Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

scono il potere-, le nozioni di comunità che ora, dopo l'indicazione di Kuhn, sono invalse nell'uso, abbiano importanza. E anche Geymonat, nel suo trattato di epistemologia, parla di un PST, patrimonio scientifico tecnico, che in qualche modo costituirebbe un fluido operante. È non semplice, ma con più fattori incastrati, la no0 stra visione «interna» della realtà o mondo (la quale, come realtà, risulterebbe sfuggente o di accertamento non diretto, oggi). Dunque l'unico elemento su cui possiamo fare puntello è il nostro senso di una comunità di specialisti; e non è una forza al disopra, al difuori o contraria, fino a fronteggiare il potere in nome della base degli uomini. Sicuramente però possiamo fare riferimento a questo o ad altro spirito comunitario, a questa capacità di darsi talora delle definizioni penetranti e decisive per uno svuotamento del dominio sulla natura, mentre è ormai diventata disastrosa e probabilmente catastrofica la nostra accelerazione di questo dominio stesso. La critica e crescita della conoscenza, come l'apprendimento di base, oggi, o una volta la fuga dal- . la servitù della gleba verso la città, sono eventi in cui può dirsi che si determina a tratti un più, un salto. O una rottura. Come si sa, è imprevedibile. E si può prepararlo orientandosi in modo relativo, in contrasto con ciò che è «centrale». Giocava con le nuvole Matte Bianco Mi sono accorto di aver detto per errore, cose che non pensavo, sebbene quello che ho detto contenesse il nocciolo del mio pensiero. Questo mi fa pensare a una frase del matematico inglese Whitehead: «Exactness is a fake», l'esattezza è un falso. Mai riusciamo a parlare precisamente. Non volevo dire che uno scienziato non debba fare un discorso in cui il Logos gioca il ruolo fondamentale: la precisione vuole che ci si debba esprimere così, ma credo che si potrebbe procedere in un altro modo. Secondo me bisogna riferirsi a Platone che incomincia alcuni suoi dialoghi con: «... ma da dove vieni tu, adesso?» «Vengo da un piccolo villaggio». «E che si racconta da quelle parti?» e piano piano comincia a entrare in argomento. Penso che Platone, almeno per il pensiero occidentale, sia ancora uno dei filosofi più importanti mai esistiti. Vorrei che gli scienziati - forse anch'io sono uno di questi - fossero più platonici in questo senso. Quello che volevo dire non è che non si debbano dire le cose in formule chiare e precise, in cui il Logos sia quello che è, ma che si possono rendere meno aride. Ad esempio_ in un ragionamento matematico alla fine si arriva al Logos puro e semplice, ma se nel processo del ragionamento vengono usate comparazioni emozionali, credo che ciò non solo sarebbe legittimo, ma comunicherebbe molto meglio la verità che si sta cercando di dire. È sicuro che gli scien~iati sono esseri umani, per quanto vogliano esprimere soltanto il Logos. C'è un bellissimo studio di Adamar, un matematico francese, sulla creazione matematica, che mi ha colpito molto e che rileggo ogni tanto assieme alla risposta di Einstein, Questi diceva che Adamar giocava con immagini che erano visuali e attive. La mia interpretazione è che egli giocasse con le nuvole, dicendo: «No, questa non va bene qui, aggiungiamone un po',· togliamo da questa, cambiamo la forma, ecc.». Inoltre affermava che, una volta arrivato a una visione emozionale soddisfacente, tradurla in formule era molto sempli- ,ce. Credo che questo sia essenziale nella creatività, e credo anche che si potrebbe mettere in pratica: questa è la mia idea. Abitare la Terra, poeticamente Gianni Scalia Anni fa si parlava della posizione delle due culture, oggi non si parla più delle due culture e mi sembra che ci sia una ragione: la scienza sta cambiando. Io non sono uno scienziato, sono un letterato, e neppure un poeta, quindi, tra scienziati e poeti non avrei quasi diritto