Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

comico che in tedesco viene definito Blodeln (e che in italiano corrisponderebbe allo «spirito di rapa») e che si può anche considerare «il kitsch del comico» (vedi in proposito il saggio di Friedmar Apel, Die Phantasie im Leerlauf. Zur Theorie des Blodelns, «Sprache in technischen Zeitalter» n. 64, 1977). Ebbene, questi brani, a una prima lettura, mi erano effettivamente sembrati abbastanza comici. Mentre, già dopo averli riletti, li avevo trovati del tutto insulsi e melensi. Lo affermo a questo punto perché anche questo fatto può risultare utile per una giustificazione dei meccanismi posti alla base del comico e tanto più del Witz. Si tratta, appunto, del fenomeno della obsolescenza che toglie ad ogni messaggio parte della sua efficacia informativa; e che, nel caso del comico, togliendogli l'inaspettatezza e lo stupore, lo priva d'una delle sue componenti principali. Avevo già avuto occasione di fare queste osservazioni in un capitolo del mio libro Artificio e natura (1968) affacciando l'ipotesi, o il dubbio, che questo venir meno del comico a seguito della sua ripetizione, potesse costituire una prova della sua scarsa «artisticità». Ritengo, oggi, che questa affermazione non sia del tutto accettabile. _È, bensì, vero che anche grandi opere d'arte sono soggette all'usura e alla perdita d'efficacia in seguito a una loro eccessiva «rivisitazione»; ma credo che, nel caso dell'opera d'arte in generale- come di quella comica, ironica, grottesca in particolare - tutto dipenda dal grado del suo valore: un brano letterario come quello sopra citato non reggerà alla ripetizione, mentre reggerà il Bourgeois Gentilhomme o il Georges Dandin di Molière. Per cui potremo concludere con un'affermazione pericolosa ma credo opportuna: il comico (nonché quella sua sottospecie che va sotto il nome di Witz) può essere parte costitutiva d'un'opera d'arte; si daranno e si danno indubbiamente grandi capolavori basati sul geloion, come se ne danno di basati sul tragico, sul drammatico; il che peraltro non significa che tutto il comico sia artistico: buona parte dei Witz del genere più plateale, scurrile, scatologico, possono provocare il riso - sono dunque uno strumento sufficiente perché sia messo in moto questo particolare meccanismo così squisitamente «umano» e ignoto (a quanto pare) al regno animale - ma sono ben lontani da quello che è il fenomeno artistico, anche quando siano perfettamente analizzabili mediante lo strumentario retorico-semiotico a nostra disposizione. Una riprova di quanto affermavo sin dall'inizio di questa nota: ossia che la semiotica - come del resto la psicoanalisi - sono ottimi metodi di analisi e di esegesi, ma non possiedono capacità assiologiche. Una prima versione di questo scritto è stata letta dall'Autore al convegno Il Comico e il suo Witz, tenutosi a Trieste il 3-4 ottobre 1986. Sull'insegnamento di Lacan Eugénie Lemoine-Luccioni A ntonio di Ciaccia ha curato per Astrolabio una raccolta di saggi, quanto più opportuna ora che in Italia le circostanze esigono che non si faccia più confusione tra Jacques Lacan e personaggi che hanno gravitato nella sua orbita, in quanto allievi, analizzanti, studiosi o seguaci a vario titolo. Chissàperché si cercasempre un padre responsabile per ogni destino? Ciascuno ha la responsabilità di se stesso: o dovrebbe averla. Questo è vero soprattutto nel cam- . po analitico lacaniano, da quando Jacques Lacan scommetteva sulla libertà del soggetto «ad avvenire» anche se l'analizzante era proprio infermo. E l'uomo non è forse infermo per definizione? L'infermità non impedisce la scommessa della libertà, l'unico modo di fare, possibilmente, «avvenire» il soggetto alla sua propria determinazione. L'analista peraltro non può nemmeno impedire che chiunque scelga di esseresconfitto o di perdersi. Fin qui ho parlato a nome mio e ognuno avrà capito che ho colto l'occasione per accennare ad Armando Verdiglione. Ora, senza soluzione di