I o credo che la ragione per la quale si viene introducendo un rapporto tra filosofia e narrazione dipenda dall'esaurimento di tutti i programmi dell'epistemologia fondazionale che si basava su una corrispondenza tra linguaggio e mondo, la quale si è rivelata alla fine una relazione fittizia, anzi magica. E con l'esaurimento di questi programmi, e della falsa credenza che ne era alla base, è giunta anche a dissoluzione l'idea che ciò che scrive un filosofo o uno scrittore sia un'imago mundi. Quella credenza presupponeva che un uomo fosse per definizione coinvolto dalla nascita in una relazione di rispecchiamento del mondo. E invece: non è mai nato un uomo, se così si può dire, che sia venuto in un mondo preparato per lui e per le sue rappresentazioni. Gli uomim sono piuttosto gettati m un mondo che non è per loro, dunque nemmeno in un mondo tale che essi possano dire che vivono nel loro mondo. Gli uomini devono vivere in un mondo, ma il mondo in cui vivono non è il loro mondo. Il rapporto tra filosofia e narrazione, e il passaggio che si apre dall'una all'altra,, consiste dunque nella transizione dallo stato della rappresentazione di ciò che si ha, o si crede di avere, a quello della rappresentazione di ciò che si è. E quello che si è, è precisamente la condizione di essere gettati dall'atto di procreazione dei propri genitori in un mondo che non è preparato per noi, ma che ci è stato dato in precedenza, un mondo cioè nel quale non si tratta semplicemente di entrare e di realizzare la presa su di esso, ma un mondo con il quale gli uomini devono spuntarla. L'uomo non viene al mondo per rispecchiarlo, e non può nemmeno illudersi di agire sulla base della fiducia della corrispondenza tra sé e il mondo. L'uomo piuttosto si trova nel mondo per abitarlo, e il suo problema è precisamente quello di trovare la maniera di abitarlo. Anziché una rappresentazione adeguata o accurata (ma come risulterebbe poi adeguata o accurata?), l'uomo deve costruirsi un'abitazione, deve concepirla e realizzarla. Come osserva Heidegger in Bauen, Wohnen, Denken («Costruire, abitare, pensare», in Vortriige und Aufsiitze, Pfullingen, 1954, p. 146), il termine Buan nella lingua tedesca antica racchiudeva in un'unità i significati di bauen (costruire), wohnen ( abitare) e sein (essere). L'espressione «ich baue» (io costruisco) significava contemporaneamente «ich bin» (io sono). L'antico tedesco indicava dunque con la medesima parola il soffermarsi, il dimorare, l'abitare ma anche l'essere, e ancora designava il costruire. Così Heidegger: «L'antica parola costruire (bauen), questo dice, che l'uomo è .s in quanto abita» (Das alte Wort gf> bauen, das sagt, der Mensch sei ;:: insofern er wohne, ivi, p. 147). ~ Dunque il costruire e l'abitare, ...., anzi la costruzione dell'abitazione -9 l.: non è un'attività tra tante altre, js perché coincide con l'essere stesso ~ dell'uomo che è perché costruisce ~ · la propria abitazione. L'essere s::! dell'uomo è definito come edifica- ~ zione del proprio abitare un mon- l do nel quale è gettato, senza che ~ questo mondo sia preparato per lui. Per questo, ogni atto che un uomo compie per realizzare la sua abitazione nel mondo è, ogni giorno, la ripetizione, la proiezione retrospettiva del mito della creazione del mondo. La mente dell'uomo non è destinata, a differenza di quanto una lunga tradizione ci ha fatto credere, alla rappresentazione rispecchiante, ma al pensiero che edifica, che fabbrica, che costruisce l'abitazione nel mondo che diventa ora il suo mondo da abitare. Senza l'edificazione della sua abitazione, l'uomo sarebbe gettato in uno stato di completa insicurezza e disperazione. Per proteggersi, lui costruisce in tanti modi, che sono i modi nei quali lui trascorre l'esistenza, e tutti quanti noi trascorriamo del resto l'esistenza per proteggerci dall'insidia e dall'insicurezza del mondo esterno che ci circonda. Il mondo non è una madre; la madre è stata protettiva, è stata una buona madre come si suol dire, ma ha protetto suo figlio per poi consegnarlo ad un mondo che è tutto fuorché protezione. Ogni uomo deve costruirsi un'abitazione perché ogni uomo nasce dalla congiura paradossale di una procreazione che lo protegge per gettarlo in un mondo di insicurezza. Perciò ogni uomo deve costruire la sua abitazione per rendere abitabile il mondo al quale è consegnato. La sua abitazione è perciò contemporaneamente un Luogo di fuga che è anche il carcere della propria costrizione. L'abitazione costituisce questo doppio punto di vista dello sguardo dell'uomo che costruisce un'abitazione per fuggire da un mondo che gli crea ansia, ma nella quale egli si cinge d'assedio. Resta che attraverso la pratica del costruire e abitare l'uomo mette proprio in questione quella distinzione tra spazio interno e spazio esterno che è stata la distinzione secondo la quale la cultura tradizionale ha pensato l'uomo e ne ha fatto un soggetto autonomo e indipendente di atti intenzionali. Ora è da dire che