Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

«La referenza delle narrazioni, può sembrare appannaggio del tempo_passato, in realtà essa è sempre contemporanea all'atto. E lapresenza effimera che si estendefra l'Io ho sentito dire e il Voi state per ascoltare.» L'arte della performance rinvia, di conseguenza, a uno stato sociale in cui i racconti sono partecipi di una «temporalità evanescente e immemoriale» (J.-F. Lyotard). L'estetica del gruppo Zaj Fare una performance è, per esempio in M. Duchamp, trasformare un ready-made. Le analisi di Lyotard mostrano in che modo un ready-made si collega a un discorso: la tradizione è una trasformazione che si applica a un racconto preso come ready-made. E per «racconto» bisogna intendere l'insieme degli enunciati possibili, secondo i diversi gradi di narratività considerabili. Un sistema filosofico è un racconto, come lo è un mito o una storia; tutti i giochi linguistici sono dei racconti, e la performance può, naturalmente, vertere sulle forme di vita associate a questi giochi linguistici, sfociando così nel silenzio, nella gestualità completamente muta. Si ripropone, a questo proposito, il problema del rapporto di filiazione tra performance e happening. Alcuni puristi - basandosi sul fatto che la performance sembra richiedere, o richiede in generale, un'attività scenica autonoma, separata dalla partecipazione e dalle reazioni del pubblico - rifiutano del tutto l'assimilazione tra performance e happening: sulle orme di Artaud e della problematica del teatro «puro», non verbale, l'americano Michael Kirby vede nell'happening l'antitesi della performance, poiché si tratta sì di uno spettacolo risolutamente teatrale ma la cui organizzazione è affidata (in generale) soltanto a degli astanti che utilizzano (del tutto naturalmente) strutture insulari o compartimentali piuttosto che informative o sequenziali, e non mantengono del campo verbale che alcuni effetti vocali. Ma è opportuno trattenersi dall'accentuare ulteriormente l'opposizione tra happening e performance: le due forme si riaccostano se se ne approfondisce il riferimento alla teatralità. Si prenda una pièce classica: se i macchinisti cambiano lo scenario, lo spaziotempo che sostiene implicitamente i personaggi e che, per opposizione allo spazio-tempo reale del pubblico, costituisce la teatralitàcome tale, si interrompe; e si potrebbe anche pensare che cessi di esistere. Il gioco, negli happenings come nelle performances, assomiglia a quello dei macchinisti più che a quello degli attori; l'interprete non deve far altro che muoversi in uno spazio-tempo immaginario, secondo atteggiamenti e mosse previste dall'autore. L'improvvisazione resta esclusa: presente nella commedia del- ['arte, dove i caratteri si adattano nel confronto reciproco, l'improvvisazione è del tutto superflua in quegli spettacoli che, mettendo in gioco la realtà dello spazio-tempo, del Zeitspielraum, riducono gli attori, per così dire, a semplici effetti (qualunque sia la complessità dell'interpretazione). Performance e happening suscitano entrambi situazioni a-logiche, piuttosto che logiche o illogiche, ed entrambi utilizzano o materiali «concreti», legati al quotidiano piuttosto che votati all'astrazione di un'immaginaria simbologia. Impossibile, se anche c'è, trovare il senso: l'indeterminatezza dell'esecuzione permarrà oltre ogni associazione, oltre ogni configurazione chiara e dettagliata. Nessuna griglia interpretativafugherà la minaccia di un equivoco. Si lavora senza rete. E qualsiasi cosa gli interpreti «facciano dell'effetto» non disturberà l'onnipotenza «causale» dell'autore. Come dice Lyotard, non si potrebbe conferire a qualche «inspiegabile soggetto della narrazione autorità sul racconto». Sono i racconti stessi che <<hannoq·uesta autorità». «In un certo senso il popolo non è che l'insieme di