Alfabeta - anno IX - n. 93 - febbraio 1987

aver visto materializzarsi Fedora dal niente· della mia memoria di lei; il che equivaleva a provare soltanto una violenta nostalgia del potere che avevo avuto due anni prima sulla sua vita. Le ragioni per cui allora avessi deciso di rinunciare, in quel momento mi erano del tutto estranee. Non mi interessava Fedora, che cosa pensasse né chi fosse diventata; rimpiangevo il mio potere, e mi domandavo se sarei stato in grado di restaurarlo in qualche maniera. Poiché fuori cominciava a fare un po' freddo - erano le diciotto e cinquanta - Fedora mi chiese di offrirle un cappuccino al bar della stazione; quando la raggiunsi reggendo la tazza e il piattino, volle a tutti i costi che mi sedessi di fronte a lei. In tal modo restammo entramb,iprigionieri del tavolo, e del suo piano rotondo di formica; entrambi in silenzio a misurare con gli occhi l'altezza del soffitto. Poi, Fedora disse: « Ti ho voluto molto bene, sai?» « Lo so», risposi. Temevo i ricordi, dall'utilizzo dei quali si sarebbe deciso se nei prossimi sessanta minuti Fedora avrebbe pianto oppure no. Potevo anche fare a meno delle sue lacrime - questo era inteso - ma mi avrebbe fatto piacere riuscire a fare rivivere per quel poco tempo che avevamo a disposizione uno spicchio di passato, al quale sarei per sempre rimasto legato da un vincolo di assenza. Mi resi conto di provare una profonda inquietudine all'idea che il mio treno transitasse in anticipo, anziché in ritardo, come sotto sotto ero convinto. Osservai Fedora, le sue mani sottili, il volto magro; una quantità di dettagli che riconobbi e non seppi giudicare, poiché appartenevano a ciò che era Fedora nella mia mente: familiare e irritante, al di là della mia capacità di guardarla come una donna qualsiasi. Ricordai che due anni prima, durante le nostre frequenti gite in macchina lungo la costa, era solita incrociare le gambe sul sedile. Le chiesi: «Che ricordo ti è rimasto del periodo che abbiamo vissuto insieme?» «Pessimo», rispose. «Lo dici per scherzo o sul serio?» «Sul serio! Io non sono come te: a me non piace soffrire. La sofferenza non mi lasciamai un buon ricordo.» «Anch'io ti ho voluto molto bene», commentai. Ma Fedora ci scherzò sopra, rispondendo che io non avevo la più pallida idea di cosa significasse voler bene a qualcuno. « Tu non sai amare - aggiunse - perché sei troppo egoista; mi ha sempre fatto impressione la tua capacità di non amare nessuno.» Attesi un seguito che non venne; mi diede ai nervi la sua abitudine - anche quella immutata - di lasciare le frasi a metà, come se ciò che doveva dire fosse una immensa merenda, da sbocconcellare un morso alla volta. «È possibile che tu non riesca mai a finire un discorso?» dissi risentito. «È finito!» esclamò, appoggiando la tazza sul piattino macchiato di schiuma. «In questo caso non ho capito: che senso ha questa tua affermazione, dopo due anni che non sai più nulla di me!» «Quelli come te non cambiano in due anni; forse nemmeno in duecento.» Guardai il mio orologio: diciannove e zerouno; mi sembrava di essermi intromesso nella conversazione di un altro, dal momento che entrambi rivolgevamo le nostre frasi al cappuccino, oramai quasi bevuto, sul tavolo. Nuovamente consultai l'orologio, avvertii la mancanza di quello tondo appeso di fuori; dissi a Fedora che forse aveva ragione, poiché ci illudiamo soltanto di cambiare, mentre invece rimaniamo sin dalla nascita esattamente gli stessi. «Come al solito, sei eccessivo», commentò. « Vedi che non sono cambiato?» scherzai. Mi annoiavo, ero irritato; nel nostro silenzio fece irruzione la voce di un altoparlante: «Treno 2416 accelerato