Perripen~,1r·eilmale Proclo Sull'esistenza del male in La provvidenza e la libertà dell'uomo a cura di L. Montoneri Bari, Laterza, 1986 pp. 207, lire 14.000 F.W.J. Schelling Ricerche sull'essenza della libertà umana in Scritti sulla filosofia, la religione e la libertà a cura di L. Pareyson Milano, Mursia, 1974 pp. 226, lire 20.000 M. Cacciari L'angelo necessario Milano, Adelphi, 1986 pp. 144, lire 16.000 E.M. Cioran Il demiurgo cattivo a cura di D. Grange Fiori Milano, Adelphi, 1986 pp. 161, lire 10.000 I n un paragrafo di Experimentum Mundi (1975) significativamente dedicato alla figura dell' «Avversante», Ernst Bloch scriveva che «l'immane categoria settoriale del male è una di quelle meno pensate a fondo», aggiungendo subito dopo che l'Avversante, ovvero tutto il male presente nel mondo, «fa già mancare la parola e rende, così, estremamente difficile un attacco concettualmente preciso, malgrado la dialettica». Così, il filosofo di Spirito dell'utopia mostrava di centrare il cuore stesso della questione. Ciò che emerge con evidenza dalle sue parole è infatti il cruciale problema (cui alludeva anche S. Givone nel n. 85 di questa rivista) del male come «grande rimosso della filosofia più recente», insieme al quale viene poi richiamata la facies immanis che contraddistingue nel loro proprio la problematica e le categorie del male. Da sempre, la Ragione e la filosofia, rivolgendo la loro interrogazione al male, hanno manifestato la consapevolezza che quel dominio costituiva per esse una regione «ad alto rischio». Di fronte all'opacità del male e del dolore che accompagna l'esperienza di esso, il rischio è spesso apparso quello dello scacco, del naufragio m un abisso d'impensabilità nella cui notte, appunto, non può che «mancare la parola». Il male sembra così alludere originariamente ad uno skàndalon per il pensiero, ad una dimensione paralizzante nella quale ogni appaesamento e pacificazione sembrano essere esclusi. E insieme, nel pensiero, esso evoca la Stimmung intollerabile di un'essenziale inanitas. Già per Platone, il problema del male era come «una spina piantata nell'anima dalla nascita» (Epistola I"") II, 313 a-b) e sarà Schelling a ricof"l noscere che di fronte ad esso si <:::s i:: apre la possibilità del «dilacerarsi» t e del «disperare» della Ragione. r-.... Proprio per ciò il male appare co- ~ me uno dei «luoghi» teoretici dove ...... _9 più spesso il pensiero è stato spinl:: to a negare se stesso e a rovesciarsi i nell'irrazionale, sia questo· quello ~ della «fede» o del silenzio stupe- ~ fatto della vertigine. Il male trai::: passa così nella sfera del «mistet! ro». Esso giunge a coincidere con ~ il punto in cui il pensiero viene ir- ~ resistibilmente attratto dal magnete di ciò che è al di qua o al di là del pensiero, o comunque già oltre la legge immanente e l'istanza «fondamentale» della Ragione. In questo senso, indicando nella direzione di una radicale «alterità» dal pensiero, il male sembrerebbe imporsi come il focus proprius dell'aconcettuale. Nella sterminata tradizione della riflessione metafisica e teologica «classica», il punto fondamentale per una ricerca che intenda porsi m una prospettiva archeologico-genealogica è quello che concerne la sfera della definizione «ontologica» del male e, insieme, il conseguente problema della «dialetticità» di essa. Generalizzando fortemente, si potrebbe affermare che la ragione filosofica della grecità più matura e tarda ha orientato la sua vertigine in due equazioni che, formulate laconicamente, suonano: Essere è Bene~ il male è non-essere. Ciò che sosteneva anche L. Kolakowski quando, nella voce «Diavolo» compilata per l'Enciclopedia Einaudi (Voi. IV, pp. 703-725), scriveva che «nulla e male sono coestensivi, come lo sono essere e bene» (ivi, p. 710). La storia dell'ontologia del male elaborata dalla tradizione greco-cristiana può essere in questo senso riguardata come una sola grande «variazione», intessuta di distinzioni e specificazioni a volte labirintiche, di questo tema di fondo. (Una ricerca stimolante potrebbe, a questo punto, muovere dalla domanda se, stante il presupposto dell'identità tra il dominio dell'essere e quello del bene, il male non venga per ciò stessò ricompreso nella sfera. della mera negatività «logica» e, in questo modo, già fin dall'origine predisposto all'intervento del dispositivo «dialettico» - cui alludeva Bloch - e alla «magia» della Aufhebung che di esso costituisce il culmine. Come dire che, posto il problema m questi termini, fin dalle originarie decisioni teoretiche del pensiero greco e dal ripensamento cristiano di esse, tutto è già «destinato» alla grande sintesi hegeliana.) I n tale ambito problematico, il trattatello procliano Sufi' esistenza del male ( di cui si ignora la data precisa di composizione ma che, secondo le ipotesi della filologia, dovrebbe appartenere alle