- nel senso in cui Zeami collega il no a kagura, al «divertimento degli dei», alla danza davanti al santuario, piuttosto che al bugaku, al divertimento profano o cortese. J. Hidalgo si è un giorno esplicitamente riferito al teatro cinese, un teatro forgiato da due millenni di processioni. Si sarebbe così tentati ad associare il concetto giapponese di gyodò, il «cammino» (o /'Unterwegs di Heidegger), la deambulazione della festa, alla pratica dei tragitti o percorsi Zaj. Ma Zaj è anche dedito al mail art, all'arte delle spedizioni postali e della corrispondenza, dei segni e dei segnali; alla pubblicazione di libri oggetto, assieme raccolta di partiture e esplorazione dello spazio grafico, partiture-koan e pittogrammi che portano, come gli oggetti postali, a una scansione rituale dello spazio piuttosto che del tempo. Tutti questi elementi mirano alla sacralità dei Grandi Racconti, di cui essi potrebbero fornire una riattualizzazione, nel segno di una narratività a grado zero capace di esprimere tutte le virtualità del silenzio. Zaj riscopre e inventa per noi barbari occidentali il sereno equilibrio che nella Cina antica regnava tra silenzio e discorso da un lato, e tra silenzio-discorso e discorso-azione dall'altro. Anzitutto, come ricorda il filosofo Lik Kuen-Tong, il discorso è, secondo l'I Ching, «lo yang del silenzio», e il silenzio è «lo yin del discorso». Ma «un yin un yang» è il tao. «L'alternanza tra parola e silenzio è dunque manifestazione della legge cosmica del I, il processo primario della creatività, la realtà ultima dell'universo». Successivamente, le differenze tra discorso e silenzio, tra discorso e azione, si annullano: «Il silenzio si realizza nell'azione. Il discorso nasce dal silenzio dell'azione, e vi ritorna... La verità tao non si limita ad essere pensata o espressa; concerne anzitutto la realizzazione e l'azione». Le performances Zaj sono queste azioni, in cui l'agire non è superato dal non-agire; e la parola che lasciano risuonare nel silenzio, per muta che sia, non è meno eloquente di tutti i discorsi su cui verte: riporta alla luce un mondo. Abbiamo insistito sul gruppo Zaj per l'estrema purezza delle sue problematiche. Analoghe osservazioni possono valere per altri artisti; accontentiamoci qui di menzionare il gruppo Kiva, che annovera, assieme all'eccezionale danzatrice coreana Hi Ah Park - iniziata allo sciamanesimo - due compositori che insegnano all'università di San Diego in California, John Si/ber e Jean-Charles François; questi hanno sviluppato, accanto alle performances danzanti di Hi Ah Park, un vero cerimoniale dell'improvvisazione sorretto da una sofisticata tecnologia sonora. Più celebri, ma meno decisive e, malgrado le apparenze, meno radicali, sono le performances di Gina Pane. È difficile non essere d'accordo con Jean Clair sul «masochismo parossistico» espresso nei Projets de silence da questa artista: dal land art al body art, l'atmosfera tende a incresparsi. .. Bisognerà, per esempio, «lungo un ruscello coperto da un drappo bianco, lavarsi le mani in una ciotola di cioccolato bollente e poi far bere a una persona del pubblico il contenuto della ciotola. Percorrere un sentiero pericoloso con gli occhi bendati; sforzarsi di sputare a sangue; graffiarsi con un rasoio le spalle, i fianchi, le braccia, quasi a voler imitare e profanare un antico rito che il pubblico può identificare, a piacere, nella comunione, o in un rito iniziatico, o in un rito di automutilazione, ecc... » Il simulacro è qui scopertamente rivendicato; la forza di Zaj era invece quella di non allontanarsi mai dall'autentico. Non si vuole dare un giudizio di valore: semplicemente Zaj non fa finta. G. Pane ci appare, per fare un altro paragone, più vicina a Da/i che a De Chirico; insegue, in