alla parola, ma mi sembra che proprio il problema della parola sia essenziale. Noi stiamo tentando di tradurci. Tradurre credo ' ' '· .. I che voglia dire due cose: unità e differenza. Ci sono due linguaggi diversi che per tradursi hanno bisogno di qualcosa in comune. Mentre tutti voi parlavate ho preso alcuni appunti e, senza fare nomi, cercherò di raccogliere nella mia mente quello che avete detto, e faccio una proposta interrogando un poeta, Holderlin. Il verso di Holderlin dice così: «Pieno di meriti, l'uomo, ma poeticamente abita la Terra». Vi propongo questa . questione che mi sembra la questione in comune: abitare la Terra. Aggiungeva Holderlin «sotto il cielo»: questo forse è il sacro, il mistero, la meraviglia, lo stupore da cui nascono insieme, come è noto, la filosofia e la scienza, ma non parliamo dell'altrove, parliamo della Terra. Abitare la Terra mi sembra il problema in comune. Come abitare la Terra? Ed è possibile ancora abitare la Terra? Ci facciamo delle domande terribili: come vivere? Come sopravvivere? Prima di questo c'è una domanda che facciamo ad un pcieta: come abitare la Terra? Holderlin ci dice: poeticamente. Cosa significa poeticamente? Sappiamo che c'è un pensiero meditante e un pensiero calcolante, come ci ricorda il grande filosofo che ha meditato su questi versi di Holderlin. Ma il pensiero della Terra, della natura, della physis, se adoperiamo questa parola greca (diciamo physis come essere, come ciò che è, ciò che viene alla presenza, ciò che ci appare) forse diciamo qualcosa che è insieme pensiero calcolante e pensiero meditante. Pensiero calcolante che misura, forse è questo il segreto della scienza. Il misurare e non solo il dominare la natura, perché il Marisa Bonazzi, 1965 dominio della natura è di tutti, non di poeti e di scienziati, il pensiero della natura, dell'essere, è ciò che c'è in comune tra poeti e scienziati ed è universale. Che· cos'è un pensiero della physis, della natura, dell'essere, di ciò che è? Mi sembra di aver capito alcune cose. In primo luogo, è un pensiero della differenza e non dell'identità. Differenza tra ciò che è e ciò che noi costruiamo, progettiamo, inventiamo. Questa differenza l'abbiamo dimenticata ed è ciò che Heidegger chiama; l'oblio dell'essere. La dimenticanza della nostra appartenenza a ciò <-'he ci appartiene, cioè l'abitare la Terra. In secondo luogo, un pensiero del nulla. Credo che non possiamo mai dimenticare nei nostri discorsi, che siano tutti di poeti o di scienziati o di tutti gli uomini, che viviamo nell'epoca della tecnica come il compimento, la realizzazione della civiltà, della società perlomeno occidentale. Il pensiero del niente è il pensiero che ci pone la tecnica, quasi una lezione della tecnica che cì pone di fronte al problema della produzione tecnica, del niente. Siamo arrivati ad un pensiero che credo sia anticipante: anticipare la fine, che non è soltanto il pensiero di poeti, prevalentemente, o degli uomini religiosi, ma il pensiero della produzione possibile e reale del niente, la distruzione del pianeta, la fine della specie, la stessa costruzione di un altro uomo dall'uomo che abita la Terra, come nelle realtà biologiche. Un pensiero della natura, della physis, è un pensiero che è insieme fisico e biologico. Sentiamo che c'è una comunità di destino tra uomo e natura. Possiamo pensare la natura '• .i•_ •• •, .:-? ;-~\. _;.,~~, • .,.;-l_~ , . ·' --ci •• ~.i:t -~#;,~,_. -~,,.~. .::..