Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

Vancouver (e di molte performances-percorsi, per non dire di tutte le performances riuscite) l'interprete (cioè il creatore) è il pubblico. Al pubblico non si richiede, come nei buoni vecchi happenings, una partecipazione «attiva»; non c'è nessun ritornello da cantare in coro. Gli si chiede semplicemente di assistere, di esser là. Questo è il senso della presenza: l'assunzione de~'assistere. R. Payant, al termine del suo intervento, rimanda ali'«origine de~'opera d'arte» in Sentieri interrotti di Heidegger: questo «choc del presente», che dà il titolo all'intervento, non è altro che lo «choc», lo Stoss che prova chi si accosta ali'opera d'arte, uno choc rude che può anche angosciare come l'incontro col nulla nell'opera capitale di Heidegger, Essere e tempo. Ma se, durante una performance, la presenza del presente provoca un tale choc, non bisogna pensare che sia un urto istantaneo: bisogna accoglierlo nella sua durata, nel suo tempo «reale». Nessuno ha descritto meglio di Gadamer, discepolo di Heidegger, in Verità e metodo, la «realtà» della «durata» del tempo di presenza dell'opera d'arte. La performancecome festa Partecipando a ciò che J.-F. Lyotard chiama la «pragmatica della narratività», la performance rinvia - lo si è visto a proposito delle performances Zaj - ai rintocchi di un tempo «evanescente»e «immemoriale»: quello di una tradizione che non ha bisogno di legittimarsi in quanto mette la propria ripetitività al servizio dell'oblio; e non della memoria o dell'accumulazione. La ripetizione può dunque impadronirsi liberamente di un ready-made: una trasformazione anche minima, infinitesimale, sarà sufficiente adinnescare e a perpetuare la performance. Meglio: il gesto performativo può essere perfettamente anodino o insignificante, può essere un gioco di parole sul titolo - ma è sufficiente per attualizzare la narrazione, per renderla presente in sé e nel suo passato «trascendentale», cioè che non ha bisogno di esser mai stato presente. Da qui il fascino delle «grandi» performances: una tradizione si inventa, scaturisce sotto i nostri occhi e ci scuote - come l'effetto di un battito, di una pulsazione, di uno choc o di uno Stoss primari. Di performance Hans-Georg Gadamer ci parla ogni volta che analizza la «rappresentazione» - teatrale, scenica, museale - di un'opera qualunque. Questa rappresentazione, per Gadàmer, «ha, in modo incancellabile, il carattere di una ripetizione dello stesso». Non bisogna interpretare questa formula troppo nietzcheanamente. «Ripetizione - prosegue Gadamer - non significa che una cosa è propriamente ripetuta, ricondotta ali'originale. Ogni ripetizione, anzi, è originale quanto l'opera stessa.» La struttura temporale così delimitata «può esserparagonata all'esperienza della festa». In effetti le feste si riproducono; ma, ogni volta, la festa «non è né un'altra, né la semplice commemorazione della festa originale [. ..] L'esperienza temporale della festa è piuttosto la celebrazione, un presente sui generis». Ci viene in mente, a proposito, la definizione di J. Cage della poesia: una «celebrazione del fatto che ·noi non abbiamo nulla»; una festa del non-possesso, del non-avere. Il che non significa una perdita, una privazione, ma piuttosto una povertà essenziale, l'intensità di una presenza che si stacca dal fondo del nulla. Così, per Gadamer, lafesta non offre altro che la propria assenza; e, in questo senso, non deve niente alla memoria. Il fatto che «non esista al di fuori della celebrazione» non implica «che abbia caratteresoggettivo e che abbia la sua essenza solo nella soggettività di quelli che la celebrano; al contrario, si celebra la festa perché essa esiste. La rappresentazione teatrale - e, aggiungeremo, la performance - partecipa allo stesso meccanismo: certamente essa esiste solo indirizzandosi a degli spettatori», tuttavia la sua essenza non è semplicemente {l punto d'incontro dei sentimenti provati dagli spettatori. E semmai l'inverso: «l'essere dello spettatore è determinato dal fatto di 'assistere' allo spettacolo. Assistere non significa soltanto esser presenti. Assistere vuol dire prender parte. Colui che assiste è perfettamente al corrente di ciò che accade realmente. Il significato di assistere che designa un comportamento soggettivo (esser presenti) è solo un significato secondario. Esser spettatori è, invece, un modo _autenticodi partecipare». Esser spettatore