linea con la nostra epoca, la massima provocazione utilizzando, in questo, ogni possibile aggancio con l'Oriente, la mistica, il cristianesimo, i riti antichi, ecc... Ma non si può fare a meno di opporre alla modernità di Dali la «postmodernità» di De Chirico; nei suoi quadri del periodo «metafisico» nessuna traccia, oltre a un velleitario ritorno al classicismo puro e semplice, di «pensiero calcolante», nessuna «credulità nei confronti del metadiscorso», nessun desiderio di legittimazione. È l'innocenza, in De Chirico come in Zaj, che ci affascina. Performancee presenza Lo choc del presente era il titolo di uno dei migliori interventi al convegno su Performance et postmodernité organizzato a Montreal, nell'ottobre 1980, dalla rivista Parachute. L'autore, René Payant, che insegna storia dell'arte all'università di Montreal, sosteneva che - come noi abbiamo qui ribadito - occorre far risalire il periodo attuale («postmoderno» perché rode «dall'interno» una «modernità» tesa ali'efficacia e al calcolo) della· performance a M. Duchamp. Era un tentativo di precisare il valore dell'esibizione del presente nel ready-made, verso l'elaborazione di un'estetica della presenza che qui, volentieri, si riprende per confrontarla con l'estetica del rito e del cerimoniale proposta da Zaj. Il pissoir che Duchamp tenta, senza successo, di esporre °' al salone degli Indipendenti di New York fin dal 1917, è :; senz'altro un objet trouvé, un prodotto industriale dei più .s banali, e la «neutralità» del suo significato o, se si può [ dire, del suo contenuto giustifica le esitazioni ad esibirlo. "' Ma nelle successive esposizioni, come nelle foto d'epoca, ~ Duchamp modifica in modo decisivo la situazione spazia- .9 le di questo oggetto, ponendolo su un basamento. La perl: formance di Duchamp obbliga il pissoir a «perdere la sua -e .e::, funzione»: come osserva R. Payant, «trasformato, separa- ~ to dalla tubatura e dal luogo privato dove viene utilizzato, ~ inclinato di 90 gradi e posto su un basamento, questo pissoir sarà, nonostante tutto, utilizzato nella sua funzione (perduta), il che dimostrerà che è effettivamente diventato una fontana. Il getto che uscirà da~'oggetto - rapporto con l'esterno 'anormale' per un gabinetto - si rivolgerà contro l'utilizzatore che non si è accontentato di guardare, cioè di compiere la sua funzione di spettatore (per fare l'opera). Il titolo, il nome proprio della scultura, è dunque quello di questa composizione che implica un angolo di presentazione e una base». La base, lo zoccolo, solleva dunque il gabinetto al rango di scultura; l'istituzione del museo lo designa gabinetto artistico; e il titolo testimonia, linguisticamente, il mutamento di funzione: cosa c'è di più poetico, del resto, di una fontana? È certamente un titolo nobile: l'appellativo «fontana» rende sacro il gabinetto. Contemporaneamente, il rovesciamento spaziale e il mutamento lessicale trasformano l'oggetto, che non si presenta più da solo ma inserito nel suo contesw - come se la performance consistesse nel permettere all'opera di investire il suo ambiente. Si è allora in presenza non solo del ready-made pissoir, ma dell'incontro tra il ready-made trasformato «fontana» col ready-made «istituzione museale» che lo inquadra e lo illumina. «Fontaine - afferma R. Payant - rappresenta l/,unque le condizioni di esistenza dell'opera d'arte, condizioni che le preesistono e che ne permettono la comprensione e la trasmissione. La base, per metonimia (rappresentando concettualmente tutto il museo) e per sineddoche (essendo parte concreta di tutto ciò che incornicia l'oggetto definito artistico) diventa così l'emblema del museo, della tradizione, dell'intera istituzione artistica. Fontaine mette dunque in scena la funzione deittica