quel centro interiore, che la cultura filosofica tradizionale ha fissato nell'uomo come una sua proprietà naturale e .spontanea, è invece tutt'al più un punto geometrico realizzato nella costruzione dello spazio, nel quale un uomo ordina la propria abitazione. Ma deve essere ben chiaro che l'uomo edifica un'abitazione per reggere la pressione intollerabile della vita e dell'ambiente esterno, ma non costruisce il mondo; l'uomo inventa ogni volta un'utopia sostitutiva della creazione del mondo. Questo ora possiamo dire, perché siamo consapevoli che quello che facciamo sostituisce un creatore che non c'è più. Così l'uomo è un essere ché, per poter amarsi e quindi per poter amare gli altri, crea e ordina il proprio spazio utopico. l o spazio, ordinato dall'uomo attraverso le sue pratiche di edificazione, è dunque uno spazio creato dal suo desiderio di amore. L'immortalità, il mondo trascendente, l'essenza atemporale e non spaziale sono stati sicuramente idealizzazioni (e reificazioni di queste stesse idealizzazioni) ad opera della tradizione metafisica che le: ha elaborate in forti e pesanti strutture categoriali per simulare il rigore del formalismo matematico. Ma, certo, quelle idealizzazioni e categorizzazioni erano anch'esse modi di edificare abitazioni. Il nostro problema non è quello di stabilire se esse fossero in sé buone o cattive abitazioni, comode o scomode; il problema è invece, così io penso, che noi non possiamo comunque più abitarle. La scrittura narrativa, per quanto ne va del suo rapporto con la filosofia, è ora il racconto della nostra impossibilità a sostare e a dimorare nelle abitazioni erette dai nostri laboriosi antenati filosofici. Il filosofo-narratore è la nuova figura dell'uomo che ha come oggetto della propria scrittura l'impossibilità di soffermarsi e vivere in un'abitazione eretta dai filosofi del passato con l'ambizione o l'arroganza di farla apparire come il centro e il fondamento del mondo. La filosofia si dirige verso la narrazione precisamente per raccontare il senso dell'edificare le abitazioni, nelle quali gli uomini non prendono possesso della terra sotto i loro piedi e del cielo sopra di loro, ma in cui si barricano dentro per sfuggire alla disperazione, per sottrarsi all'insicurezza del mondo esterno, per tracciare un loro spazio paradossale che è destinato ad essere contemporaneamente il loro luogo di fuga e insieme il loro carcere; nel quale riescono certo a vivere ma all'interno del quale si rimettono anche alla propria morte. Il lavoro filosofico diventa il punto di vista concettuale che assume la narrazione come strumento indispensabile per mettere in discussione ogni volta il regime di univocità nel quale i sistemi teorici chiusi e logicizzanti vogliono costringere le manifestazioni della vita umana. L'univocità è anzi lo stato attraverso il quale i modelli filosofici logicizzanti intristiscono la forma di vita umana. Con questo la filosofia non si trasforma in letteratura, piuttosto diviene un pensiero che si filtra attraverso una narrazione per diventare il discorso possibile per l'uomo in quanto soggetto di una vita oscillante tra precisione logica e passione metaforica. Così, io credo, una vita oscillante tra la costruzione di un'abitazione, per sfuggire all'angoscia e alla miseria dell'ambiente che lo circonda, e il destino per il quale questa abitazione è anche la preparazione della propria morte. Così, io credo, una vita oscillante tra la costruzione di un'abitazione come spazio di fuga dall'insicurezza dal mondo esterno e il riconoscimento che questo spazio è anche il carcere nel quale si è destinati a rinchiudersi. La filosofia incontra la narrazione perché .·ha scoperto che, diversamente da quanto ci si poteva aspettare, per l'uomo non c'è mai una sola storia da raccontare, ma ce ne sono sempre due. Che insomma noi facciamo sempre qualcosa, e poi spunta dietro ogni volta un altro significato di quello che abbiamo fatto; e questa è una seconda storia; e la storia che noi dobbiamo raccontare è il rapporto tra la prima e la seconda storia (che narra di precisione e di metafora). La filosofia incontra la narrazione come l'impronta del destino equivoco nel quale siamo tutti indistintamente immersi. La filosofia si declina, così io penso, in narrazione per quanto essa si fa carico di rendere conto della circostanza che dietro o dentro agli arrangiamenti categoriali della filosofia c'è lo sforzo di ogni individuo di rendersi abitabile un mondo che non gli è stato precedentemente preparato per entrarvi e abitarlo. E per rendere conto della circostanza che l'uomo è un individuo oscillante tra l'ansia di costruirsi il proprio spazio e l'incapacità di abitarvi, trasferendosi continuamente da una stanza all'altra; che quest'uomo ha una vita oramai che è come un testo senza virgole e senza punti. La filosofia verso la narrazione è precisamente la scrittura di questa esistenza senza virgole e punti.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==