plementare della metanarrazione. Infatti, con una trovata finale a sorpresa, invero non sufficientemente predisposta, i due facevano comprendere che perfino lo sfruttamento del filone fantastico-irreale era offerto in via ipotetica, come una delle tante risorse ottenibili manovrando il telecomando di un televisore, e «passeggiando» col suo aiuto in su e in giù attraverso i numerosi canali di emissione. Invenzione di grande portata, ma appunto tardivamente invocata, in quel ro,nanzo, e in modi non abbastanza credibili. Sicché l'opera rimaneva spaccata in due, tra la solita abilità nel «rendere» gli spaccati di una brillante vita di società, e i meccanismi di trama che avrebbero dovuto mettere in forma quel medesimo tessuto. Onestamente si deve ammettere che un simile rimprovero non si può ripetere per l'ultimo nato della coppia, L'amante senza fissa dimora, dato che in esso gli Autori partono col piede giusto e al momento opportuno nel disseminare gli indizi, i tratti da cui potrà levarsi il motivo strutturale di ordine metafisico. La divaricazione tra il piano della quotidianità in pantofole e quello di eventi arcani, fuori dell'ordine naturale, si compie con estrema leggerezza, né le due rive si allontanano troppo, restano, per così dire, l'una in vista dell'altra, attente a consentire una convertibilità reciproca. Parlare di «pantofole» per il tessuto prosastico di questo, come dei romanzi precedenti dei nostri due, è sicuramente improprio, o almeno si dovrebbe subito precisare che si tratta di pantofole «firmate», degne di un'umanità di tono sostenuto, tra alta borghesia, residui di nobilità, demi-monde. Quest'ultima prova segna quasi un'acme in tal senso, visto che è ambientata in una Venezia non banalmente turistica, o almeno, frequentata da un turismo di alto bordo, che sa quali sono le stagioni buone, i luoghi giusti da frequentare e via dicendo. Inoltre la protagonista (mai designata per nome, se non vado errato) è addirittura una principessa romana, si muove nel mondo delle aste di antiquariato, e ovviamente ha come partner persone alla sua altezza. È il versante che vede la nostra coppia concedere ai gusti promozionali del pubblico, come vuole la stampa di consumo; beninteso, interviene prontamente l'abilità di ricondurre questo mondo stilizzato e asfittico ai piccoli tic, ai difettucci della comune esistenza, in omaggio al diletto insito nel meccanismo per cui si può constatare che anche i potenti sono come noi, fatti della nostra stessa pasta. In fondo, il protagonista al maschile, portatore di un nome e cognome abbastanza grigi e anonimi, David Silvera, si annuncia tendenzialmente come «uno di noi», un comune mortale, tale da sfigurare decisamente al confronto col mondo aristocratico frequentato da «lei». E la storia d'amore, cui il romanzo vuole attenersi, sarebbe anche una vicenda di mésalliances, di relazioni volgari· ed effimere, se non si avvertisse subito che «lui» ha la stoffa per crescere, per divenire ben presto competitivo nei confronti degli snob, dei dan- ~ dies cui «lei» è legata. E anzi, nel ...... corso di una cena di gala, delizio- <::1 .5 samente narrata, Silvera prende ~ l'iniziativa, conduce il gioco, tocca :::, vette, di savoir faire, divenendo ~ l'irresistibile dominatore della se- ..... 0 rata. E dunque, non è umile di -~ partenza (non basta congetturare :2 doti naturali, nessuno ce la fareb- ~ be a «crescere» in così poco tem- ~ po). Bisogna pensare di essere in ~ presenza di un gran signore in in- ~ cognito. Chi si cela, allora, dietro Ì la sigla slavata e banale di David ~ Silvera? Qui appunto la decisione dei due Autori di prendere la rincorsa, di superare ogni risposta tenuta nell'ambito della verosimiglianza: né «giovin signore» in vacanza, né spia, né intrigante internazionale, il protagonista si rivela per gradi come il rappresentante autorizzato, il portatore di un mito tra i più «litterati» che circolino, egli è nientemeno che l'Ebreo errante, il ciabattino Aasvero già cantato da Goethe, Von Chamisso, Lenau, Sue. I nostri due, quindi, si iscrivono in un nobilissimo albo d'oro, accettando in pieno l'orgia