Giovanni Giudici Salutz, 1984-1986 Torino, Einaudi, 1986 pp. 110, lire 16.000 Giovanni Raboni Canzonette mortali Milano, Crocetti Editore, 1986 pp. 72, lire 16.000 Giampiero Neri Liceo Palermo, Edizioni Acquario, 1986 pp. 80, lire 14.000 S e qualcuno mi chiedesse qual è il comune denominatore tra linguaggi di poesia che ci arrivano da personalità molto diverse e in opposizione (pur senza arrivare a lotte fratricide) risponderei senza esitare: rallentare il tempo, quasi fermarlo; quello che su una nave viene espresso così (rivolgendosi al macchinista): avanti piano, quasi indietro. È chiaro che si parla non di tempo «letterario» ma di tempo sociale.Siamo tutti vittime di una spaventosa accelerazione che ci strappa fuori di noi stessi; tale accelerazione sembra avere un senso anche politico: la finale rinuncia al pensiero (quindi al pensiero critico). Sballottati e frastornati dalla continua tempesta temporale che ci trascina lontano, non si sa dove, si è d'improvviso attratti dalla zona di calma atemporale che alcuni poeti sono riusciti mirabilmente a costituire, opponendosi all'insostenibile modello del vivere contemporaneo, con una càpacità di resistenza, più che ammirevole, sorprendente. Di dove viene, ci si chiede, tutt~ questa forza di resistenza? Giovanni Giudici ci ha dato in questi ultimi anni due opere di grande valore, due opere di svol- • ta: Il lume dei tuoi misteri e Salutz. Dico «opere di svolta» perché mi pare evidente che Giudici ha rovesciato il suo punto di partenza, cercando di trovare la vita nel linguaggio piuttosto che «trasporre» la vita nel linguaggio. Giovanni Giudici è, come noto, l'autore de La vita in versi, titolo che svelava alla perfezione il senso del suo operare in poesia. Con le ultime opere è invece il linguaggio che diventa protagonista; il poeta si lascia guidare invece che strumentalizzare, in certa misura, la lingua. Si scopre così che una strada apparentemente formale porta nel concreto delle necessità dell'eOppq~izioni sistere con molto maggiore efficacia dell'antica mimesis ( cioè del linguaggio inteso come «rispecchiamento», per dirla «alla buona»). Avevo già avuto modo di notare che ne Il lume dei tuoi misteri Giudici mi era sembrato particolarmente felice di scrivere poesia, come se si fosse liberato da un peso, da un divieto interno. Ora, in occasione de li'uscita di Salutz, ho riletto e quella prima impressione ne esce rafforzata. Si tratta di una felicità che ci permette di entrare senza incertezze e rigidità nel regno del dolore. Il poemetto Akt è lì a dimostrarlo, con tutta la vitalità che ci viene dal riuscire a parlare dal di là, dall'oltre il confine della morte. Non credo che senza quella felicità linguistica sarebbe stato possibile. Salutz (provenzale, genere letterario prevalentemente amoroso, forma della «lettera epica» che Raimbaut de Vaqueiras scrisse come un testamento) è opera che nasce lungo l'arco linguistico che dalla poesia cortese europea arriva ai giorni nostri. Prima c'è una sorta di «retrodatazione» del linguaggio poetico, come se Giudici si fosse voluto riportare nel periodo antecedente al «dolce stil novo», poi un progressivo avvicinamento al tempo presente. Si tratta di sette parti composte di dieci componimenti di quattordici versi ciascuno: la gabbia numerica contribuisce a quello che è un risultato stilistico notevolissimo, ma che rimarrebbe quasi fine a se stesso, come una questione privata del poeta, confinabile nella sua abilità artigianale, se il tour de force linguistico non ci portasse a quella sospensione del tempo che sta a dimostrare come i tempi linguistici sono diversi e molto più profondi di quelli «storici» e ci costringe all'immersione nel nucleo autentico dell'esistenza, che è la storia della mente ( o dell '«anima», se si vuole) contro e in opposizione alle storie imposte dalla velocità dei consumi. Salutz è un'«impresa di parole» (come l'ha definita il suo autore nella nota finale); proprio perché tale (di parole) si mette, senza illusioni, al servizio di quella che Bateson ha definito «ecologia della mente». Per salvare la mente dall'inquinamento occorre non solo e non tanto spostarsi nel tempo (e immaginare e progettare un «futuro» diverso) piuttosto annullarlo nella forma della poesia. Ma per riuscire nella fuga dal tempo imposto e anche dall'ossessione del futuro, così come dal trauma del crepuscolo dei progetti (che è tipica, per esempio, di un grande poeta svedese stampato in Italia per la prima volta, nella collana «Acquario», Gunnar Ekelof, • Elegia di Moina) non è sempre necessario risalire la strada della poesia «alta» e forse neppure affidarsi ai suggerimenti del linguaggio nel suo farsi scrittura. Mi riferisco a Canzonette mortali di Giovanni Raboni che si serve piuttosto di quella che definirei «confidenza» linguistica, con grande, conseguente fiducia nello stile «medio» del diario, in questo caso inscritto nella cornice amorosa. S i può partire da due esempi, utili soprattutto perché si a~- verte come una matena «spudorata» si piega docilmente a quella «confidenza». a): «Nel bar pieno, fra gente I giovane che mi guarda e ti saluta, / il tuo bisbiglio spudorato, I docile, rauco: Vuoi che te lo succhi?» b): «Mi deliziavo ai tuoi racconti/ d'amore solitario (andare in bagno come / come lo chiamavi). Ma avevo un bel pregarti: / preferivi il mio cazzo, le mie mani» (pp. 35 e 37). A parte, si fa per dire, la bravura nel reggere un tono