è, dunque, partecipare al Nulla evanescente della festa, al fatto che, di per sé e «oltre» la sua semplice presenza, lafesta non è nulla. Perciò è importante che ogni spettatore interiorizzi, se così si può dire, il Nulla della festa; che faccia il vuoto tra i suoi pensieri e che attinga a ciò che lo zen chiama il «non-mentale». Ciò esige il ritorno, il ricorso, a una mistica, a una mistica orientale o estremo-orientale? Non è per erudizione che abbiamo detto che lo Zaj è «più no del no»; al «non-mentale» si può giungere approfondendo ciò che, a partire dai greci, l'Occidente stesso ha ricercato. Sentiamo, a proposito, Gadamer: «Già Platone, nel Fedro, stigmatizza l'incomprensione con cui, in nome di una concezione intellettualistica della ragione, solidamente si disconosce il carattere estatico dell'esser-fuori-di-sé, riconducendolo a semplice negazione dell'essere-in-sé, a una specie di follia. In realtà esser-fuori-di-sé è la condizione positiva per avvicinarsi a qualcosa, per assistere. Assistere, in questo senso, è dimenticarsi;e ciò che costituisce l'essenza dello spettatore è che, dimenticandosi, si vota allo spettacolo. L'oblio di sé non è privazione, ma un movimento dall'abbandono alla cosa che costituisce l'attività propria dello spettatore». La performance compie un risalimento ol di qua della relazione soggetto-oggetto che caratterizza la modernità. Non sostituisce solo il processo ali'opera-oggetto, ma rifiuta ogni interferenza di un soggetto sull'oggetto stesso. Distrugge il primato della soggettività.LE siccome non è - a differenza de~'opera «moderna» - un oggetto, la performance si accosta ali'arte concettuale o inferenziale, all'idea art. Non è solo una pratica, è una pratica teorica. «Si può ricordare - dice Gadamer - il concetto di comunione sacra che sta alla base del concetto greco di theoria. Theoros, come si sa, è colui che prende parte a una delegazione inviata a una festa. Chi partecipa a una delegazione di questo genere non ha altra qualificazione e funzione che di assistervi. Il theoros è cioè lo spettatore nel senso autentico del termine, quello che prende parte agli atti della festa attraverso il fatto di assistervi e per ciò stesso acquista una qualificazione e dei diritti sacrali, ad esempio l'immunità». Ne consegue che la theoria non può essere ridotta a pratica soggettiva, «a un modo per il soggetto di autodeterminarsi»: essa esiste solo «in riferimento a ciò che contempla. La Theoria è una realepartecipazione: non un fare ma un patire (pathos): è esser presi, rapiti dalla contemplazione». Ma cos'è allora contemplare? È «avvicinarsi alla cosa in modo tale da renderla contemporanea»: di modo che «una cosa unica che ci si presenta, per lontana che ne sia l'origine, diviene totalmente presente grazie alla sua rappresentazione». Questo spiega perché molte performances si richiamino a fatti, spazialmente o temporalmente, molto lontani. La proliferazione di performances «barocche» - Orlan che si traveste da M(}donna del Bernini - o «selvagge» - Joseph Beuys che entra in una gabbia con un coyote, Francis Schwartz che brucia dei capelli per fornire «colore locale» a Auschwitz - non sono visioni «turistiche»; è una nomadizzazione che si propone - sia un viaggio sciamanico, sia una «passeggiataperfetta» alla Lie-tzeu ... ; e se si propone lo fa per davvero: in modo da aguzzare la presenza, per sottolineare l'autenticità della presenza di ciò che ci manca, che ci è negato, che fa difetto - in breve, il Nulla, in senso cageano della «celebrazione del Nulla»; o in senso dell'aura dell'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo Walter Benjamin. · Performancee tecnologia:la questionedell'atJra Si ricordi una definizione che Walter Benjamin diede, nel 1931, dell'aura: «L'apparizione unica di un lontano, per vicino che sia». L'aura qualificava la presenza (o l'assenza, o la presenza-assenza) dell'opera come sacra o liturgica, o meglio culturale: ciò che ci affascina in lei e la rende «inavvicinabile per essenza». Una statua di Venere, per esempio, diviene oggetto di culto presso i greci; il Medioevo la rigetta come idolo. Ciò che hanno in comune i due atteggiamenti è il riconoscimento del valore - metastorico in apparenza, storico in realtà - dell'«unicità» dell'opera. Questo valore - la sua aura - si perde con la scomparsa dei culti; nell'epoca della nascita della prima tecnica rivoluzionaria di riproduzione - la fotografia - questo valore si mantiene solo