~~ .. -;_, ••· tu,l• • ' senza l'uomo; non possiamo più pensare l'uomo senza la natura. Quello che chiamiamo conoscenza della natura è la conoscenza della nostra appartenenza alla physis. Non credo si possa chiedere ad uno scienziato, e l'abbiamo sentito nella polemica tra Bernardini e altri di noi, di attribuire a se stesso una responsabilità al di fuori della sua scienza. La responsabilità dello scienziato è di fronte alla scienza, neppure di fronte al potere o alla società, ma è di fronte alla scienza. Nell'epoca della tecnica, cioè del dominio della natura nel senso proprio, che io credo sia solo tecnica, questa pone lo scienziato di fronte alla responsabilità verso la scienza. Infine, il limite della scienza. Ricordo la frase di un filosofo: «L'essenza di una cosa è il suo limite». Possiamo dire la sua figura storica culmine. Questo tempo della fine anticipato nel pensiero del limite è proprio quello che lo scienziato sente all'interno della sua conoscenza della natura come pensiero della sua appartenenza alla Terra. Quindi in conclusione mi sembra di volervi proporre questa parola interrogando Holderlin: abitare la Terra. Nell'abitare la Terra, e cioè nel senso dell'appartenenza e non dell'appropriazione, forse troviamo un linguaggio comune, cioè quello che di comune c'è tra i linguaggi; ma per finire, poeticamente, cosa vorrà dire abitare poeticamente la Terra? Ci siamo dimenticàti, in quello che abbiamo detto, della differenza tra tempi biologici e tempi storici, tra i tempi lunghi della biologia e dell'evoluzione che è insieme fisica e vivente. Come separare oggi la fisica e la biologia se siamo abitanti della Terra? E nello stesso tempo i tempi brevi della storia e della politica, del dominio, non della natura. Non sarei d'accordo allora con Engels non nel dominio della natura, ma nel dominio della società. Noi non sentiamo più la distinzione tra dominio della natura e dominio della società, perché cominciamo ad accorgerci della continuità o della comunità di destino, fatemelo dire in termini impropri, della comunità di destino di uomo e natura. Un pensiero della differenza, un pensiero del nulla, che è pensiero dell'essere, un pensiero della natura come physis, sono le questioni che riguardano l'abitare la Terra poeticamente. In tre modi abitare poeticamente la Terra: sentire di appartenervi, e che ciò che ci appartiene ci fa appartenere a ciò che noi abitiamo, in ciò che noi abitiamo. Conservare, custodire, che è un senso della verità, ~ un senso della parola verità, preservare, e consegnare al futuro. Convivere con la bomba Alberto Moravia Per prima cosa vorrei presentarmi non come scrittore, ma come uomo interessato al problema nucleare, cioè dire come sono arrivato ad occuparmene. Brevemente lo farò perché non voglio davvero presentarmi come modello, ma solo con la mia esperienza personale. Sono stato invitato nel 1982 in Giappone, dalla Japan Foundation, una grande associazione culturale, per vedere il Giappone. L'anno prima era stato invitato Borges: non so che avesse veduto, ma lo trovò bellissimo. Insomma io girai il Giappone e andai ad Hiroshima. Ero già stato due volte ad Hiroshima, ma questa volta fu un po' più solenne. Portai dei fiori sulla tomba dei centomila morti e poi, siccome mi ripugnava scrivere delle corrispondenze, che avevo fatto in un'altra circostanza, pensai di occuparmi del problema atomico, in quanto il Giappone è stato, per ora, la prima e la sola nazione a subire questo flagello. Allora andai ad interrogare degli uomini di cultura, di religione e poi degli economisti. Ricordo una cosa sola: interrogai, per esempio, un bonzo molto famoso, vecchio, solitario in fondo ad un tempio molto bello. Dissi: «Ma lei che cosa pensa di questo problema della bomba atomica? E che cosa avrebbe fatto Buddha in proposito?» Mi rispose: «Figlio mio, quando gli uomini vanno sulla luna, che cosa può fare Buddha?!» Poi, sulla base di questa prima esperienza, andai in Germania, e interrogai soprattutto i militari come il generale Altemburg, attuale capo dell'esercito tedesco, il generale Baudissen, che ha occupato la carica prima di lui, interrogai Von Weizecken, fratello dell'attuale presidente della Germania, ecc... , e anche alcuni scrittori. Mi furono dette cose abbastanza allarmanti.

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