della base. E questa, a sua volta, conferisce artisticità all'oggetto che sostiene e ricorda, fa ricordare, il luogo dove quest'oggetto ha significato artistico». Ma che ne è della firma? Si può vedere, sulla sinistra del gabinetto, l'iscrizione «R. Mutt 1917» che sostituisce il nome dell'impresa costruttrice: la Mott Work. Duchamp ha soppresso Work, cancellando ogni· riferimento al lavoro. Resta un solo «motto»: Mott. Duchamp lo scrive Mutt: cambiando la o in una u «apre» la parola, pratica «l'apertura del campo»... E aggiunge, a guisa di nome, R., cioè un'iniziale che riduce il nome a niente (Rien). Il risultato è (R. M.) (utt) cioè Ready-Made utt, oppure Ready-Made eut été. Qui si coglie il valore della presenza: senza l'aggiunta di utt a ready-made non avremmo avuto che un semplice ready-made; il supplemento utt trasforma il ready-made. Ma in che cosa lo trasforma? In nient'altro che se stesso... E sarebbe il caso di dire col Mallarmé del Coup de dés: «Rien n'aura eu lieu que le lieu». Come il meme di La Mariée mise à nu par ses célibataires meme, l'utt, con la sua mancanza di significato, conferma e ribadisce il ready-made; o, per dirlo con R. Payant, «la trasformazione, l'aggiunta, sembra aver la sola funzione di indicare ciò che c'era già: e, visto che non ha valore intrinseco, può essere dunque minima e banale». La vacuità dell'aggiunta non fa che sottolineare il modo in cui il ready-made si eleva sulla base. Base che nuovamente viene a rappresentare un certo sistema istituzionale situato e datato. E l'opera non si pone solamente «come oggetto di riflessione su questo stesso sistema istituzionale» ma «espone, riproducendoli, i meccanismi stessi del funzionamento». Ma soprattutto, grazie alla firma, il soggetto o l'autore si assenta due volte: anzitutto, essendo una firma, la sigla rivela una fonte - una fontana ... - che esisteva, che «aveva luogo» ma che è scomparsa (non ne resta che una sigla); poi il referente R. Mutt vi resta del tutto ignoto. «Rimane dunque da capire - conclude R. Payant - quali siano la realefunzione e lo statuto del performer nella performance». È significativo che si debba partire ancora da Duchamp per definire il modo in cui le performances esprimono un'«estetica della presenza». Vancouver, un'installazione di Irene Whittome, esposta nel 1980 al museo delle Belle Arti di Montreal (dopo essere stata, sempre nel 1980, nelle gallerie di Vancouver, di Winnipeg e di Hamilton) permette a R. Payant di approfondire la sua ricercaa riguardo. In linea con gli Spill (Scattered Pieces) di Cari André, che obbligavano lo spettatore a rinunciare a qualsiasi focalizzazione de~'oggetto scultoreo imponendogli di aggirarsi tra i vari elementi dell'opera sparpagliati al suolo, o nello spirito della Viewing Station di Dennis Oppenheim, che imponeva agli spettatori una disposizione speculare obbligandoli a intravedersi - e a vedersi dentro - l'autore di Vancouver impedisce al pubblico (e anche al fotografo) una veduta d'insieme, unificante, della sua opera. Questa è costituita da una ventina di blocchi geometrici, raggruppati in dodici «concentrazioni» e disposti in una sala che è «divisa in due parti diseguali da un muro interno, così che risulta impossibile vedere la totalità dell'insieme da un unico punto». Lo spettatore resta sconcertato, come di fronte alle rocce del giardino zen di Ryoanji a Kyoto: non è permessa nessuna sintesi immediata e, in particolare, nessuna immagine fotografica esaustiva; la presenza de~'opera si sottrae alla vista e sembra essere accessibilesolo in differita. Ma se Vancouver non è riproducibile è però possibile prenderne contatto: l'installazione emana, se si accetta di percorrerla,· un' «atmosfera» - il corrispondente narrativo è la carta geografica o la mappa