di riferimenti culturali, di citazioni dotte, che del resto consuonano così bene col mondo aristocratico, imbevuto di pretese artistiche, in cui anche la protagonista al femminile si aggira. E dunque, se nella «storia» entra un ritratto tizianesco del banchiere tedesco Fugger, Siivera può stare al gioco, anzi, condurlo, dominarlo, per la buona ragione che egli ha visto coi suoi occhi e in carne e ossa la persona effigiata; e così via, forte di un'esperienza millenaria, l'eroe della vicenda surclassa i pallidi sforzi nozionistici dei suoi interlocutori, battendoli sul loro stesso terreno. Ma, come si diceva all'inizio,· Fruttero e Lucentini hanno l'abilità di non strafare, di tenere il loro protagonista sui toni bassi, di una . modestia che sta tra il senso della misura, l'estrema educazione del rampollo di razza e invece qualcosa di più, la professione di umiltà esistenziale, di umanità nuda di chi si schiera, in ogni caso, a difesa dei valori della vita, del rispetto e della compassione per gli altri. Perfino il mito è riproposto in questa chiave. Infatti, ufficialmente, la favola dell'Ebreo errante è il frutto di un antisemitismo punitivo, pronto a denunciare nel ciabattino Aasvero colui che respinge il Cristo ascendente al Calvario, che gli rifiuta anche solo un attimo di ospitalità. Invece nella revisione condotta dai nostri due si disegna un significato ben diverso. Trovatosi di fronte al Cristo, in una delle sue pnme comparse, David Silvera lo compatisce, vede in lui il figlio destinato da un crudele Padre-Padrone al sacrificio inutile, in nome di reconditi calcoli teologici. Per quanto lo riguarda, Silvera vorrebbe esortarlo a difendere la propria umanità, a preservarla da quella inutile prova estrema. E anche in seguito, e in ogni incarnazione successiva, Siivera ha portato in mezzo alle folle quelle medesime doti di discrezione, di illuminazione contenuta, inserita sul filo della cronaca. Egli è il raggio di sole, il momento epifanico che si apre qua e là, inopinatamente, spegnendosi subito dopo. Beninteso, nel caso in questione queste doti salvifiche, prima ancora che appartenere al protagonista, possono essere attribuite agli Autori, o meglio, alla loro macchina narrativa. La banalità si illumina, la civetteria cultural-mondana è riscattata da un supplemento di anima, d'altronde inserito a tinte discrete, tra il vedere e il non vedere. In fondo, alla fine della vicenda, la protagonista può chiedersi se ha veramente incontrato Silvera, o non si è limitata a dialogare con un proprio fantasma, con un uso diverso degli stessi elementi di cui è intessuta la sua esistenza. M i rendo conto che è assai arduo passare da questa prova morbida, sfumata, condotta nel segno della discrezione e della signorilità, a un romanzo posto invece nel segno della grinta proterva come Yucatan, quarta opera di Andrea De Carlo. Ma intanto anche sul giovane romanziere grava un analogo sospetto di concedere troppo al pubblico, seppure adottando una tattica pressoché rovesciata. Se i due si rifugiano nel bon ton, negli agi della mezza età, De Carlo si pone alla testa di un giovanilismo baldanzoso, pronto a fare causa comune con l'attualità e r suoi simboli e dunque con un ritmo di vita sincronizzato sugli ultimi portati dell'urbanesimo e della tecnologia. Eppure, proprio su questa base si può dare un motivo di incontro. Sia la coppia piemontese, sia il giovane sperimentatore milanese ci si mostrano sicuri cultori di un tessuto tenace, privo cli .smagliature, anche se, beninteso, esso è confezionato, nei rispettivi casi, con patterns totalmente diversi. E il pattern saldamente posseduto da De Carlo è improntato, come è noto, al behaviorismo, a un fare corpo unico con gli oggetti e gli strumenti tecnologici: come se i giovani protagonisti avessero rinunciato agli organi naturali e se li fossero fatti sostituire con telecamere, cineprese, videocassette, rendendosi così omogenei alle circostanze esterne con cui devono misurarsi ogni giorno; e come se i valori della pubblicità, il maquillage del consumismo avessero steso una pellicola densa sulle cose naturali, quasi