che in poesia è il più rischioso (proprio perché «medio» e confidenziale) il diario amoroso di Raboni potrebbe essere confinato nel limbo delle opere gradevoli se non si ponesse con decisione al di là del tempo, se le «canzonette» non fossero, appunto, mortali. Lo sganciamento dal quotidiano perdersi dell'esperienza avviene per merito di questo passaggio: l'amore è possibile quando la sua fine è accettata fino al punto da precedere l'amore stesso. Non si tratta, dunque, di recuperare la memoria dell'amore ma di scioglierlo da qualsiasi legame temporale. Risulta così naturale che il diario abbia una «coda»: sette traduzioni di Arnaud Daniel, di cui una va citata, a conelusione e a sostegno del discorso: «Quando il freddo che indura / fa di vetro la scorza del nocciolo / vedo dei dolci canti farsi il brolo: I ma chi sta con Amore I di chi resta e chi va non si dà cura.» Alla «coda» si può attaccare anche un «codicillo», per notare, tra Giudici e Raboni, un punto di partenza provenzalmente comune. Senza ripensare le origini della poesia europea, Giampiero Neri ci ha dato con Liceo (sua seconda. raccolta dopo L'aspetto occidentale del vestito, Guanda, 1976) un libro che sa di antico e si mette sulla nostra strada come una pietra, o un dolmen. Liceo è un titolo lievemente sviante, fa pensare a un uso massiccio della memoria, mentre è vero il contrario: dalle poesie, straordinarie, di Neri la memoria è assente. Il suo linguaggio, infatti, disegna perimetri, di-. segna contorni di oggetti o di città o di libri come se fossero eterni, al di fuori delle leggi della caducità. Giampiero Neri usa il verso ma predilige la forma della «poesia in prosa», proprio per seguire più duttilmente i suoi perimetri. Ho detto che «sa di antico» per sottolineare che si pone in un tempo che non prevede mutazioni, che non ci consegna il senso della storia, piuttosto ciò che è, paradossalmente, prima del coinvolgimento nel fluire «fatale» del tempo. Diciamo che le composizioni di Liceo sembrano frammenti di un'architettura più che cifre linguistiche, come se i perimetri andassero a formare un solo perimetro, quello di una città murata, imprendibile. Ecco un'altra immagine che dalla poesia rimanda al concetto di «opposizione» e di «resistenza». Mi chiedevo all'inizio: di dove viene tutta questa forza, e questa continuità nella forza che accomuna poeti diversi, e li lega solidarmente? Dalla capacità che il linguaggio non ha ancora perduto di spostarsi, come nella mossa del cavallo nel gioco degli scacchi, in una casella libera e ben difesa. Questa capacità si accentua nella poesia. Dicono due versi di Giudici in Salutz: «Se Minnie pur non siete I Aprite il chiuso dove mi chiudete.» Spezzare il cerchio, dunque, rompere l'assedio della storia superficiale del consumo quotidiano per transitare in una dimensione diversa: questo vuole il linguaggio della poesia e da questo obbiettivo recupera il senso pieno del suo fare. Unariuscitaemena Fruttero & Lucentini L'amante senza fissa dimora Milano, Mondadori. 1986 pp. 267, lire 20.000 Andrea De Carlo Yucatan Milano, Bompiani, 1986 pp. 195, lire 18.000 e redo che il «popolo» di «Alfabeta» - chi scrive sulle sue colonne e chi legge - nutra più di un sospetto verso i fortunati prodotti della coppia Fruttero-Lucentini. È facile sospettarli di aver voluto «vendere l'anima al diavolo», di aver tradito cioè le indubbie doti intellettuali, il talento non banale per la narrativa, in vista di un successo di pubblico ottenuto stemperando i toni, adottando in ogni occasione la linea di minor resistenza. Sospetti tanto più legittimi in quanto non si può dimenticare l'ottima partenza di almeno uno dei due, Lucentini, già autore delle splendide novelle Notizie degli scavi, esempi perfetti, negli anni cinquanta, di uno stile bassoRenato Bari/li esistenziale ben attento a superare le trappole del neorealismo e di aprire la strada al miglior sperimentalismo nostrano (Sanguineti non ha mai nascosto i debiti che lo legano allo scrittore piemontese). Sembra dunque che, stanco dell'insuccesso, della diffidenza critica che raccoglieva con quelle sue prove difficili, Lucentini, d'accordo col collega, abbia deciso di spianare il suo linguaggio, rendendolo colloquiale e scorrevole, pronto a mimare con garbo i vezzi del parlato quotidiano, soprattutto delle classi medio-alte. E al carattere corrivo del tessuto discorsivo l'abile coppia ha prontamente associato un ugual grado di scorrevolezza per quanto riguarda gli aspetti di intreccio, incominciando col genere proverbialmente più commestibile, il giallo-poliziesco, che infatti assicurò la vasta fortuna dell'opera prima stesa secondo i criteri del new look, La donna della domenica. A dire il vero, già nell'opera successiva (A che punto è la noi/e) compariva un intento nobilitante: dall'intrigo poliziesco si passava a ~ catturare elementi iscrivibili in un -.. ~ genere fantastico, degno del ro- .:: mance, con un agile ammiccamen- -~ I::),, to a nozioni di gnosticismo, a r---- oscure regioni metapsichiche. E si ~ ....... giungeva così al penultimo pro- 0 dotto, Il palio delle contrade mor- -~ te, che invadeva ormai scoperta- ::2 mente le rive dell'irrealtà, propo- ~ nendo un salto dimensionale nelle ~ «contrade morte», come si potrebbe dire allargando il titolo. Inoltre il tuffo nella metapsichica si ac- .:: s ~ -e g compagnava a una invasione com- ~
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