P oco più che ventenne, nel 1503, era l'astro nascente della pittura veneziana. Morì a settantasei anni, solo e disperato, nella Sacra Casa di Loreto. Negli ultimi anni, le sue mani, che avevano disegnato ritratti scavati nelle più inconfessate profondità della psicologia umana, impugnarono incertamente i pennelli per decorare candelabri. I suoi occhi, che avevano immaginato i colori più smaglianti e freddi dell'arte rinascimentale, s1 spensero lentamente nella cecità meditando su un'umanità grigiastra e come incenerita. Lorenzo Lotto (di lui parliamo, infatti) è uno dei più grandi enigmi della pittura di tutti i tempi. Bene o male, talora a denti stretti, la sua grandezza viene oggi riconosciuta. Ma ci fu un tempo in cui un intellettuale veneziano del suo tempo, tale Dolce, citò un suo capolavoro, che si può ancora vedere nella lagunare Chiesa del Carmine, come «assai notabile esempio di cattive tinte». Ci fu un tempo in cui i «grandi goliardi» della Serenissima, Pietro Aretino e Tiziano, concertarono ai suoi danni la beffa più elegante e crudele che mente umana potesse architettare. Lotto, caduto in disgrazia, viveva nelle calli dei poveri di una Venezia a suo dire «umida e bonasa», dividendo una camera d'affitto con uno spadaccino di professione. Tiziano era invitato ad Augusta alla Corte di Carlo V (ed è leggenda l'episodio in cui il Sovrano si china per raccogliere il pennello dell'Imperatore della pittura). Quale occasione più ghiotta per infliggere la stilettata definitiva al grande sconfitto (tale lo ritenevano, infatti, i due maramaldi; e d'altronde nessuno fiuta la grandezza meglio dei grandi)? Aretino brandisce carta e penna, e scrive una lettera pressappoco su questo tçmo: «O Lotto, come la bontà buono e come la virtù virtuoso», il piacere che provo io nel salutarti non è inferiore a quello che prova Tiziano ad Augusta nel ricevere gli onori del mondo. Ma tu non te la prendere, perché ti sarà pur sempre riservata la gloria dei cieli, che supera ampiamente «del mondo la laude»! Dove aveva sbagliato il sublime underdog della pittura, dopo gli onori della giovinezza? Difficile dirlo. Più che di errori si tratta di una implacabile, si direbbe preordinata, dinamica di eventi. Contemporaneamente ai suoi primi successi, si affacciano sulla scena due giganti come Giorgione e Tiziano. Il primo riscuote fortuna in circoli elitari, e muore giovane. Ma il secondo è un portento di energia anche manageriale che, nel volgere di' pochi anni, spazza via non solo tutti gli avversari, ma anche ogni inflessione figurativa che non discenda in toto dal suo «stile moderno». Stile caldo, fuso, ...... l"'"l sensuale, che avvia un quadro con c:::s .!:; beige, e articola quella singola no- ~ ta cromatica in tutte le possibili :: variàzioni di bruno, castagna, ~ marron, sottobosco e via dicendo . ...... _ 9 A differenza del povero Lotto l:: (grande per altri versi, e magari i più rivoluzionario), che procede ~ per dissonanze, stendendo un gial- ~ lo limone vicino a un verde sme- ~ raldo, un rosso sanguinolento vici- ~ ,no a un azzurro oltremare. Tutte ~ cose per cui il gusto veneziano, or- ~ mai «tizianizzato» sentiva accapponare la pelle. Tiziano piaceva a Manet. Lotto sarebbe piaciuto, se l'avessero conosciuto, a Munch e Van Gogh. Così, Lorenzo va in provincia. A Bergamo, fra accenti forti e gutturali, lontani come più non si potrebbe dalla sua contorta elezione mentale, per quindici anni vive tuttavia benino. È ben vero che un notabile della Curia, quando lo sente in anticamera, mormora «O l'è zà il Loto con le sue importunità!» È ben vero che un signorotto rifiuta malamente un ritratto, mentre il pittore annota nel suo diario che, oltretutto, «volsemi dar le bote». Ma tutto sommato si lavora. E il resto «è nelle mani del signor Dio» ... - ueistantanee Flavio Caro/i Venezia è lontanissima; Tiziano ormai divinizzato. E tuttavia, quando l'inquietudine («sono molto inquieto de la mente» ... ) e l'aria bassa della provincia opprimono troppo le sue vacillanti energie psichiche, è proprio• lì che il pittoLorenzo Lotto, Sacra Famiglia, 1530 re decide di tornare. Ha quarantasette anni. E peggio di così le cose non potrebbero funzionare. Per vent'anni