delle ore diciannove e cinquanta viaggia con quaranta minuti di ritardo. Treno 2416... » Avevamo tempo, non mi ero sbagliato. Fedora chiese un altro cappuccino, limitandosi ad un'alzata di spalle quando le feci notare che due cappuccini a quell'ora le avrebbero rovinato l'appetito. «Mio padre è morto», dissi. «Che cosa!» «Mio padre è morto», ripetei. «Quando!» «Poco prima che tu m'incontrassi in America.» «Se è uno scherzo, è il più odioso che puoi fare», disse Fedora. «Non è uno scherzo: papà era morto pochi mesi prima, in quello stesso ospedale.» «Perché non me l'hai detto!» «E perché avrei dovuto?» «Perché gli volevo bene. Com'è stato!» Glielo spiegai. Le spiegai tutto. Non disse una parola; mi alzai per prendere una birra, e quando tornai a sedermi la sentii dire a voce bassa, rivolta al cappuccino: «Mi dispiace.» Mi accesi un'altra sigaretta e rimasi ad osservare il fumo salire verso il soffitto. Non trovavo niente da dire, e senza ripo'rvi un significato particolare, allungai la mia mano per stringere quella che Fedora sembrava avere dimenticato sul tavolino. Provai l'impulso di scusarmi con lei del fatto di averle dovuto dare una brutta notizia; socchiuse gli occhi, come se fosse sul punto di piangere. «Mi dispiace», dissi a mia volta. «Lascia perdere!» esclamò. Fedora sembrava davvero sul punto di piangere; mi chiese: «Cosafarai adesso?» «Io? Niente: quello che ho fatto sempre. E tu?» «Non lo so, sono molto triste. Perché non parliamo un po' seriamente?» Il passato era finalmente fra noi. Non provavo altro sentimento che una grandissima tenerezza per Fedora, e un grandissimo rimpianto per un passato che alle venti e trenta avrebbe nuovamente cessato di esistere - dato e non concesso che il treno da me aspettato non si presentasse in stazione in anticipo rispetto al nuovo orario comunicato dall'altoparlante. Dissi: «Abbiamo poco tempo: non sprechiamolo.» «Perché mi odii ancora?» chiese Fedora. «Non odio nessuno io; non ti odio, la vita mi annoia.» «Pensi che ci rivedremo?» «Non lo so, può darsi» risposi. «Scusami per quello che ho detto prima», aggiunse. «Che cosa?» «Che soffri per il gusto di soffrire.» «Non ti ho nemmeno chiesto che treno tai aspettando», le dissi. «Il diretto delle venti e quaranta per andare a trovare mia madre», rispose. «Potrei venire con te!» « Vieni pure, se vuoi: non ti aspetta nessuno a casa?» «Non c'è nessuna donna a casa ad aspettarmi, vivo solo.» «Sei sempre lo stesso!» commentò con un sorriso, per la verità assai amaro. Erano solo le diciannove e quindici; avevamo tempo per una breve passeggiata verso la spiaggiapoco distante. Scavalcammo i binari, avviandoci in direzione del mare, nascosto da una striscia di dune; quando comparve all'improvviso attraverso un avvallamento, il suo colore era tra il grigio ed il verde. Mi sembrò brutto e ne rimasi deluso. Fedora camminava in silenzio, tenendo lo sguardo rivolto verso la battigia, dove lunghe onde strascicatesi lasciavano scivolare sulla sabbia, e poi si ritiravano in ampi semicerchi, dopo una corsa longitudinale di qualche metro. Ad un tratto mi disse: «Ti ricordi il mio cane marrone?» «E quello del signore anziano con l'impermeabile di cellophane? Sì, mi ricordo.» «Andiamo più in là, verso l'acqua?» disse, lasciando sospesa la frase precedente. Pensai che avesse voluto dirmi che il suo cane marrone era morto. «Se vuoi, ma il terreno è molle e ci bagneremo le scarpe», risposi. Fedora fece qualche passo in direzione dell'acqua; quando la prima onda si allungò rapidamente sulla spiaggia verso di lei, la vidi affrettarsi a farne tre indietro; sembrava averci preso gusto, uno avanti e tre indietro, cinque