coloro che li attualizzano, e che non lo fanno solo raccontandoli, ma anche ascoltandoli e facendosi raccontare da essi, vale a dire 'rappresentandoli' nelle istituzioni: quindi piazzandosi anche nelle posizioni del destinatario e della diegesi oltre che in quella di narratore.» Ecco ridotta l'opposizione tra performance scenica e happening partecipativo: se l'autorità di ciò che vien detto è maggiore dell'identità dell'attore, non importa se questi sia l'autore stesso o se faccia parte del pubblico: l'importante è che il testo (o la sua assenza) si manifesti. Le performances rilevano da una «pragmaticanarrativapopolare che è immediatamente legittimante» e non ha bisogno di riferirsi a un soggetto, a un autore o a un'origine storicamente datata. È in loro potere riattivare gesti millenari: la provenienza dei loro riti è effettivamente immemoriale. Donde l'impressione così sorprendente di verità o di veridicità che emana dalle performances «magiche» del gruppo Zaj: ci si accosta, ci si riallacciae ci si annoda a qualcosa di assolutamente essenziale ma, nello stesso tempo, imprecisabile: è solo «qualcosa» che prende alla gola. Cerchiamo, senza pretendere un'impossibile spiegazione esaustiva, di precisare meglio questo «qualcosa». Si configura così un'estetica della performance estremamente caratterizzata e originale. Zaj è nato in Spagna, agli inizi degli anni sessanta, dall'incontro tra il compositore nativo delle Canarie, Juan Hidalgo - che si richiama eloquentemente a I. Cage e M. Duchamp - e il compositore italiano Walter Marchetti. Successivamente molti artisti spagnoli hanno fatto parte del gruppo Zaj, che si è però definitivamente stabilizzato solo con l'arrivo di Esther Ferrer, un'artista proveniente dall'arte dello spazio. Il primo concerto Zaj 'è del 21 novembre 1964. Per meglio coglierne la portata è opportuno rifarsi ali'atmosfera di quegli anni: il testo-manifesto che, nel 1963, il compositore argentino Mauricto Kagel aveva dedicato al teatro strumentale può essere, a questo punto, un'utile testimonianza. Si coglierà, crediamo, sufficientemente l'originalità dell'impresa Zaj confrontandola col lavoro di Kagel. A cosa mira infatti Kagel? Per lui l'estetica del nascente «teatro strumentale» deve sforzarsi di realizzare anzitutto una sintesi tra il gioco strumentale e la pratica teatralesulla nuda scena. Sintesi che si basa essenzialmente sul movimento: occorre, dice Kagel, «apportare modificazioni alla sorgente sonora: spostarsi, volteggiare, scivolare, picchiare, far ginnastica, passeggiare, agitare, spingere, ogni cosa che intervenga sul suono, modificandone la dinamica e il ritmo, ogni cosa che generi nuovi suoni è permessa.» E l'agente di questo movimento è lo stesso strumentista. Nulla deve essergli imposto se non - come al semplice macchinista - «la possibilità materiale di usare gli strumenti e la successione temporale delle entrate». M. Kagel si aggancia al Poème pour des tables et des chaises dell'americano La Monte Young rappresentato all'Accademia delle Belle Arti di Venezia. «La durata dell'esecuzione era stata fissata a quindici minuti e il numero degli esecutori a sei. I partecipanti presero nel laboratorio di pittura sei cavalletti alti e pesanti e, tenendoli leggermente inclinati, cominciarono lentamente a trascinarli in varie direzioni sulla scena. Ne risultò un flusso e un riflusso di grande intensità sonora, un mélange di suoni fondamentali filtrati, sul tono grave, da un eccezionale Flatterzunge di strumenti a fiato. Fu un eccezionale concerto da cabaret espressionista, un'avventura acustica formidabile, per nulla disturbata dalle strane cose che succedevano sulla scena. L'uniformità.