grazie ad un sussulto teologico, il rigurgito dell'«arte per l'arte». Contro «l'emancipazione dell'opera d'arte rispetto ali'esistenza parassitaria che le era imposta dal rito» dice Benjamin, la sola scappatoia è quella della teologia negativa: farsi carico della pretesa «purezza» del- /' arte ...:. cioè collegarla, mallarmeanamente, al Nulla. La riproduzione tecnologica annulla l'unicità: non ci sono più originali. L'arte diviene allora esponente della politica. Per Benjamin, l'arte del futuro sarà il cinema, eminentemente «materialista» in quanto assuntore della riproducibilità integrale dell'opera d'arte e, dunque, distruttore immancabile dell'aura. L'attualità cinematografica sostituisce alla «presenza» auratica, che unisce il vicino al lontano, l'invariabilità della ripetizione senza errori. Associando alla problematica della performance le idee di Benjamin relative al tracollo dell'aura nell'universo tecnologico attuale si ottiene uno strumento euristico molto efficace. È l'operazione compiuta dal teorico belga Thierry de Duve, che insegna a Ottawa e che partecipò al convengo di Montreal già ricordato. La sua ipotesi si riassume così:· «L'idea di presenza, o, che è lo stesso, quella di spaziotempo ·reale, presuppone la mediazione di un sistema di riproduzione». In altre parole: «In una società mediatizzata e informatizzata all'eccesso, in _cui il simbolo non è considerato un segno, ma un segnale in perpetua transcodifica, la presenza, l'essere-nel-mondo effettivo dell'uomo passa incessantemente in queste macchine traduttrici, mediatori indifferenti ai messaggi. Il concetto di presenza ne deve tener conto». Se si accetta questa inclusione ci si accorge che la performance ha tenlito conto, oltre che delle problematiche ereditate dalla musica, dalla pittura, dalla scultura o dalla danza, del cinema~«intempi reali» di Andy Warhol, cqsì come oggi utilizza i video e le varieprocedure «poliartistiche»di Francis Schwartz e Costin Miereanu. Da una parte il cinema «sperimentale» rinvia al minimalismo che - ad esempio nelle «installazioni» che costringono lo spettatore ad accettare di inserirsi in uno spazio-tempo reale - esorcizza la dimensione del!'a priori, cioè permette la costituzione di uno spazio e di un tempo non già dati, non ancora presenti, irriducibili a ciò che Kant designava come «forme a priori della sensibilità»; d'altra parte, lo stesso cinema «sperimentale» obbliga lo spettatore a «fissare l'attenzione sugli apparati tecnici che gli permettono di assistere a una proiezione», da cui «un'apprensione concettuale dello spazio e del tempo che non può ignorare questi apparati». È possibile, allora, distinguere tre tipi di performances, a seconda del modo degli artisti di utilizzare la tecnologia di riproduzione. Un primo atteggiamento, piuttosto «regressivo», «riporterà in auge un soggettivismo di tipo neo-esistenzialista»; sarà «teatrale, auratico e sacrificale, sia nel senso, pania~ mo, di un Grotowski (comunione), sia nel senso, poniamo, di un Kaprow (partecipazione)». Cercando di eliminare tutte le tecniche di riproduzione, esibirà la fotografia come la «sola» traccia concreta del lavoro svolto; la furbizia consisterà nell'eleggere lo sguardo del fotografo, l'occhio della telecamera, a «spettatore trascendente e metastorico che avrà in ogni momento la possibilità di far rivivere la performance». Thierry de Duve non fatica a trovare degli esempi: Joseph Beuys, Yves Klein, Gina Pane, ecc. Un secondo tipo di performances, di cui lo spe~tacolo danzante montato nel 1979 da Lucinda Childs, Phil Glasse Sol Lewitt può fornire un esempio, «ha interiorizzato l'apparato riproduttore e si propone come messa in scena del suo funzionamento»; ne consegue un certo· accademismo che «fa dipendere ogni tappa della strutturazione dell'avvenimento dai dispositivi di transcodificazione dati dalla struttura stessa». Infine, quelle performances che «abbinano il performer a un qualunque transcodificatore, incorporando l'apparecchio e il performer in un unico feed back»: in Joan La Barbara, Michael Galasso o già in Transicio II di M. Kagel, la performance «si svolge in tempo reale sulla propria eco»; ugualmente, nel caso del violino di L. Anderson, le «macchine di registrazione» diventano «strumenti di musica live» se li si associa allo strumentista. Più complessa, e più convincente nella prospettiva di T. de Duve, è la performance proposta da Max Dean a Montreal nel maggio del 1978: «All'inizio