a sinistra e quattro a destra:pensai che dovesse esistere una qualche ragione a me ignota per cui Fedora sentisse come un dovere il fingere di divertirsi giocando con l'acqua. Mi sedetti nella sabbia umida ed accesi una sigaretta; quando venne a sedersi vicino a me le chiesi: «Hai ancora quella casa nel Texas?» «No, l'ho venduta da molto tempo.» «Da quanto.» «Da un anno - e aggiunsefra sé - La casa con l'orologio che si rompeva continuamente sul muro di fronte.» «Da quanto tempo sei tornata ad abitare qui?» chiesi. «Sei mesi.» «E prima?» «In un'altra città. E tu?» «Non ho mai abitato qui.» «E che cosa ci fai in questa stazione?» «Ero venuto per trovare mia madre», risposi. Le offrii l'ultima sigaretta del mio pacchetto e gliela accesi; buttai il pacchetto appollottolato lontano, e rimasi a guardarlo rotolare nella sabbia. Fedora appoggiò la testa sulla mia spalla abbracciandosi le ginocchia; continuai: «Avrei dovuto andare a cena da lei, questa sera.» «E perché non ci sei andato?» chiese senza cambiare posizione. «Perché non ne ho avuto il coraggio», risposi. «Sei sciocco; non è stata colpa sua se tuo padre l'ha lasciata. Non ti devi sentire in dovere di fare altrettanto.» «Fedora, sono quasi passati vent'anni da quando me ne andai a vivere con mio padre!» esclamai. «Sai anche tu perfettamente che non è questo il problema. Che ore sono?» «Le diciannove e quaranta», risposi. «Fai ancora in tempo, se vuoi.» «Non voglio - risposi - Non ho voglia di niente, ormai.» «Non è colpa tua», disse Fedora. «Che cosa?» «Se tuo padre è morto, nonostante la tua volontà di salvarlo.» « Lo è invece», risposi. «Hai fatto il possibile!» «L'ho lasciato morire; è questo ciò che la storia racconta!» dissi. «Tu sei pazzo. Non puoi sfidare la morte se non sei disponibile a perdere!» esclamò Fedora. «Non è questo il problema», osservai. «Lo è invece», disse lei. Rapidamente scendeva la sera; poi sarebbe venuta la notte. Immaginai la stanza d'albergo nella quale avrei dormito mentre Fedora era da sua madre; oppure dove avrei aspettato che tornasse. Non sarebbe servito a tenere in vita il passato; non sarei comunque stato a cena con mia madre, e mio padre non sarebbe rimasto ad aspettarmi con la luce accesa. Calcolai le mie probabilità: nessuna, una; potevo solo alzarmi e dirigermi in acqua. Nuotare, senza togliermi nemmeno le scarpe; e poi fissare un punto sulla riva, magari Fedora che mi faceva con le braccia dei segni. Avrei cercato di alzare dall'acqua il mio braccio per rispondere con un saluto, una volta, due volte, agitando l'aria di fiqnco alla mia testa, salutando qualcosa che per la lontananza non vedevo nitidamente. Poi, finalmente, il mio braccio pesante come piombo. Ho già detto che la mia testa si muove per blocchi, scarsamente correlati gli uni con gli altri; in quel momento - forse a causa della presenza del corpo di Fedora che mi pesava da un lato - ebbi la precisissima sensazione che sarebbe dovuto accadere così. Istintivamente, annotai nella mente la data: era il quattro novembre. Spostai un poco la testaper guardare Fedora; teneva gli occhi socchiusi, fissi davanti a sé. Si accorse che la stavo osservando, e senza voltare la testa, disse a voce bassa: « Vorrei poter far qualcosa per te.» «Non credo che tu possa fare qualcosa», risposi. «Non è possibile che non ci sia niente da fare!» esclamò. E aggiunse, finalmente girandosi a guardarmi: «Non è stata colpa mia se non ho saputo interessarmi al tuo segreto; io ti ho amato, ti voglio sempre molto bene anche se non ti vedo da quasi due anni: cerca di capire, non posso sapere che muori un giorno alla volta, e restare a guardarti.» «Ti dimentichi che