- i sei esecutori si limitavano a trascinare i cavalletti ognuno per conto suo - si fece sentire al nono minuto; un po' più tardi divenne insopportabile, ma verso la fine, forse grazie alla persistente monotonia, si ebbe come un ritorno di interesse». Questa descrizione pone l'accento sull'aspetto indiretto, «obliquo», della produzione sonora; ma sottolinea anche che si tratta di un effetto obbligato. La pièce di La Monte Young, come la maggior parte delle opere teatrali «musicali» elaborate da dei compositori, prescrive, pur nella generale economia di indicazioni e di regole del gioco, una «avventura acustica» che «disturberà» o meno la messa in scena. Così, quando M. Kagel analizza il Concert for Piano and Orchestra di Cage o la sua pièce, Sonant, specifica il silenzio su -ui sfocia questa o quella esecuzione; ma questo silenzio è sempre un fenomeno limitato o un caso particolare; e si sa, grazie al musicista I. Cage, che non esiste silenzio «reale», che il silenzio è solo una parola che indica l'insieme dei rumori non voluti, che ogni silenzio è intenzionale (]. Grenier) - cioè convenzionale: una forma che rinvia a un gioco linguistico. È d'obbligo ricorrere, per ognuno degli esempi citati da Kagel, a un riferimento sonoro ultimo. Ma un tale riferimento è inevitabile anche nel caso della performance? E un problema che il gruppo Zaj affronta in tutta la sua ampiezza. È sempre il problema del silenzio - ma inteso, oseremo dire, in modo diverso. - Zaj non vieta il ricorso a sonorità e a rumori di ogni tipo: Hidalgo e Marchetti sono all'origine dei compositori di grande talento - e lo restano, come possono testimoniare molte pièces recenti (si pensi alla Rose Ssélavy di Hidalgo, per non menzionare che un solo esempio di «composizione» strettamente musicale). Ma Zaj si permette, parallelamente, opere del tutto prive di effetti musicali. In una scenetta di W. Marchetti si può percepire, se ci si sforza di ascoltare - in un pianissimo ancora più sostenuto di quelli di Webern o di Feldman, un suono delicatissimo - sentito? immaginato? - di una sola goccia di liquido; un suono dapprima non udibile ma che poi, con l'arrivo di una seconda, di una terza, di tutta una serie di gocce, diventa uno scrosciare sempre più netto, una mini-cascata che aumenta, si amplifica, si esacerba... Di cosa si tratta? La descrizione in termini di sonorità non porta a nulla. L'azione dell'interprete, J. Hidalgo, consiste infatti nel versare l' intero contenuto di una bottiglia di aperitivo, con la lentezza di un maggiordomo, in un bicchiere al centro di un tavolo che è, a sua volta, al centro della scena; finché il liquido deborderà dal bicchiere colando sul tavolo e, poco dopo, al suolo. Si possono immaginare le reazioni suscitate da uno spettacolo di questo tipo. Si passerà da una calma distaccata - non bisogna forse mantenersi impassibili anche se il coppiere che ci riempie il bicchiere versa un po' di liquido fuori? - a una contrazione - come? il bicchiere è colmo e quello che lo riempie non se ne accorge? - al disagio - dove vorrà arrivare? - per finire, probabilmente, con un sospiro di sollievo - è tutto qui?! Ma il racconto che si offre allo spettatore contiene un preciso riferimento (conformemente a ciò che R. Kostelanetz si attende da un'opera d'arte inferenziale) al Grand Verre di M. Duchamp. Il bicchiere (verre) di Marchetti non gli assomiglia magari anche solo in virtù di un gioco di parole? - E inoltre, /'«ambiente» postumo a cui per molto tempo Duchamp ha lavorato segretamente, Étant donnés ... , non contiene forse una cascata d'acqua che, abbinata con alcune illuminazioni a gas, contribuisce ad animare una visione erotica insolita nel suo silenzio? La «musica liquida» di Zaj si inserisce, di conseguenza, nel centro magnetico delle preoccupazioni di Duchamp - come se W. Marchetti si fosse preoccupato di riempire in qualche modo l'intervallo che divide l'Erratum musical (premonitore, lo si è visto, del Grand Verre) dalla musica «muta» della cascata d'acqua