opere della vecchiaia del filosofo e quindi alla seconda metà del III secolo d.C.) può essere non a torto assunto come una sorta di summa nella quale viene condensata e riassunta l'intera riflessione sul male elaborata dalla filosofia •classica e, in particolare, dal grande filone del «platonismo». La base imprescindibile dell'indagine risiede infatti per Proclo pei pensieri del «divino» Platone e, inoltre, in alcuni paragrafi centrali dell'opera, si trova una serratissima discussione critico-dialettica delle tesi sostenute da Plotino nell'ottavo trattato della prima Enneade, uno dei «testi» fondativi dell'intera problematica successiva. Il maestro neoplatonico si sofferma così sulla ricca costellazione delle questioni inerenti al problema del male e nel trattato è possibile incontrare alcune conclusioni destinate successivamente a costituire (anche dal punto di vista di una certa «metaforica» e di un certo precipitato d'immagini) dei veri e propri tòpoi della tradizione. Ciò che in primo luogo attrae l'attenzione è la profonda vocazione metafisica, ontologica, che orienta il domandare procliano. L'interrogazione pare quasi scandirsi sul paradigma categoriale dettato da Aristotele e il télos della domanda è rivolto a ricomprendere il male nella griglia logica intessuta dalle categorie di Sostanza, Causalità efficiente e finale. Che cos'è il male? in che modo è? da dove e perché il male?- su queste domande s'impegna la teoresi di Proclo confidando nella piena permeabilità dell'oggetto da parte delle strutture di pensiero che di esso ricercano il lògos, la ragione e il fondamento essenziali. Nell'esporre preliminarmente l'ontologia del male, Proclo dà vita ad una dialettica vertiginosa giocata sul filo continuo del paradosso. Dapprima si argomenta intorno all'irrealtà del male fondata sulla sua impossibilità di partecipare del Principio primo dell'essere, identificato con l'Uno-Bene. La negazione della sostanzialità del male trova il suo presupposto nell'esigenza insopprimibile di salvaguardare l'unità del fondamento, del1' Unum in quanto base, legame e giuntura dell'Intero. Rispetto a questa, il male assume il volto della pletora che minaccia l'integrità dell'essere. Animato da un radicale furor unitatis, Proclo si spinge fino ad affermare che il male è non-essere in misura più profonda dello stesso non-essere assoluto (I, par. 1, 2, 3). Ma subito tutto si rovescia. Muovendo dalla connotazione del male come potenza della corruzione, principio della rovina del non-essere (la cui eco risuona nelle parole del Mefistofele goethiano quando esclama: «Così tutto quello che dite peccato, distruzione, male insomma, è il mio elemento vero», Faust, vv. 1340-44), il filosofo mette capo alla tesi - da lui stesso avvertita come «paradossale» - per cui il male esiste, esiste in forza della stessa perfezione del Kòsmos che non sarebbe più tale in assenza della «corruzione» fondamento di possibilità della stessa «generazione», e per il fatto di esistere è esso stesso un bene. Il male appare come un ente reale che trae dal bene il principio del suo passaggio all'esistenza (I, par. 5). Infine Proclo giunge ad esporre la propria dottrina originale il cui centro riposa nella tesi della non-esistenza del male assoluto, trascendente. Il male acquista esistenzialità solo «relativamente», immanentemente, nella sua mescolanza al bene e all'essere. «Non esiste il male allo stato puro e assolutamente disordinato.» In tale sviluppo del ragionamento, l'oggetto dell'indagine viene compiutamente riassorbito dall'insopprimibile esigenza «logica» dell'aporetica del nulla, già teorizzata da Platone nelle pagine «dialettiche» del Sofista (237-38). Il male è in definitiva una negatività, ma non un nulla assoluto (nihil absolutum), perché se fosse tale esso sprofonderebbe nell'abisso dell'indicibilità sottraendosi unmediabilmente ad ogni reintegrazione nel processo di costruzionemanifestazione del «senso». Appare qui, ci sembra, il «destino» dialettico del male. In quanto esso può esistere solo in forza di una «relazione» al bene - ineliminabile condizione d'essere - esso assume la veste di quel negativum che· è tale solo in quanto negativum di un positivum, ontologicamente sostanziale. Il male assoluto, in quanto assoluta negatività, resta senza-discorso, à-logos. Come «nulla relativo» (negazione determinata?), esso può invece rientrare in circolazione osmotica al processo e al divenire del «senso» (I, par. 8, 9). A partire da questo risultato, attraverso una sorta di «topica» nella quale si affronta la questione della presenza del male nelle diverse sfere della gradazione ontologica del reale (divina, angelica, demonica, eroica, dell'anima, delle anime-immagini, della corporeità fino alla «caduta delle ali» e alla «tenebra» dell' «abisso dell'univer-
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