continuità, posso proseguire e tornare ai saggi qui raccolti perché trattano dello stesso argomento. Se da un lato essinon possono essere un commento ai fatti accaduti (gli autori scrivono evidentemente prima del «caso» Verdiglione), offrono tuttavia risposte a questo tremendo «pasticcio». In effetti, J.A. Miller, M. Silvestre e C. Soler (almeno così mi è sembrato) intendono dare soprattutto pochi ma precisi punti di riferimento a chi, pur autodefinendosi «lacaniano», obbedisce ad altri sistemi di pensiero, anche vicini. La ragione di questa incompatibilità è molto semplice: gli altri sistemi di pensiero sono sistemi. Il pensiero di Jacques Lacan non fa sistema. Lascia l'altro libero. Costituisce una pratica teorica, che non si riduce ad una tecnica trasmissibile. Il titolo di Colette Soler pone, in quattro parole, la scelta fra «standard» trasmissibile e generalizzabile, e «non standard». Se c'è uno standard per definire l'atto analitico, la didattica, l'essere analista o analizzante, ci sarà necessariamente anche un corpus di regcle e una teoria solida per giustificare tali definizioni e un ideale di conformità per confortarle. Ora Colette Soler prende posizione sui tre punti seguenti: a) criteri standard o no; b) durata delle sedute; c) formazione e abilitazione degli analisti. Non si può dire che sfugga alla discussione. L'apre, al contrario, confrontando la posizione che si vuole lacaniana con le posizioni ufficiali dell'JPA (International Psychoanalytic Association) e basandosi sempre sui dati storici del movimento analitico in Francia e altrove, dati che tutti e tre gli autori, del resto, tengono come punti di riferimento. Le bibliografie annesse, così come il testo, testimoniano di questa attenta lettura degli eventi passati, coi quali ha dovuto misurarsi Jacques Lacan, e degli autori che hanno commentato gli eventi stessi. Il «non standard» non significa rilassatezza. Al contrario, meno ci sono regole e più c'è bisogno di usare rigore. Per limitarci alla durata delle sedute (argomento certo non scelto a caso!), vediamo come è affrontato da Colette Soler. Il suo metodo, efficace e sbrigativo come sempre, comincia col sottotitolo: La pulsazione. Ci si chiede subito: pulsazione o pulsione? Di fatto, lapulsione non è molto lontana nel suo testo; la troviamo allafine dello stesso paragrafo. Ora, pulsazione è da riferire a pulsione. Indica che il tempo della seduta (e dell'analisi) non è da regolare sull'orologio, ma nemmeno sul tempo storico-lineare di una supposta continuità. È da riferire a una pulsazione di apertura e di chiusura dell'inconscio. Questa pulsazione (o battito) è funzione dell'oggetto, definito da Jacques Lacan «piccolo (a)», che è l'elemento che regge l'organizzazione pulsionale della libido: l'oggetto della pulsione. Se l'analista si mantiene in questa posizione di «(a)», diventa in prima persona la causa della pulsazione. Così si definisce ànche il transfert. Se non riesce a mantenere quella posizione, provoca la chiusura perché non può fare altro che servirsi del/'analizzante come del suo «piccolo(a)». Non si deve concludere che le sedute debbono essere brevi. Jacques Lacan non l'ha mai detto. Il problema non è quello della durata: è quello della scansione. Ho iniziato il mio resoconto con questo ultimo saggio per una ragione precisa: esso mi dà l'occasione di cogliere il «piccolo (a)», al quale J.A. Miller, con il suo saggio, dà la propria inquadratura. I I titolo modesto, Schede di lettura lacaniana, non impedisce che il saggio spieghi, in modo illuminante, l'importanza dell'invenzione lacaniana del «piccolo (a)». Di fatto, se il «lacanismo» non costituisce un sistema chiuso, non può nemmeno venir chiamato strutturalismo, nel senso che gli strutturalisti hanno dato a questo termine. La loro struttura è ritenuta un sistema completo. Al contra~ rio, quella di Lacan rimane aperta. La sigla ScA) designa, attraverso la barra, la mancanza in funzione della quale una struttura non è mai chiusa. Sè il posto