innestando su di esse un'epidermide artificiale. In questo senso si può ben dire che i precetti dell'école du regard e del relativo «monologo esteriore» hanno fatto scuola, divenendo davvero una realtà diffusa e «normale», cui un giovane narratore dei nostri giorni deve aderire quasi obbligatoriamente: tanto più che la provenienza francese-europea di questi precetti si fonde assai bene con la matrice anglosassone di un proverbiale behaviorismo propnamente detto, trionfante anche in ambito popolare attraverso il genere poliziesco. Abile e sicuro a livello di tessuto, De Carlo capisce bene che non può sfuggire all'obbligo di impostare a sua volta un nocciolo «mitico», un motivo strutturale, altrimenti il tessuto si disperderebbe, privo di una vera incidenza narrativa. E forse è questo l'aspetto più travagliato della sua produzione, incerta se ritrovare affetti e umori abbastanza convenzionali (come avveniva nelle prime due prove), o-se ricorrere al profilo straordinario,:e un po' kitsch di un dittatore, -come accadeva nella penultima opera, Macno. Questa volta l'Autore semb.r.aaver adottato due accorgimenti potenzialmente simili a quelli già visti in azione presso Fruttero-Lucentini: il ricorso a spunti metapsichici, degni di un romance piuttosto che di una nove!, e l'intento complementare di tenerli però in un registro «sottovoce», ben aderenti al tessuto, senza consentir loro di autonomizzarsi. I motivi potenzialmente metapsichici presenti in Yucatan sono filtrati anch'essi dalla invadente chiave tecnologica del romanzo, e di tutta la narrativa di De Carlo, il che significa che consistono in telefonate misteriose, o in lettere, in missive recapitate ai protagonisti facendole passare sotto le porte dei vari alberghi via via occupati (tutti rispondenti, beninteso, a un comfort ufficiale e standardizzato). D'altra parte, è inutile pretendere di col1egare queste comunicazioni misteriose in una rete ben ordita capace di rendere un senso compiuto, di individuare una qualche presenza mitica, ultraterrena, trascendente. In fondo, a differenza di quanto avviene presso la coppia piemontese, il romance è respinto, e ci troviamo semplicemente di fronte a divaricazioni interne del «monologo esteriore», della corrente di coscienza reificata emanante dai diversi protagonisti. O in altre parole, le «voci», le chiamate mistiche, i messaggi cifrati e fatali emanano da loro stessi, corrispondono alle valenze autoriflessive che si levano sul filo stesso del loro «vissuto», a tentativi di ridare spessore a un tessuto di microesperienze, altrimenti atte- . stato su una superficie piatta, priva di rilievo. È ben consapevole di tutto ciò l'eroe della vicenda, il grande regista cinematografico di origine ju-~ goslava Dru Resnik, che a dire il vero inquadriamo un po' da lontano, chiuso nell'inaccessibile guardia della sua personalità d'eccezione. Ma appunto per avvicinarcelo l'Autore prevede come delle pause, dei «cantucci» riflessivi, stampati in corsivo, dove il grand'uomo si confida: «È patetico come riesci a trasferire alla prima voce anonima tutti gli spessori e senconde ragioni e angoli strani che avresti voglia di scoprire» (p. 76). Oppure, detto ancor più eloquentemente: «... continuo a immaginarmi molti più spessori di quanti ce ne siano» (p. 144). Non si apre, insomma, alcun adito a una dimensione mitica. Non c'è alcun dio, anche se opportunamente degradato e in vesti dimesse, che si mescoli alle vicende quotidiane del Tegista e della sua corte. I pellegrinaggi a luoghi deputati dello Yucatan (le piramidi gradinate di Tis Talan, dove si consumavano immani sacrifici umani) rientrano nell'epidermide standardizzata e pubblicitaria, come la carta patinata di un rotocalco, che viene abilmente distesa sui vagabondaggi dei nostri eroi. Eppure il risultato è ugualmente raggiunto, un gioco di punti di vista, di salti dimensionali, di rilievi plastici percorre la trama del «monologo esteriore», vi semina un gran numero di lieviti autre, diffonde dappertutto il sentore di una nausea «normalizzata», di un'estasi fredda.
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