della città di Vancouver, con le sue frastagliature e le sue aperture sul mare. Il «racconto» della località Vancouver attraverso l'«installazione» Vancouver è, certo, necessariamente sfumato, o approssimativo, o infedele, visto che non solo esige di essere fisicamente percorso (impossibile arrestarsi al piano linguistico, alla corrispondenza tra titolo e referente) ma è anche legato alla configurazione «reale» del mùseo, della galleria che lo ospita. L'autore ha così previsto di accentuare la èomponibilità dei vari elementi di Vancouver per adattarli alla varietà dei luoghi: Vancouver cambia da un'esposizione all'altra, si allunga o si contrae come un mobile che attraversa il mondo, annettendo al proprio «contenuto» narrativo gli spazi visitati. E anche la metereologia .dell'ambiente entra in gioco: la luminosità varia secondo le ore; l'illuminazione dell'opera, fin verso le 15 affidata alla luce del giorno, diventa in seguito artificiale. Vancouver annettf l'ambiente circostante - compresi gli stessi spettatori. E impossibile, infatti, passeggiare tra le concentrazioni di elementi disposti al suolo senza incrociare lo sguardo degli altri spettatori. In questo modo Vancouver si connette alle installazioni di specchi - d'obbedienza pop - tipiche, ad esempio, di Pistoletto, che, dipingendo i «soggetti» su specchi, obbligava gli spettatori a vedersi: qui il voyeur vede gli altri guardare e, mentre lui stesso li guarda, li vede guardarlo; è più la condizione dello spettatore come tale che ne risulta marcata piuttosto che il voyeurismo soggettivo dell'individuo. R. Payant osserva che Vancouver non si lascia esporre senza esporre, a sua volta, il museo che lo espone - e cioè l'istituzione stessa del museo. E di questa istituzione fanno anche parte gli amatori d'arte: Vancouver li mette in gioco doppiamente - sia come performers che devono scegliere un tragitto, sia come «semplici» spettatori che si interrogano silenziosamente sull'enigma della loro presenza lì in quel preciso momento. L'estetica della presenza su cui sfocia una performance come Vancouver ripropone a sua volta la questione dello statuto dell'artista stesso, e getta un'ombra di dubbiosa incertezza sulla funzione creatrice de~'onnipotente soggettività nell'arte «moderna». Fare di un'intera città un readymade, ridurla a una scultura-mappa, disporla in uno spazio ineguale e liberare in questo spazio un drappello di amatori di rally, sono tutte operazioni che esprimono un fiat radicale, persino assoluto: l'autore sa e fa ciò che vuo-. le. Non è stato lui forse a distribuire al pubblico gli elementi di un puzzle, a organizzare un bricolage collettivo, rinunciando però del tutto, e dall'inizio, a controllarlo? Non è sua la scelta di costruire una macchina suscettibile di essere manipolata dagli spettatori e, dunque, suscettibile di utilizzazioni, per definizione, imprevedibili? J. Cage paragona l'opera-processo, non riducibile ali'opera-oggetto, a una telecamera: permette tutte le inquadrature possibili. Creare significa inventare delle telecamere inutilizzabili! Portare la tecnologia ali'estremo della perfezione ... All' artista non rimane che guardare le performances del suo pubblico. Già con Zaj si assisteva al montaggio di muti incitamenti alla meditazione: al limite, J. Hidalgo, «interpretando» una pièce di Marchetti, non «esegue» Marchetti ma diventa il testimone delle reazioni del pubblico - che è completamente libero di agire, o di non agire, alla cinese... Ma è significativo che in questo modo si verifichi ancora la definizione di Duchamp: «È lo spettatore che fa il quadro». Perché è lo spettatore principalmente ed effettivamente il creatore; e, per delega, l'interprete. Nel caso di
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