vivi con un uomo, e che sono passati due anni», commentai. «Non è questo il problema.» «Non credo ugualmente che tu possa aiutarmi», dissi io. «Forse non posso aiutarti in questo momento», rispose lei, tornando a guardare davanti a sé con gli occhi socchiusi, e continuò: «Forse, nessuno può aiutarti; ma tu devi vivere! Per coloro che sono rimasti, e ti amano, come tu hai amato tuo padre. Come io ti ho amato, e continuo ad amarti. Tutto va male per te, in questo momento; ma tutto 'può' cambiare, e per certi versi 'deve' cambiare: perché sei giovane, perché puoi avere tanti anni buoni davanti. Perché vivere è quasi sempre meglio che morire. «Mi ascòlti? « Vorrei chiedere la tua parola: la tua parola che cercherai di vivere. « Vivi! Vivi almeno per me.» Disse Fedora. Guardai l'orologio: diciannove e cinquantotto.· Il vento ci soffiava in faccia un'aria pungente, che bruciava negli occhi: di Fedora e nei miei. Col dorso della mano mi asciugai la guancia dal vento che la bagnava; il mare era diventato color del petrolio. Dissi: «Sono tornato perché il mio tempo non si è ancora spezzato. Sono tornato, Fedora: con i miei ricordi, con il vuoto che ho dentro, con i rimasugli di un capitale disperso; con tutto e con niente.» «Ti sbagli», disse Fedora. Non feci caso a/l'interruzione, continuai: «È tutto finito: sono tornato per continuare a leggere altri libri che raccontano storie di idee e di amori; per scrivere a mia volta altre storie - che sono sempre la medesima storia -; per fingere, Fedora, con graiia e decoro. E soprattutto, per tacere, che è l'unico modo di esprimere l'ineffabile.» «Ti sbagli», ripeté. Accesi una delle sue sigarette. «Fumi troppo - disse Fedora - dovresti fumare un po' meno; non hai una bellafaccia: sei magro, pallido.» «Lo so, non c'è fretta... Torniamo?» «Se vuoi», rispose. Poi disse: «Cosa farai adesso?» «Niente. Aspetterò; andrò avanti ad aspettare.» E aggiunsi: «Hai più visto quello strano signore con l'impermeabile e il cane?» «Non so perché, ma è da tempo che aspettavo questa domanda», rispose. Percorrevamo i nostri passi a ritroso; pensai che potevo benissimo fare a meno di andare con lei da sua madre: glielo dissi e mi sentii sollevato. Entrando nuovamente in stazione, camminavamo tenendo le nostre braccia distese lungo i fianchi. Il mio sguardo fu attratto da un foglietto sull'angolo dello scalino; mi chinai e lo raccolsi. Seduto di fianco a Fedora sulla panchina di ghisa addossata al muro, lessi a voce alta il frammento appartenuto alla medesima agenda: « .. . I fatti riferiti nelle pagine precedenti, appartengono ad un tempo che è contemporaneamente: «il tempo del passato; che è il tempo dei sogni, in cui la memoria vaga e si perde senza provarne vergogna. «il tempo del presente; nel quale ciò che si è detto, si ripete in ogni istante con perfetta iterazione. «il tempo del futuro; che è il tempo nel quale, allorché tutto questo si ripresenterà, la memoria saprà riconoscersi soltanto in una fragile intuizione. « ... E anche là, su ogni angolo del cimitero deserto in cima alla collina dov'era sepolto Michael Furey. S'ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte del cancello e sui roveti spogli. E l'anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l'universo, stancamente cadere come scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti ... » Estrassi di tasca il foglietto precedente; rimasi per qualche tempo a guardarli tenendoli fra le mani, e poi misi entrambi in quelle di Fedora. Le chiesi ancora una delle sue sigarette, baciai la guancia che offrì alle mie labbra, ed uscii dalla stazione.

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