nelle Étant donnés... E diventa possibile, partendo dallo Zaj, reinterpretare «spazialmente» il silenzio inizialmente «temporale» del 4'33" di Cage: lo riempimento del bicchiere, in risposta al rovesciamento, nell'Erratum di Duchamp, di bocce o bilie rappresentanti le diverse sonorità possibili, conferisce uno spessore reale, quasi tattile, al tempo del silenzio, sollevando la musica al di sopra di ogni istante ma lasciandovi scivolare eventuali sonorità «volute». Nulla di sorprendente che il primo concerto Zaj, allafine del 1964, si sia aperto con il 4'33''.. Ma l'azione non si limitava, come nella creazione originale di David Tudor, al gesto di chiudere il piano e di riaprirlo una volta scaduto il tempo. Per Zaj il 4'33", ready-made ripreso per essere trasformato, comportava uno spettacolo degno degli Actes sans paroles di Beckett: si resta inizialmente immobili all'interno di uno spazio delimitato da quattro assi di legno che rappresentano una gabbia (Cage); dopo 4'15", e durante i 18 secondi restanti, viene azionato il comando manuale che solleva fino al soffitto la simbolica gabbia. L'omaggio a J. Cage si arricchisce di un gioco di parole. È Pour !es oiseaux ante litteram. Zaj non si lascia rinchiudere in un preciso filone culturale. Marchetti non si limita a «ripetere» Cage o Duchamp ma lascia affiorare un'affermazione ancora più silenziosa della loro. La performance che consiste nel riempire un vaso, versando deliberatamente oltre l'effettiva capienza, non colpisce la nostra sensibilità, non ci stimola i nervi perché si riferisce a un archetipo a noi forse consustanziale, riattiva una gestualità che ci è ignota, un passato che (per noi) non è mai stato presente; in Giappone, al contrario, è ben noto. È sufficiente ricordare un aneddoto citato da Nancy Wilson Ross in Il Buddismo zen: un «uomo illuminato» si recò un giorno da un maestro zen per studiare questa eccezionale filosofia. Il maestro invitò educatamente l'ospite a prendere con lui una tazza di té durante la conversazione. Preparato il té, secondo un rigoroso rituale da cerimonia, il maestro cominciò a riempire la tazza del visitatore, e continuò a versare il liquido, di un verde ambrato, finché la tazza non strabordò. L'ospite, vedendo che non accennava a fermarsi, e incapace di nascondere la sorpresa, esclamò: «Maestro, la mia tazza è già piena!» Allora il maestro posò la teiera e disse: «Voi siete pieno, come questa tazza, delle vostre opinioni e delle vostre convinzioni. Come potrò farvi comprendere lo zen se non cominciate a vuotare la vostra tazza?» Zaj, ha detto J. Cage, è «più no dello stesso no». Perché una performance sia suscettibile di transcitlturalità - conformemente alle affermazioni del teorico americano Richard Schechner - occorre che sia preservata, indipendentemente da ogni influenza di culture diverse, la parte che spetta al presente. Le performances Zaj rappresentano dei koan: è vero, ma è anche vero che ciò che J. Hidalgo chiama «documento pubblico» o «eccetera», e cioè un k.oan visto come ready-made e trasformato, ha senso qui e ora, nella Spagna di oggi e non nel Giappone di ieri; il lavoro del gruppo Zaj, scevro dalla preoccupazione di citare, di collegare, di ricostruire storicamente, si inserisce coscientemente nell'attualità. Si potrebbe sostenere che Zaj si riferisce alla parte zen presente nel no. Ma J. Cage diceva che non bisogna considerare lo zen responsabile delle sue azioni - nonostante lo zen fosse ali'origine di ogni sua impresa. «Dopo tutto - continuava Cage - cos'è oggi, nell'America della seconda metà del XX secolo, lo zen?» La stessa cosa vale per Zaj: pur non seguendo «alla lettera» lo zen, senza assoggettarsi a nessuna erudizione e senza tradire, «volgarizzandolo», lo zen, Zaj riattualizza la preistoria dello zen

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