vive da derelitto, trascinandosi di tugurio in tugurio. Le commissioni pubbliche sono praticamente nulle (e quando ne capita Lorenzo Lotto, San Paolo Eremita, 1546 una, la gratificazione si identificherà con le parole del Dolce, che abbiamo. citato.) Si invecchia. A sessantasette anni, Lotto non ce la fa più. Detta un agghiacciante testamento («nele mano del Signore Iddio raccomando l'anima mia, et il corpo putrido lasso alla terra»), e parte per Ancona, dove conta di avere qualche residuo amico ed estimatore. Incontra il silenzio. Organizza una specie di lotteria con i quadri che ha portato con sé. Conta di ricavare 400 fiorini. Ne ottiene 39. A settant'anni, la vita nega anche la speranza di una risalita. E allora, «per non involvermi più in mia vecchiaia», Lotto dona se stesso e le sue poche cose alla Sacra Casa di Loreto, dove, con mano tremante, graffisce alcune fra le più spettrali visioni di molti secoli di pittura europea. Che faccia aveva quest'uomo forse così scostante, e così caro al cuore di coloro che intuiscono la desolazione della sua grandezza? Un primo tentativo di identificazione come Autoritratto del Triplice ritratto al Kunsthistorisches di Vienna, si è rivelato errato. E le pur intelligenti ipotesi avanzate in seguito non hanno offerto risultati definitivi. Così, proponiamo al lettore un piccolo identikit. Chi scrive ha recentemente identificato due opere inedite dell'artista (le fotografie sono state pubblicate dal «Giornale dell'Arte» dello scorso marzo; la pubblicazione scientifica'è in corso di stampa sulle riviste «Arte documento» e «Prospettiva»). La prima è una Sacra Famiglia dipintàtntorno al 1530, assai vicina al quadro dello stes!;o soggetto esposto ali'Accademia Carrara di Bergamo. In quest'anno, Lotto aveva cinquant'anni, pressappoco la stessa età del San Giuseppe, che mostra Gesù e par che dica: «Eccolo qui, il mio tesoro!» (Mentre l'ora incerta soffia venti vespertini, alitanti da una valle impervia e di poca vegetazione come quelle marchigiane, venti fruscianti fra le foglie di un fico, appena schermati da un costone di roccia folto, buio e selvaggio. E mentre la pittura modula una sinfonia maculata di penombre, dove rintoccano note susina e melanzana, dove squilla un rosso melograno, e dove i bianchi sono tormentati da macchie bluastre come ombre sulla neve, ombre di tiepido azzurro che quasi si fondono con il dolcissimocolor cilestrino della veste di Santa Caterina.) Il secondo dipinto è un San Paolo Eremita, dipinto sicuramente nel 1546, poco prima che Lotto abbandonasse Venezia, all'età, ripetiamo, di sessantasei anni. Non è l'età anche di questo vecchione con - dita ungulate come zampe di rapace, avvolto e come consunto da una luce che modella polpacci ancora robusti, si impasta come miele nelle fibre della tunica, rimbalza, sgranata, sull'enorme rosario portato come ricordo della vita civile, e divampa sulla croce rossa come sangue, che si staglia sul bianco sfatto e lanuginoso di una delle più toccanti barbe della storia dell'arte? Una luce che schiarisce il grigio sporchiccio dei baffi, nobilita occhi e fronte persi in una concentrazione di straordinaria intensità, abbandona la zazzera pepe e sale pur ravviata con un vago ordine bohémien, per svariare su un paesaggio che ha la verità di Courbet, la ferma dolcezza di Poussin, e la solitudine spettrale di Friedrich. Se l'identikit si rivelasse negativo, se i due uomini ritratti fossero cioè diversi, la fisionomia di Lotto rimarrebbe, una volta di più, chiusa nell'ombra. Ma se il responso fosse positivo, questi, non c'è dubbio, sarebbero due autoritratti di Lorenzo Lotto. Due istantanee scattate a sedici anni di distanza, che rivelano le devastazioni del tempo, e narrano un'epopea intima protratta negli anni, simile a quella di cui sarà protagonista, un secolo dopo, il grande Rembrandt. È troppo improbabile che il pittore sia ricorso allo stesso modello, invecchiato, in un così lungo arco di tempo. Queste pupille prima intenerite poi spiritate avrebbero visto la bellezza e l'orrore del mondo, e direbbero, dall'abisso del tempo, che la vita è questa, e la sua tragedia non cambia mai.
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