Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

IlSeicento1orentino Il Seicento fiorentino Firenze, Palazzo Strozzi 20 dicembre 1986 - 4 maggio 1987 L a fanciulla è discinta. La camicina leggera è scivolata a scoprire le spalle rotonde, morbidamente modellate da un chiaroscuro pastoso come una carezza. Il braccio si appoggia estenuato sul rosso cupo e balenante di un cuscino di velluto, l'altra mano alza senza convinzione l'indice in un gesto ammonitore. Forse, invece, è un ragazzo. Il viso, turgido e intatto, la pelle di consistenza serica, ha i lineamenti ambigui di una adolescenza ancora indecisa e il pallore consunto che suggerisce trascorsi d'amore. Forse contro natura, certo peccaminoso. Una ambiguità che valica i confini della tela: dell'autore, Cesare Dandini, la scarna biografia dice solo che era bellissimo, e per questo adoperato com~ modello per le figure femminili dal suo maestro, l'austero e puritano Curradi, devoto pittore di Madonne e che viveva in stretta intimità, in qualità di aiutante di camera, di don Lorenzo dei Medici, nella villa della Petraia. Ambiguo, corrotto, incline ai piaceri della carne anche il committente del quadro, quel cardinale GiovanCarlo dei Medici, che la storiografia dell'epoca non esita a bollare di lussuria e di delitti, che aveva l'abitudine di sgombrarsi il campo dai rivali facendoli uccidere. E incerto il titolo del dipinto: di cui si sa che dovrebbe essere il ritratto della cantante Checca Costa, cortigiana e amante del cardinale ma che, in alcune attribuzioni, è citato come La tentazione, lasciando aperta la sua ambiguità. Misterioso, sorprendente, di una bellezza morbida e sensuale che ammicca all'ammaestramento allegorico, questo quadro è in qualche modo il manifesto della grande mostra inaugurata il 20 dicembre 1986 a Firenze, a Palazzo Strozzi e che si annuncia come la riscoperta, assoluta per il grande pubblico, di un intero periodo artistico finora liquidato dalla storiografia critica con la riduttiva etichetta di «pittura da sacrestia»: il Seicento fiorentino. Voluta strenuamente da Mina Gregori e Piero Bigongiari, tra i pochissimi storici dell'arte italiani che hanno studiato a fondo il periodo (uscita dal cilindro magico delle manifestazioni per Firenze capitale europea della cultura) la mostra sul Seicento fiorentino, che prende in considerazione l'arte dal 1590 al 1670, si colloca nel contesto di una generale revisione del Barocco italiano che, nel corso degli ultimi vent'anni, ha consacrato, con mostre spettacolari, la pittura genovese e quella lombarda, i napoletani e, recentissimo ca- ~ so, gli emiliani. E lo fa senza ri- .s sparmio di mezzi: quasi 600 le g:> opere esposte, divise in sezioni ~ r---. (dipinti, disegni, nature morte, ~ paesaggio, scultura), 80 gli artisti ...... e presentati con l'ambizione della -~ summa scientifica e un catalogo :g edito in due volumi da Cantini, ~ frutto del lavoro di trenta ricercao( tori, coordinati da autorevoli re- ~ sponsabili di sezione (Chiarini, ~ Piacenti, Dillon, Petrioli Tofani, l oltre a Gregori e Bigongiari), che ~ raccoglie schede documentali e preziose ricerche d'archivio perlopiù inedite, destinate a fare nuovissima luce nel buio della attuale bibliografia (il primo e unico repertorio della pittura secentesca fiorentina, di Giuseppe Cantelli, è uscito appena tre anni fa). Recuperate fortunosamente nelle chiese, spesso in deplorevole stato di conservazione (i restauri sono finanziati dalla Banca Toscana), oppure raccolte da collezioni private e musei stranieri (all'estero il Seicento fiorentino gode da secoli di un suo prestigio), le opere in mostra sono, avverte Mina Gregori, «per il 70% tutte da scoprire e almeno 30 totalmente inedite». Un sipario strappato. Attraverso cui dardeggiano carni bianchissime e frementi di voluttuose Maddalene, di Dalile conturbanti e sfiancate dall'eros come in un quadro di Moreau, ninfe velate e frementi, ma anche santi vibranti nell'estasi, solo apparentemente austeri, rigidi ritratti di corte, resurrezioni mosse come una danza, angeli nudi, prediche estatiche del Battista e Madonne permeate di intima religiosità, Isacco e Minerva, David e Santa Lucia, in un'orgia lussureggiante di colori smaltati di eccezionale pastosità, di sfuAntonella Bora/evi mati seducenti, di nebbie mattutine che velano paesaggi della memoria. Quadri opulenti di sete, broccati, gioielli, elmi piumati («come un guardaroba teatrale» avverte il critico Giuliano Briganti) che individuano, secondo Mina Gregori, un barocco diverso tutt'altro che fragoroso e fine a se stesso: «difficile e sottile, tutto rivolto nella ricerca di una bellezza sofisticata nella rarità delle gamme cromatiche, nelle bivalenze sentimentali». M a esiste davvero una scuola fiorentina? Ecco il bandolo della matassa che