della mancanza rimane aperto, viene occupato da questa i;stanza:il «piccolo (a)», il quale - come abbiamo visto - è anche l'oggetto della pulsione. Fa da quarto nello schema della struttura dialettica intersoggettiva, per ese,:npio quella riprodotta in questa raccolta a p. 79; fa ancora da quarto nello schema dei quattro discorsi e, in modo generale, in ogni struttura «a quattro piedi», prediletta da Lacan. Ad esempio, ognuno dei «quattro discorsi» di Lacan gioca sulle quattro lettere,,$,SI, S2, (a) che rappresentano rispettivamente il soggetto diviso, il significante primario, il significante binario e il «piccolo (a)». Quando il «piccolo (a)» viene al posto del!'agente nel discorso, detto discorso del!'analista, l'analistafa sì che l'apertura si mantenga. Al contrario, «la metafora del Nome del Padre» tende a chiudere il buco se arrestail desiderio su un'immagine ideale del padre. Il «piccolo (a)» impedisce questa perversione. Però vedremo con le «considerazioni» di Miche/ Silvestre «sul padre», che non bisogna confondere metafora del Nome del Padre (P) e immagine ideale del Padre(/). Prima di tornare sull'argomento del padre, vorrei insistere sull'uso del termine «inquadratura» che peraltro non è mio. J.A. Miller mostra molto chiaramente (p. 92), con una semplice figura di quadro, come l'oggetto «piccolo (a)» sia estratto dal campo della realtà in modo da fornire un quadro alla stessa. Evidentemente il fantasma non è lontano. Non farò qui un riassunto esauriente delle schede di I.A. Miller, come non l'ho fatto con il saggio di Colette Soler e non lo farò col saggio di Miche/ Silvestre, il nostro compagno morto l'anno scorso. Non hanno voluto essere esaurienti, nemmeno loro. Non volendo dire tutto, ho scelto dunque solo alcuni punti. Ciò non toglie che i loro contributi siano così coerenti, da toccarsi nella loro diversità, anche se risultano molto impoveriti dal mio riassunto. Miche/ Silvestre e JacquesAlain Mille, trovano così dei punti di convergenza sul tema del padre. Le Considerazioni sul padre di Miche/ Silvestre, delle quali ho scelto di parlare, non si possono leggere senza pensare alla sua vita e alla sua morte di giovane padre. Qui' darò soltanto la definizione perfetta della metafora del Nome del Padre come ci viene offerta dal- /' autore: «Non consiste in una identificazione con l'ideale», scrive Miche/ Silvestre. «L'Ideale è il nome del padre del nevrotico. Una credenza che l'analizzante invoca come una protezione». Ma /'anali- • si ha «come effetto di fare vacillare questa credenza nel padre». Certo l'analizzante non può, nel corso dell'analisi, negare la castrazione; al contrario, deve riconoscerla se non èpsicotico (e anche se è psicotico, al limite... ). Il Nome del Padre non è stato forcluso in quanto metafora della mancanza di soddisfazione. Si sa che questa metafora, quando avviene e non si chiude, fa da letto, se così posso dire, «al piccolo (a)». Questo scivolare dentro, epoi fuori e viceversa, secondo il gioco pulsionale, segna il battito dell'inconscio. Ma che dicono su questi punti precisi i testi di Lacan che aprono la raccolta? Sono inediti in Italia e non tanto diffusi in Francia. Il primo, Il discorso di Roma, è un testo che risale al 1953 e poi pubblicato in «La Psychanalyse» nel 1956. Il secondo, dal titolo: Intervento al primo congresso mondiale di psichiatria, è ancora precedente ed è del /950. In seguito fu pubblicato su «Ornicar» come gli altri due saggi, Il mito individuale del nevrotico e Rendiconti d'insegnamento. Il lettore troverà prima dell'indice, una bibliografia completa al riguardo. Il fatto che siano inediti in Italia, basta già a giustifitare la scelta. Ma questa sceltas'imponeva da sola per la congruenza del contenuto. I testi di Lacan dicono prima di tutto che la psicoanalisi non è psicologia, anche se ciò può sembrare ovvio. S ono stata molto colpita nel ritrovare un Lacan attento a rispondere a ogni critica, ad ogni obiezione e ad ogni interlocutore con una straordinaria