma per conviverci occorrerebbe avere più cervello, non meno cervello, ovviamente. Bisogna, in altre parole, riuscire a convivere con noi stessi, questo è il problema gravissimo. E allora bisogna conoscersi, bisogna riuscire a conoscersi, ma non soltanto al modo del yvwaLçmrt6v; sì, certo, yvwmç aui:6v, ma conoscere appunto che cosa è l'uomo. Ora l'uomo più che mai non sa che cosa è; ma non solo sa che cosa è, non sa dove va. Noi sappiamo che l'uomo è capace di cambiare l'ambiente nel quale vive; l'ha cambiato in maniera intenzionale, a volte, e a volte gli è scappato di mano e si trova dinanzi a un ambiente terribilmente mutato. Ma uno dei pri,mi ambienti nei quali viviamo siamo noi stessi. Tutti sanno che noi, oggi, siamo alla soglia di poter cambiare noi stessi. Tutti hanno sentito parlare di ingegneria genetica. L'ingegneria genetica oggi non sa fare ancora quelle cose che la fantascienza ha descritto, però siamo proprio alle porte di una rivoluzione. L'uomo potrà ca~biare se stesso cambiando il suo genoma e quindi fare di se stesso quello che vuole. A questo punto si pongono i problemi terribili. Che cosa vogliamo? Qualcuno può anche dire - come in certi ambienti più conservatori si sente dire: «La cosa più semplice è fermare tutto, l'uomo non deve in nessun modo cambiare se stesso, intervenire sul suo patrimonio genetico». Non è possibile. Il fatto è questo: certe scoperte, certi progressi scientifici non sono formabili, non c'è un decreto che li possa fermare. Perché? Perché ci sono dei casi attraverso i quali le nuove tecnologie si introducono da sé necessariamente. Voi pensate, se riusciamo a scoprire una malattia genetica di un embrione nel seno della madre e abbiamo il modo di intervenire per evitarla, come si fa a dire di no? Chi si sentirebbe il coraggio di dire di no? Interveniamo e cambiamo le cose in maniera che quella malattia genetica scompaia. Ma una volta imboccata quella strada, dove arriviamo? Il mongoloide è l'esempio più semplice: se io posso intervenire e evitare che un bambino nasca mongoloide, intervengo. Supponiamo di essere in grado di intervenire nel caso di qualcuno che sappiamo diventerà oligofrenico, che avrà poco cervello. Si deve intervenire o no? Qualcuno direbbe: certo! Io dico «certo» con parecchi se e parecchi ma, perché se ci si mette per quella via, dove si arriva? Bisogna saperlo questo, bisogna capirlo. L'uomo è un animale che, come tutti gli animali, è una traccia del passato. Il nostro patrimonio genetico non è altro che l'accumulo di tracce, di orme del passato che,• oggi, noi possiamo anche leggere e possiamo, in una certa misura, ricostruire. Ma quello che è nuovo nell'uomo rispetto all'animale è . che l'uomo è un'orma del passato ma è anche un progetto di avvenire: l'intelligenza vuol dire questo, vuol dire diventare un progetto di avvenire. Allora, che cosa vogliamo che sia questo progetto, che riguarda perfino noi stessi? Vorrei avvertire, come molti miei colleghi avvertono: «Guarda che la scienza questo non ce lo può dire». Molti credono che con la scienza si arriverà a dire, a illuminare tutto, a risolvere tutti i problemi. No. La scienza, quello che noi vogliamo essere, dove vogliamo andare, non ce lo può dire. Potrà, al più, in certi casi, fornirci i mezzi per raggiungere i fini che vogliamo raggiungere, ma il porre certi fini è un'impresa assolutamente extrascientifica, è un'impresa di immaginazione. Qui comincia il problema. Si dice: un fine supremo, certamente - ormai tutti aderiscono a questo - è salvare la natura, salvare il mondo, non distruggerlo. Appena diciamo questo ci si domanda: quale natura, quale ambiente vogliamo salvare? Il grosso pubblico non è abituato a chiedersi: «Quale ambiente volete salvare?» Guardate che nella storia «miliardaria» - non millenaria - del nostro pianeta sono cambiate continuamente le condizioni naturali. .Cosa vuol dire «salvare un ambiente»? Tutte le volte che è sue-

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