della performance l'artista si trovava fuori scena, legato e imbavagliato e appeso per i piedi a un cavo teso tra una puleggia sullo sfondo e un argano posto sulla scena. Un interruttore a tempo automatico regolava il movimento dell'argano, sollevando lentamente l'artista per i piedi. L'argano, collegato a un microfono che registrava il brusio del pubblico, si arrestava quando il rumore raggiungeva un dato livello, interrompendo il sollevamento de~'artista. Il pubblico aveva così la possibilità di decidere collettivamente il sacrificio (simbolico) dell'artista. Dopo esser stato introdotto nello 'spaziotempo reale' della performance, ecco che ora il pubblico è messo in condizione di produrre, non la formalità a priori dello spazio e del tempo - che sono entrambi nelle mani di Max Dean: la scena, il meccanismo a orologeria - ma la realtà in corso. Realtà che, per rituale che sia, visto che si tratta di un sacrificio, non si limita a un'aura artistica - a un valore cultuale - che genererebbe il mito. Ma sottolinea una questione che è ancora, cinquant'anni dopo Benjamin, di bruciante attualità: quella delle responsabilità del- /' artista e del pubblico in una data situazione che si rivela, per entrambi, politica». Si possono accettare le conclusioni di Duve senza però sottoscriverne tutte le premesse. La tecnologia ormai autorizza l'evidenza dell'invenzione dei dispositivi di «realtà» - cioè di Zeitspielraume, gioco di spazio-tempo, arie di gioco - non riducibili a ciò che si concepiva ali'epoca di Kant; una performance come quella di Max Dean sospende, in qualche modo, e non solo simbolicamente, l'aura alla tecnologia. Sì, l'aura esiste ancorai Ciò che non convince nella tesi di Duve non è affatto il riferimento finale alla politica; è giusto dire che la politica ·non ha smesso di far parlare di sé; ma eccessiva appare la fiducia accordata allo «scatto di pensiero» di Walter Benjamin, che vede nella tecnica la causa dell'abolizione de~'aura. E se fosse il contrario, se l'impiego tecnologico amplificasse la questione del rito, e del mito, del cerimoniale e della celebrazione? Diciamolo chiaramente: se fosse così occorrerebbe ribaltare la nozione del/'aurq, una «af!parizione di un lontano» qualunque ne sia la vicinanza. E chiaro che un'aura così concepita non può resistere all'urto di una tecnologia che ci riaccosta sistematicamente a ogni cosa, e accosta le cose tra loro, la cui funzione è eminentemente - e Heidegger ha già insistito su questo punto in modo decisivo - di abolire i «lontani», cioè l'unicità e la sua apparizione. L'arte del theoros, secondo Gadamer, tende, come si è visto, a conferire con la performance «pienapresenza» alla «cosa unica» che ci_si presenta, e questo «per lontana che ne sia l'origine». E l'esatto contrario della definizione dell'aura di Benjamin: si tratta, con la performance, di muovere verso le cose, verso il mondo, ma scongiurandone l'allontanamento. Ciò non significa, nell'epoca tecnologica della moltiplicazione e della ripetizione, l'impossibilità di avvicinare l'unico. Il «suono unico» di La Monte Young è, allora, meno carico d'aura di un qualsiasi strumento «primitivo»? Le performances di La Monte Young e di Marian Zazeela con il Pandit Pran Nath rivoltano l'aura di Benjamin come un guanto: ci muoviamo sorretti da una techné che, solo ora lo capiamo, non ha mai smesso di essere parte integrante della natura o della physis, verso un sacro inaudito, che non è mai stato, di cui lo yoga elettronico è la prima spia indicatrice. La tecnologia favorisce ed amplifica il movimento ripetitivo che è esaltato dalla pragmatica del sapere narrativo, cioè nella performance dei Grandi Racconti. Ma ciò non annulla la gravità del problema che Duve chiama «politico» e che si può riformulare in questo modo: la politica della performance si risolve oggi in un gioco capitale, quello dell'emancipazione rispetto allapragmatica della redditività, cioè della delegittimazione. La scienza delle «instabilità» e la tecnologia ripensata (sviata dalla sua funzione legittimante) aprono la strada a nuovi racconti. Il ruolo dell'artista è quello di proseguire la strada aperta da alcune performances decisive: chiudere la modernità. Traduzione dal francese di Pietro Raboni e:, "-I <::s .s ~ c:i... t-.... ~ ..... e -~ .(:) .(:) ~ ~ s:: .s ~ .(:) ~ --------------------------------------------------------------------------'<::!

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