pazienza, delineando così pezzo per pezzo il campo analitico proprio: quello di Freud. Ora tutte le opposizioni si possono ridurre alla confusione che si fa fra la psicologia - elaborata quanto si vuole - e la psicoanalisi. La psicologia prende l'uomo come oggetto di studio, nella sua naturalità di essere parlante e lo fa come se il parlare fosse già un fatto di naturalità. Invece Lacan insiste nel dire che il freudismo si fonda sulla perversione umana che nega la naturalità: non c'è una soddisfazione naturale completa dei bisogni umani. Su questo punto, ci troviamo di fronte ad una impossibilità: c'è una dialettica del desiderio distorto dalla parola, che pone anzitutto il problema dell'introduzione della parola nel campo del desiderio. Così la parola avviene, nel biologico, senza che mai si giunga ad una risoluzione completa del reale, nel modo hegeliano. • Già Freud - ce lo ricorda Lacan - ha definito l'amore, in riferimento al regalo escremenziale che ne dice la verità. Di questa perversione siamo tutti partecipi. Essa nasce dalla domanda che è una parola «altra». La domanda d'amore non è niente altro. Non c'è bisogno di insistere di più sull'importanza della ripresa attuale di tali dichiarazioni, salvo per affermare che non si può entrare in questa disciplina inventata da Freud, se non dopo aver escluso quelle discipline che trascurano il problema del linguaggio e dunque del soggetto. Freud non lo spiega, certo! Sarebbe ancora un modo di usare il linguaggio e di immergerlo di nuovo nella naturalità senza spiegare come e perché. Non è che la psicoanalisi spieghi. Piuttosto fa. Essa consiste in un'esperienza di parola. Non posso dilungarmi sull'argomento del linguaggio e dellaparola che occupa tutto l'insegnamento di Lacan. Lo stesso numero della « Psychanalyse» in cui era inserito questo intervento pubblicava anche La parole et le langage en psychanalyse. Preferisco però insistere sul mito individuale del nevrotico, perché è in sintonia con il commento di J.A. Miller sul numero quattro, in quanto caratteristica della struttura. Questo numero è già la cifra della «costellazione originaria» dell'Uomo dei topi. Di fatto non si trova mai una famiglia che consista in una coppia (perfetta quanto si vuole) più un figlio (o dei figli che costituiscono un tutto unico), così che la cifra familiare sarebbe il famoso tre, numero sacro in altri campi. C'è sempre, in questa costellazione, un quarto personaggio che squilibra l'insieme. Certo, ci troviamo in pieno campo mitico. Mal' Edipo è un mito, non per questo meno potente. I.A. Miller ha commentato a lungo, come abbiamo visto, l'introduzione d'un quarto elemento nella struttura. Questi testi, essenziali, così legati da una forte coerenza interna (non per niente, siamo in presenza di una scuola), una coerenza mai imposta, né ricercata, e tanto meno gratuita, costituiscono un breviario per chiunque voglia seguire Jacques Lacan. Un breviario indispensabile, specialmente in Italia, dove il «lacanismo» si è diffuso in modo anarchico per ragioni che non sono del tutto, né sempre, negative. Comunque ritengo questa raccolta indispensabile ora per dare proprio qualche punto di riferimento a chi intende onestamente formarsi un'opinione a proposito dell'attuale processo. Ho già detto in altra occasione a questo proposito che nel campo analitico chiunque può sempre trasformarsi nella propria caricatura. In effetti basta che, dopo essersi autorizzati a fare l'analista, si creda di esserlo effettivamente perché si ritorni alle suffisances, cioè alla paranoia. Ma, lo ripeto, tutti corrono il pericolo della paranoia. Non si pretende certo che questa raccolta sia sufficiente. Ci saranno altre pubblicazioni, sotto una forma o un'altra, che potranno offrire agli italiani la possibilità di proseguire il lavoro lacaniano. J. Lacan, J.A. Miller M. Silvestre, C. Soler Il mitoindividualedel nevrotico Roma, Astrolabio, 1986 pp. 176, lire 20.000

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