la mostra è chiamata a sbrogliare. Se lo storico Federico Zeri non ha dubbi («è una pittura durabile, che va oltre le generazioni, ha uno stile coloristico e disegnativo tutto da rivedere, è superiore senz'altro a quello bolognese»), è anche vero, avverte Riccardo Spinelli, giovane studioso dello staff organizzativo, che gli interessi, gli orientamenti dei vari artisti sono molto diversi tra loro. Non esiste una dimensione unica, una precisa scelta di campo. Stretti tra il dettato puritano e didattico· della Controriforma e la vanità di una corte indecisa tra l'entusiasmo festaiolo e godereccio degli anni d'oro del rilancio industriale e commerciale e Il bigottismo della decadenza, amici di Galileo e affascinati dall'idea della verifica sperimentale ma anche attori, poeti e fan del «recitar cantando» (nasceva in quegli anni a Firenze' alla Camerata de' Bardi il melodramma italiano), i pittori del Seicento fiorentino ondeggiano tra rigore e sensualità, tra sacro e profano. Per un Ludovico Cigoli che, a cavallo del secolo, è il campione della pittura chiesastica papalina e vince, nel 1604, il concorso Massimi per un Ecce homo su Caravaggio, c'è, contemporaneo, un Cristofano Allori, attore, mimo, ballerino e poeta che divide le scorribande erotiche con il granduca Cosimo Il, artista conturbante e ambiguo che non si fa scrupolo di dare alla Maddalena, simbolo religioso della redenzione, i fianchi opulenti, il ventre turgido e lo sguardo trasognato, più sexy che mistico, della sua amante. E che, in punto di morte, racconta Claudio Pizzorusso, profondo conoscitore dell'Allori, «si pente delle sue pitture licenziose anche se nella sua produzione non si trovano che quadri da chiesa». I due filoni, della riflessione sulla pittura sacra e dell'erotismo represso sono, secondo i curatori, quelli destinati a riservare, in mostra, le maggiori sorprese. Da una parte, il rigore: pittura di religiosità intima e limpidamente morale che, dalla pulizia formale di Santi di Tito arriva, attraverso l'arcaismo voluto di Lorenzo Lippi, allo splendore smaltato e solare dei santi di Carlo Dolci, l'unico pittore la cui fortuna critica è stata costante. Dall'altra la carne. Le epidermidi sgranate, corrotte, trepidanti di Francesco Furini, fattosi prete a 40 anni, le cui spese per le modelle preoccupavano il Baldinucci, il Vasari dei pittori dell'epoca («forse a altri favori destinate»). La pittura visionaria del folle Cecco Bravo, corpi in carne appena velati su sfondi nebbiosi e qualche tentazione sadica: c'è un Ruggero ferrato nell'armatura che si getta verso una Angelica rosea e nuda. Spiega Bigongiari: «È un eros che emerge dall'inconscio, in maniera quasi freudiana, proprio quando l'artista mostra di sposare i dettami della Controriforma. È il trionfo del sentire oscuro, l'espressione di una crisi segreta che a me sembra modernissima». Un eros che passa senza fratture dalla pittura da stanza, richiestissima dai membri della corte che in quegli anni si occupano di ingrandire e decorare i loro palazzi, ai dipinti da chiesa. Con una sfrontatezza, che, se rispecchia il clima dell'epoca - trionfava a Firenze il quietismo, che predicava la pratica del peccato come vittoria sul maligno -, provoca la reazione dei puristi: presenti in mostra con quadri «morali» e purificatori, Vannini, Tarchiani, Lippi. Grande pittura, erotica, religiosa, morale. Un patrimonio mai visto di disegni («i più belli del secolo» dice Gregori). La statuaria dei marmisti e i bronzetti: «questa mostra è la prima rassegna organica del periodo, cambierà molto le idee» dice Giulio Carlo Argan. Resta, comunque, aperta la questione della oggettiva validità estetica del Seicento fiorentino. «Arte più raffinata che inventiva» precisa Argan «pittura notevole ma senza grandi artisti», insiste Ludovico Ragghianti, «si sente l'isolamento culturale dei fiorenti-. ni». Ma si annuncia battaglia: Gregori, Bigongiari, il critico Maurizio Fagiolo, sostengono invece proprio il carattere aperto e internazionale di questa pittura. Mentre le due parti affilano le armi («questa mostra la voleva il Louvre» dice Gregori), il mercato sussulta. Le quotazioni, responsabile l'oblio critico, non sono ancora altissime. Alle aste, confermano Sotheby's, Finarte, Christie's, in Italia capitano gli invenduti. «Ma - avverte Alessandro Morandotti di Finarte - è evidente che la migliore conoscenza del periodo provocata dalla mostra scatenerà, secondo un meccanismo collaudato, la corsa al rialzo». Antiquari (celebre la raccolta Luzzetti) e collezionisti (per esempio la Cassa di Risparmio di Prato) guardano speranzosi a Londra e a New York. Pochi mesi fa, un Giovanni Martinelli è stato battuto per 300 milioni e due Dandini hanno raggiunto quota 140.

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